8 strategie per non avere impatto sociale positivo

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    Non ho resistito.

    Unire nello stesso articolo una della buzzword più abusate del 2017 con una delle metodologie di scrittura più cool degli ultimi anni.

    8 strategie per non avere impatto sociale positivo nasce come una guida per condividere quello che i guru dell’innovazione sociale non raccontano mai, quello che è troppo destabilizzante per creare nuove egemonie, quello che dopo diversi anni di militanza come operaio dell’innovazione sociale ho visto e sperimentato in prima persona.

    Ci sono tante culture nelle quali il fallimento è visto come un’opportunità di crescita, e personalmente sposo in pieno questa filosofia, ma non è sufficiente, l’importante non è solo sbagliare, ma imparare più in fretta possibile.

    È fondamentale condividere questi fallimenti, fare in modo che gli altri non ripetano gli stessi errori banali. Come il singolo essere umano migliora sbagliando, anche l’intelligenza collettiva può farlo e a cascata tutti i singoli dei quali è composta.

    Per fare questo ho preparato una lista dove proverò il più possibile a romanzare episodi realmente accaduti, spiegare i fatti senza parlare delle persone.

    N.B.

    Nell’articolo il concetto di impatto sociale verrà utilizzato nel seguente modo:

    “[…] l’impatto è “The positive and negative, intended and unintended, direct and indirect, primary and secondary effects produced by an intervention”. Si parla dunque dell’effetto che ogni intervento genera, e dunque se guardiamo all’impatto sociale intendiamo l’effetto sociale che ogni intervento genera sulla collettività o su specifiche categorie di soggetti beneficiari.”

    1) Raccontatevela sempre fra voi

    Questa è la base, pensiamo di essere tanti, pensiamo che il nostro punto di vista sia condiviso da una larga parte della popolazione, pensiamo di avere sempre ragione perché sui nostri social abbiamo centinaia di persone che la raccontano come facciamo noi… Purtroppo viviamo in delle bolle sociali, con i nostri sacerdoti (riconosciuti pubblicamente per leggere la realtà e tradurla per noi) e i nostri dogmi (che ci indicano i comportamenti GIUSTI da seguire e da non discutere).

    Continuiamo a scrivere articoli di 5 cartelle con la nostra lingua codificata, pretendendo che siano accessibili a tutti.

    Sarebbe interessante riflettere meglio sul target dei nostri scritti e dividerli in 2 grandi filoni, ognuno dei quali comporterà un lessico e un livello di approfondimento differenti:

    Per i neofiti, è necessario fare ancora un grande lavoro di disseminazione, portando alla luce in maniera semplice tutta la ricchezza che questo mondo comporta, ma facendo grande attenzione a non banalizzare (vedi punto 2).
    Per gli avanzati, è importante condividere i propri pensieri e progetti, creando un sapere condiviso, attivando dei dibattiti ai quali possano partecipare anche tutta una serie di innovatori solitari e farli uscire allo scoperto.
    Non essere consapevoli che spesso ce la stiamo raccontando da soli è solo il punto di partenza per formare un professionista dell’innovazione sociale che non avrà senso critico, che non saprà scegliere il suo target e il suo campo di battaglia.

    2) Usate allo sfinimento le stesse parole senza conoscerle a pieno, fate in modo che perdano senso

    Ho creato una nuova startup che lavora in lean, sulla sharing economy, sfruttando feedback circolari per avere impatto sociale sull’ecosistema e sugli hub del territorio, aumentandone la resilienza, la sostenibilità e l’antifragilità.

    Forse qualcuno ha costruito un generatore automatico di frasi con buzzword e non ne sono ancora a conoscenza, io sinceramente potrei continuare a scrivere centinaia di frasi del genere (molto simili a quelle che leggo o ascolto quotidianamente) e contribuire a far perdere senso a queste parole. Certamente, voi che state leggendo, siete un pubblico già formato e conoscete bene questi termini… o anche voi li usate a sproposito come sto facendo in questo momento?

    Quando una parola viene banalizzata non serve più ad esprimere con forza un concetto specifico, non crea più chunk per la nostra intelligenza collettiva, ma rende semplicemente i dialoghi più ambigui.

    3) Lavorate facendo in modo che il vostro nome emerga sempre

    Il terzo punto ha a che fare con l’ego dell’individuo e delle organizzazioni. Solo questo punto meriterebbe uno di quegli articoli da 5 cartelle (magari la prossima volta).

    Per quanto noi tutti viviamo nelle nostre bolle, progetti di innovazione sociale si stanno velocemente diffondendo in tutta Italia, molti condividono territori specifici, ma molto pochi sono in grado di collaborare efficacemente.

    Ogni volta che torno a Roma vedo una grande ricchezza di iniziative (potenziali), ci sono network nazionali ed internazionali, associazioni locali e cittadini attivi che si impegnano per migliorare la città, spesso gli obiettivi sono simili, ma ciascuno lavora sotto la propria bandiera, con il proprio budget risicato, con le proprie competenze parziali, avendo un impatto misero.

    Non è semplice stabilire dei punti di contatto fra diverse organizzazioni con differenti culture lavorative e una moltitudine di strumenti, ma queste integrazioni vanno pensate, magari trasformando il prossimo convegno noioso in un momento di scambio e condivisione dei punti di forza e debolezza, o addirittura pagando insieme un ente terzo che garantisca questo servizio.

