Il format come svolta radicale dell’intrattenimento

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    Ora è chiaro: «format» è una tra le parole-chiave più importanti per capire e interpretare la televisione e i media degli ultimi vent’anni, e non solo.

    A rendere popolare il termine, sempre un po’ sfuggente, ha contribuito l’uso abbondante (e, talvolta, l’abuso) della parola nell’industria tv, nella ricerca accademica e in quella istituzionale, nei ciclici lamenti dei giornali, nei discorsi da bar o sui social. Di più: persino gli errori e i fraintendimenti ricorrenti, che hanno talvolta portato a intendere il concetto come un semplice sinonimo di «genere» (a indicare i tratti comuni di una collettività di programmi, complice l’apparente concentrarsi del format su alcuni tipi di contenuti) o di «formato» (a sottolineare le misure, dimensioni e strutture stabili degli show, e la colpa qui è da attribuire alla doppia valenza del lemma inglese) hanno paradossalmente aiutato quest’idea a imporsi e a trovare una diffusione vastissima.

    Il format si trova al centro delle due principali tendenze dei media di oggi: la globalizzazione, di cui costituisce uno degli avamposti, consentendo la circolazione di idee e immaginari tra molte nazioni; e la convergenza, rappresentata dal molteplice declinarsi di esperienze e modelli sulla tv e su altri media. Ha insieme un ruolo industriale e culturale. Collega tra loro la produzione, i testi e il consumo. Quello dei format è stato, ed è tuttora, un cambiamento profondo, che modifica i linguaggi e la macchina della tv, riduce e insieme moltiplica i rischi di un mercato globale, e traccia lungo direttrici differenti, almeno in parte inedite, i confni e i percorsi dell’intrattenimento televisivo. È un passe-partout, ma anche – e forse questa è la ragione ultima della sua esplosione – un dispositivo imperfetto, sempre da «aggiustare».

    La quadratura di tanti opposti

    Il format è un ossimoro, un concetto capace di tenere assieme idee opposte, agli estremi, e condensarle, sfruttando nel migliore dei modi sia la contraddizione (apparente) sia la ricerca di una sintesi (obbligata).

    Si tratta di un testo compiuto e insieme ancora da completare, già pronto per la vendita e definito in ogni dettaglio, ma allo stesso tempo sospeso in attesa della grande quantità di integrazioni, aggiustamenti e modi che che la circolazione nello spazio e la durata nel tempo inevitabilmente comporteranno.

    È un oggetto globale ma anche nazionale, pensato apposta per oltrepassare frontiere e pronto ogni volta a reincarnarsi nelle culture e negli immaginari locali.

    Come scrive Chalaby: «La catena del valore televisiva sarà globale […], ma i format televisivi nascono e muoiono come programmi nazionali e locali. In realtà, hanno bisogno di diventare locali per restare internazionali».

    Se dalla matrice si generano più adattamenti, attenti alle specificità e alle richieste dei singoli sistemi televisivi, la fortuna di ciascun format dipende proprio dal computo delle sue localizzazioni di successo.

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    Jean K. Chalaby sarà in Italia oggi 2 maggio alle 19.00 da Open a Milano insieme con Eugenio Bonacci, Alberto Sigismondi, Fabio Guarnaccia, Luca Barra. E giovedì 3 maggio alle 18.30 alla libreria Ibs-Libraccio di Roma con Giancarlo Leone, Cristiana Mastropietro, Luca Balestrieri, Luca Barra.

    Nel format si incontrano la creatività e la tecnica industriale: è un modello che nasce da uno sforzo ideativo complesso e che tenta di diventare un meccanismo produttivo; è una struttura fatta di regole, schemi, furbizie e strategie, ma anche una sostanza che prevede (anche) il guizzo artistico.

    Sempre Chalaby: «Un buon format è una piattaforma che sparisce dietro il dramma che crea». Nell’industria culturale, i due poli sono inscindibili; ma la cultura funziona meglio se riesce a nascondere l’industria. Da un lato, si standardizzano i ritmi, i colori, gli spazi e i tempi, le frasi fatte, in generale l’estetica del programma; dall’altro, ogni nuova occorrenza ibrida, moltiplica, rimescola gli ingredienti e i fattori in modi almeno in parte inattesi.

    Le best practices, che facilitano l’impiego ubiquo dei testi, sono inscindibili dall’ideazione di un linguaggio differente, in parte condiviso, in parte rimodulato ogni volta. […]

    La complessità di una definizione

    Il format è anche uno scheletro, che ogni volta si incarna in programmi in parte differenti. Darne una definizione compiuta è difficile, data la natura molteplice e (volutamente) slabbrata. […] Più interessante, e certo più utile, è allora puntare l’attenzione sulle molteplici dimensioni del format, come emergono, talora sotto traccia e altre volte in piena evidenza, nel corso dell’argomentazione: una serie di direzioni, da districare ma che inevitabilmente si sovrappongono e si confondono tra loro.

