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Il teatro domestico di Gabriel Garcin parla ai nostri giorni di distanze obbligate

Il 18 aprile è venuto a mancare Gilbert Garcin, l’artigiano della poesia surreale, il funambolo su carta del non senso, sognatore di mondi senza tempo, ma il suo Mister G. non morirà mai e continuerà ad aggirarsi in quegli spazi fatti di cartone, alle prese con le mille assurdità della vita, un Sisifo dai capelli bianchi, soprabito grigio e scarpe di lucida vernice, destinato a non portare mai a termine i compiti impossibili con cui si trova a misurarsi.

Tutto è fatto con una macchina fotografica, forbici, colla e un proiettore di diapositive per creare gli sfondi. E con una fantasia che, in tarda età, non smette di inventare mondi illusori, permeati di fiaba in versione senile, di un umorismo allucinato alla Beckett che arresta il suo riso davanti alla logica violata di Magritte.

Mister G. è il protagonista di un teatro dell’assurdo che mette in scena l’insensatezza della condizione umana, dove l’ironia è il volto coraggioso dell’angoscia. E non c’è nulla di più serio del riso che si origina davanti alle sue scene.

Gilbert Garcin, a 65 anni, ha creato con le proprie mani la sua seconda vita, condividendola con il suo doppio di cartone, il protagonista assoluto delle storie insieme alla moglie Monique. Nelle storie che mette in scena troviamo echi della mitologia greca e dei suoi intramontabili eroi (Icaro, Sisifo, Narciso), le metafore dell’amore, i paradossi logico-visivi del surrealismo magrittiano. Tutti temi trattati ricorrendo a dispositivi insieme leggeri e ben congegnati, che sembrano ereditare la visionarietà artigiana di un altro grande francese del passato creatore di illusioni, il regista Meliès.

Le rotture logiche e le discordanze, rappresentate nelle sue scene, sono una curiosa miscela di candore e razionalismo e il messaggio dell’immagine arriva diretto all’osservatore. È il messaggio allo stesso tempo puro e impudente, quello che non ammette repliche e obiezioni, proprio del sognatore, del poeta o dell’artista. E Garcin, onnipotente burattinaio, getta il suo personaggio nei mondi che allestisce con la sua immaginazione, alle prese con compiti impossibili, proprio come l’uomo concepito dalla filosofia esistenzialista, alleggerita dall’umorismo tenero alla Tati.

I personaggi delle sue storie sono modellini di carta di dieci centimetri, ritagliati con le forbici e incollati su piccoli pezzi di cartone, spesso ricoperti da un pugno di sabbia di La Ciotat. Non è semplice distillare la semplicità delle scene e delle metafore, evitando le eccedenze che possono disturbare l’essenziale evidenza dell’allegoria, ma Garcin riesce sempre a creare immaginari universali e senza tempo, che arrivano alla sensibilità di tutti.

La cosa più sorprendente, infatti, è che riesca sempre a toccarci con le sue piccole e sottili produzioni fai-da-te. E, se l’incantesimo funziona, è perché in queste “piccole filosofie” ci parla di prove che riguardano tutti noi: lo scorrere inesorabile del tempo, il senso di inadeguatezza nei confronti delle prove cui la vita ci chiama, l’identità, il narcisismo, la ricerca dell’amore. Ma lo fa non in modo assertivo, bensì costruendo delle polisemie visive, delle metafore ambivalenti che creano una polarità tra pathos e divertimento, tra antagonismo di opposti e giocosità, tra reale e immaginario.

Nello stile surreale che gli è proprio, Garcin, nel suo ridotto teatro domestico, crea piccoli mondi arcaici, minimalisti, quasi lunari, che evidenziano quelle piccole imperfezioni tecniche e strane prospettive che conferiscono fascino alle sue composizioni.

L’altro pregio, come si è detto, è la semplicità, ottenuta innanzitutto mediante l’impiego di forme geometriche elementari (rette, cerchi, quadrati) e mediante il ricorso a contrasti netti, come quelli tra nero e bianco, tra figurativo e astratto. Una semplicità che beneficia della portata del messaggio verbale costituito dal titolo che accompagna ogni fotografia, il quale contribuisce a determinarne il senso, senza mai chiudere l’opera in una cornice ristretta, ma aprendola a interpretazioni multiple, talora persino contraddittorie.

Numerose sono le immagini in cui mette in scena la coppia, cioè il suo doppio immaginario, dalla faccia monoespressiva, e l’immagine della compagna Monique. E in alcune di queste, entrambi sono alle prese con la ricerca di un incontro che non avviene quasi mai, come in L’équilibre parfait (2004), in cui i due personaggi sono ai bordi opposti di un asse, in precario equilibrio su uno spuntone roccioso: malgrado si tendano le braccia a vicenda, nessuno dei due potrà avanzare verso l’altro, pena la rovina di entrambi.

In altre opere, le due figure seguono movimenti divergenti, che li portano ad allontanarsi l’uno dall’altra. In un’immagine, Garcin rende lo stesso effetto di allontanamento e di estraneità inserendo nella scena la miniatura di un quadro famoso del pittore che più di ogni altro ha espresso l’incomunicabilità della coppia, Edward Hopper. Nel suo Another Day (dopo Edward Hopper) vediamo Mister G. avanzare verso destra, illuminato dal sole, mentre la donna del dipinto è orientata verso la direzione opposta.

Quelli creati da Garcin sono mondi privi di proporzione e di gravità, in cui incombe la minaccia del nulla. Nelle loro atmosfere poetico-assurdo-gioiose continueranno a rivivere le favole filosofiche create da questo meraviglioso autodidatta della messa in scena, e i suoi personaggi, grigi e ordinari, seguiteranno per sempre a cercare di districarsi tra esperienze straordinarie e tra le assurdità dell’esistenza umana, ponendo a noi spettatori delle mute domande a cui non sapremo dare risposte, ma che certamente sapremo capire. E sapremo ringraziare questo poeta, spiritoso e malinconico, per il sorriso con cui ce le fa arrivare al cuore.


In copertina: Gilbert Garcin. La mécanique des couples, 2002. Courtesy Galerie Les filles du calvaire, Paris