    Il risultato potrebbe davvero essere superiore alla somma dei progetti territoriali.

    4) Imponete il vostro progetto, è il migliore

    Vi è mai capitato di vedere progetti di innovazione sociale non coerenti con il contesto?

    Penso che sia successo a tutti, ho visto progetti che hanno funzionato con team, scale, budget e popolazione differenti, vagare di territorio in territorio, solamente perché il “pilota” aveva funzionato discretamente. Ho visto officine pubbliche aperte in quartieri dove la falegnameria non interessava a nessuno, ho visto soldi che venivano sperperati prima ancora di fare un misero questionario alla popolazione, ho visto persone umiliare le altre solo per non ammettere di aver torto e tutto ciò nel nome dell’innovazione sociale…

    Ogni località ha le proprie peculiarità, è importante rispettarle quanto è importante avere una grande conoscenza dell’esistente. Voler replicare con i paraocchi un progetto solo perché è figo o perché è il nostro, potrebbe causare più problemi che vantaggi per la popolazione.

    5) Il progetto che avete scritto è perfetto

    C’è un momento, tra la progettazione e l’azione, dove ciò che hai ideato sembra perfetto. Poi nella messa in pratica tutti i nodi vengono al pettine, possiamo scegliere di ignorarli perché troppo innamorati delle nostre (sacre) scritture o possiamo adottare metodologie iterative atte alla comprensione dei problemi, al miglioramento e all’analisi dei processi. Non mi dilungherò sull’importanza del design thinking in questo genere di processi, ma un territorio è mutevole e non si sa mai con quale parte del sistema si verrà a contatto, quando e come. Bisogna essere flessibili ma allo stesso tempo rigorosi.

    6) Lavorate con progetti estemporanei

    Stiamo organizzando un workshop di rigenerazione urbana, durerà 3 giorni, vuoi venire?

    Il design civico non è un processo banale e semplicistico, non basta andare in un territorio per qualche giorno, fare degli interventi di design pubblico o far scrivere centinaia di post-it a 10 cittadini per fare innovazione sociale.

    I tempi sono lunghi e l’impegno spesso è molto sottovalutato, intervenendo in maniera estemporanea si rischia di inserire prodotti o servizi anomali e estranei in un territorio. Questo accade per diversi motivi, bandi scritti male, poca presenza della PA nel territorio, inesperienza dell’attivatore di processi partecipati. Anche in questo caso si rischia di fare terra bruciata ed ostacolare chi nel futuro vorrà operare in maniera più strutturata. Creare false aspettative nella popolazione può trasformare una curiosità positiva in diffidenza.

    7) Usate tutti fondi per pagare le star

    Mi è capitato di lavorare in un progetto di rigenerazione urbana dove gran parte del budget (non gestito direttamente dal mio team) era stato investito per pagare le (archi) star del momento e ben poco era rimasto per supportare il progetto nella sua quotidianità. Eravamo giovani e inesperti, volevamo fare pratica e per diversi mesi siamo rimasti, cercando piccole strategie di sostentamento per ovviare a questa mancanza, ma purtroppo non ce l’abbiamo fatta.

    Parte della popolazione coinvolta, accortasi che non era rimasto nulla e sentendosi tradita (dato che la maggior parte dei soldi erano stati spesi per pagare persone che nemmeno vivevano in quella città), ha scelto di ostacolare il progetto. Il nostro team si è trovato senza soldi, senza appoggio locale e con gli attivatori del progetto che nel frattempo erano passati a qualcosa di più profittevole.

    Lavorare con persone esperte e con buona reputazione può essere un ottimo modo per creare momentum sul proprio progetto, ma bisogna fare attenzione che queste persone non abbiano la precedenza su quelle risorse umane che con il proprio lavoro quotidiano generano rapporti duraturi con il territorio. Tutti gli stakeholder del progetto vorranno la propria parte, senza l’innesco di meccanismi empatici , si rischia di venire rigettati, si rischia di soffrire e far soffrire.

    8) Non lavorare mai sul team e le sue skills

    Spesso capita che si è così presi dal progetto che ci si dimentica di lavorare sulle persone che lavoreranno al progetto.

    Ho partecipato e faccio parte di tanti team dove il miglioramento personale e delle proprie soft skills è visto come un’inutile perdita di tempo. In quei team, la qualità dei rapporti interpersonali è peggiore, si generano più contrasti e la soddisfazione generale precipita.

    In realtà il tempo che si perde è ampiamente superiore considerando i momenti di frustrazione e frizione del gruppo.

    Ho partecipato e faccio parte di tanti team dove si pone molta attenzione ai singoli e ai loro rapporti. Trovo quasi magica l’intesa che si raggiunge lavorando con una cultura condivisa del lavoro, certe funzioni diventano automatiche e si possono affrontare problemi complessissimi con enorme semplicità.

    Lavorare su noi stessi e su chi ci circonda è il modo migliore per prendersi cura del proprio progetto e farlo evolvere in qualcosa che abbia valore.

    Per concludere

    Dalle 6 strategie per non avere impatto positivo dalle quali volevo partire sono arrivato ad 8, la lista dei punti da trattare continua ad allungarsi, ma non andrò oltre (per ora).

    Vi invito a commentare con i vostri errori, raccontare le vostre storie per condividerle e dar vita ad un confronto positivo.


    Ringrazio molto Valeria Loreti per l’’illustrazione ad hoc, sotto licenza CC by-nc-sa/3.0.

    Note