    La prima dimensione è quella economica. I format sono merci, properties dal valore commerciale, vendute dietro compenso (la license fee). Società grandi e piccole si occupano di ideare, sviluppare, produrre o compravendere questi modelli.

    In anni recenti, le major hanno affrontato fusioni e acquisizioni e sono diventate grandi conglomerati, specializzando i compiti e sfruttando le economie di scala. Le aziende si confrontano nei mercati internazionali, arene grandi e diffuse, ritrovi annuali dell’industria tv globale dove i distributori vendono (a tutti) e i buyer comprano (per il loro mercato nazionale), dove si intrecciano rapporti e collaborazioni, e dove si pongono le basi per gli accordi, si sedimentano rituali di proposta e vendita, si contratta, si mettono in scena i trend e si presentano le novità della stagione.

    Una seconda dimensione è quella legale. Qui i format sono intellectual properties, proprietà intellettuali soggette a diritto d’autore e copyright, marchi registrati e basi di partenza per espansioni e franchise. E allora contano le forme che i contratti di licenza assumono nei vari paesi, le specificità e i dettagli degli accordi, i diritti di remake e quelli ancillari, legati ad altre piattaforme e modalità di sfruttamento. E poi la difesa, a livello globale e nazionale, della creatività originale del format, la protezione dai plagi e dalle copie carbone (copycat), la lotta alla pirateria dei testi e delle idee che ne stanno alla base.

    Il format ha quindi una terza valenza, la dimensione produttiva. Diventa un programma ideato, realizzato e compiuto, frutto di routine professionali, di figure tecniche e creative, di competenze e ruoli coinvolti a vario titolo nella «macchina» televisiva.

    Esclusa la strada del ready-made (la trasmissione, doppiata o sottotitolata, dello show già realizzato e andato in onda altrove), acquisendo i format o sviluppandone uno, la società di produzione e il broadcaster mettono in moto processi fatti di decisioni, tentativi e fasi precise: la potenza diventa atto, lo schema si sostanzia nel programma «vero».

    Di solito, lo spiega Chalaby, ogni rete e mercato affronta prima l’adattamento dei format che già circolano, e solo dopo (e neppure sempre) si lancia nella creazione originale di contenuti che a loro volta potranno diventare format e viaggiare altrove.

    Le culture produttive, i modi di fare e le consuetudini nazionali innervano la «traduzione» del format in un programma; e anche la pubblicità ha un ruolo, nel caso del branded content.

    Una quarta dimensione è poi, inevitabilmente, quella distributiva. Marchi e idee circolano in vari paesi del mondo, ogni volta conteggiati a indicare il successo di un titolo, e sono trasmessi su reti dalle linee editoriali e dai modelli di business differenti (generaliste o tematiche, commerciali o di servizio pubblico, free e pay).

    Ogni passaggio è un adattamento, una «mediazione nazionale» che avviene sia direttamente, nel corpo del testo, sia indirettamente, con le decisioni che ne regolano la collocazione in palinsesto, le scelte di programmazione, le modalità di comunicazione e promozione, più in generale la «messa in quadro». Il format è un tassello fondamentale di una catena del valore del contenuto tv radicalmente cambiata (e tuttora in evoluzione), il centro di un «ciclo di vita» complesso che in ogni mercato locale affronta fasi di nascita, evoluzione, esaurimento, morte, e talvolta rinascita.

    La distribuzione intreccia i remake nazionali dei format, risultato della produzione originale, con i ready-made degli stessi programmi già in onda altrove, che pur meno pregiati possono soddisfare il pubblico più appassionato; e colloca i contenuti lungo le varie finestre e piattaforme (seguendo le licenze), comprese quelle on demand.

    La quinta è la dimensione estetica, linguistica e culturale del format. Sia i modelli di programma sia le loro realizzazioni concrete sono testi dal valore simbolico, che costruiscono immaginari e intrecciano storie e narrazioni (per quanto prosaiche).

    I format sono liste di regole da rispettare, rigide o più flessibili; sono brand, che evocano suggestioni o fungono da garanzia; hanno uno o più stili (della rete, della casa di produzione, del paese ideatore); tengono insieme elementi classici, tradizionali, persino abusati, e innovazioni che possono fare la differenza; diventano l’innesco di un transmedia storytelling che attraversa più piattaforme.

    Dal punto di vista testuale, la divisione più netta è tra format unscripted, senza copione (ma con leve e strumenti di una «tv della realtà» variamente definita), e quelli scripted, con sceneggiature «scritte» e le armi della fiction. Le distinzioni di genere e sottogenere sono insieme la causa e il risultato di modalità produttive, creatività e linguaggi differenti, e dei differenti sistemi di attese del pubblico. Ogni format ha regole fisse, e in più ogni genere porta con sé i suoi punti di forza e i suoi vincoli: i quiz e game show, i reality o i talent, i factual e il general entertainment, le comedy o i drama – secondo confini ogni volta ritagliati in modo diverso. […]

    Infine, in questa tipologia incerta e abbozzata, la sesta e ultima dimensione è quella del consumo. I format sviluppati, scritti, venduti, prodotti e distribuiti trovano il loro compimento nella visione del pubblico, o meglio dei pubblici sparsi nelle nazioni in cui arriva il programma.

    L’interesse e il successo (temporaneo o duraturo) dipendono dagli spettatori nazionali, dal modo in cui affrontano e decodificano lo show, dai vincoli imposti dal gusto e dalle attese locali (spesso interpretati ex ante dagli addetti ai lavori), dalle abitudini e pratiche di visione che si vengono a creare.

    Allora conta il modo in cui il testo «trova» i suoi spettatori, sperabilmente numerosi, e ne innesca la visione e la partecipazione: sviluppando il discorso condiviso sul prodotto, votando al telefono o sui social, diventando fan, condividendo video e risorse online, sfruttando le opportunità della tv convergente, estesa, multipiattaforma.

    E contano le audience aggregate, i dati di ascolto quantitativi (che si possono confrontare tra paesi e arricchiscono il dossier del programma) e le ricerche qualitative: il format è l’oggetto perfetto per valutare diverse forme di ingaggio e per comprendere le prossimità (o le distanze) tra gli spettatori di culture differenti.

    Un altro «specifico televisivo» è possibile? […] In un recente convegno presso l’Università di Bologna («Media Mutations», 23-24 maggio 2017), Jean Chalaby ha portato alle estreme conseguenze le tesi del suo libro, sostenendo come la «rivoluzione del format» sia un cambio di passo non tanto per l’ampiezza, la diffusione o la molteplicità del fenomeno, quanto invece per la sua capacità di creare (finalmente) un discorso televisivo originale, di ritagliare uno spazio di pertinenza esclusiva del medium.

    Solo alla fine degli anni Novanta, a mezzo secolo di distanza dalla nascita della tv, il format fa da grimaldello e aiuta il piccolo schermo a trovare la sua originalità, a realizzare programmi diversi dalle narrazioni già esistenti, separati da fattori e meccanismi esterni (come le news o lo sport) e dalle altre industrie creative (come l’editoria, il cinema, la radio).

    Grazie a generi del tutto nuovi, come il reality, il talent e il factual, difficili anche solo da pensare prima del meccanismo del format, oppure attraverso un «trattamento formattizzante» che ripensa, e ribalta, i generi di più lunga tradizione come il quiz o la soap opera, avviene una rottura, una ripartenza importante. La tv trova la propria «voce interiore», il suo spazio distinto, e lo fa grazie a quelle strategie narrative che consentono al mezzo di sviluppare le sue storie e i suoi eroi, grazie al controllo totale delle situazioni rappresentate, finalmente raggiunto, e grazie ai meccanismi di scrittura televisiva indiretta quali casting e montaggio.

    È una tesi forte, che ha forse il difetto di ridurre la complessità storica in una linearità troppo semplice. Al tempo stesso, però, è una chiave di lettura suggestiva, dall’indubbia efficacia. Chalaby si ferma prima di quest’ultimo passaggio, ma il ruolo che assegna al format richiama da vicino un dibattito dal sapore antico, che ha caratterizzato (in Italia e altrove) il discorso giornalistico e specialistico sulla tv dei primi anni. […]

    Un’ipotesi può allora essere quella di considerare il format, che si è fatto attendere a lungo ma in fondo è lì da sempre, come un vero, nuovo specifico televisivo: uno strumento che riempie il piccolo schermo di narrazioni e immaginari autonomi e originali, l’innesco di un processo che porta la tv verso nuovi spazi e linguaggi.

    Che l’ipotesi sia fondata o meno, ha il pregio enorme di mettere in evidenza il ruolo cruciale del format nello scenario contemporaneo, e di sottolineare il ripensamento profondo che sta modificando le basi e i confini dell’intrattenimento televisivo.


    Pubblichiamo un estratto dalla postfazione al volume di John K. Chalaby, L’era dei format (Minimum Fax)

    Immagini di copertina: ph. George Coletrain, ph. Ajeet Mestry da Unsplash

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