Odiare l’arte contemporanea

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    “L’arte contemporanea è una specie di patina o sostituto che fa credere che tutto vada bene, mentre la gente annaspa sotto i colpi di politiche choc, campagne militari choc, reality show, tagli di corrente, tagli di tutti i generi, GIF di gattini, gas lacrimogeni, la cui somma smantella completamente e resetta l’apparato sensoriale e, potenzialmente, smantella e resetta anche le facoltà umane di ragionamento e comprensione, provocando uno stato di choc e caos oppure di depressione iperattiva permanente” (Steyerl, p. 87)

    Money-art

    La pubblicazione di Art after Money, Money after Art: Creative Strategies Against Financialization (Pluto Press, 2018) di Max Haiven, professore associato di Culture, Media e Social Justice presso la Lakehead University ci permette di rivolgere uno sguardo retrospettivo e prospettivo sul rapporto fra produzione artistica e valorizzazione finanziaria.

    Nell’estate del 2013 mi trovavo alla 55ma Biennale di Venezia ed ho potuto osservare come molte delle opere presenti nei padiglioni nazionali e nel padiglione italiano avessero come oggetto di riflessione e rappresentazione il denaro. La situazione post-2008 e post-Occupy chiamava l’arte contemporanea a prendere posizione rispetto alla visualizzazione di rapporti economici sempre più immateriali, sempre più iniqui e sempre più distruttivi.

    L’anno successivo, nel corso della compilazione della mia tesi di dottorato, mi trovavo a Parigi, ed al Centre Pompidou si poteva visitare una retrospettiva sulla famosa esposizione Magiciens de la Terre, la quale conteneva l’opera Mission/Missions (How to Build Cathedrals) dell’artista brasiliano Clido Meireles: un recinto quadrangolare composto da una parte inferiore (monete), una superiore (ossa) e un cordone di ostie a connettere i due piani.

    Rievocando l’archivio coloniale delle missioni in Paraguay, l’artista voleva creare una semplice equazione in grado di connettere il potere economico a quello spirituale-ideologico e la conseguente tragedia che emerge dalla fusione di queste due modalità di dominio. È questo il genere di opere al quale Haiven fa riferimento nella prima parte sezione del libro, prendendo spunto dalla formula di Fredric Jameson: “la totalità del capitalismo desidera essere rappresentata, ma si nasconde costantemente alla vista” (Haiven, p. 39).

    I regimi visivi di rappresentazione del potere economico seguono le rotture tecnologiche ed epistemiche della storia del capitalismo. John Berger, ad esempio, ci parla di pura visualizzazione dell’accumulazione nella pittura ad olio olandese del XVII secolo nel suo Questione di sguardi: la ritrattistica borghese, le nature morte ed i paesaggi sono tre forme della stessa cattura ed esposizione della proprietà privata.

    Radicalità e speculazione 

    Ma, afferma Haiven, l’arte può anche rivelare o riflettere sulla sua problematica connessione col valore economico attraverso gli strumenti della modellizzazione in scala, della satira e dell’autoironia.  Il contributo di Haiven a un’analisi della struttura dell’arte contemporanea diventa proficuo laddove viene stabilita una diretta correlazione con la speculazione finanziaria. A partire dagli anni ’80 il mercato dell’arte vede una crescita esponenziale di biennali, fiere, gallerie, esposizioni e del prezzo delle singole opere di alcune personalità di spicco.

    Il criterio della gerarchia del visibile (o della partizione del sensibile, per utilizzare un’espressione di Rancière) diventa l’accumulazione di hype, sotto forma di intellettualizzazione del lavoro dell’artista (discorso critico attorno alle opere), networking (accumulazione di reputazione e capitale sociale) e culto della novità e dello choc (Cohen-Solal, Terroni, p. 29-58).

    Adottando una prospettiva operaista (che, come vedremo, è anche il fine ultimo della proposta di Haiven) Maurizio Lazzarato descrive il tentativo (fallito) di Duchamp di decostruire il ruolo borghese dell’artista all’interno della sua nuova funzione all’interno di un’economia di consumo dei beni immateriali. Ciò che i ready-made avrebbero dovuto rappresentare, era, in ultima analisi un luogo di destituzione della forma-merce.

    Dopo gli anni ’80, invece, accade l’inverso: il metodo di creazione della reputazione, già operante nel campo artistico, si trasferisce nel regno delle derivate finanziarie. Mentre il denaro si scollega dal suo referente aureo e le opere si spogliano della loro aura cultuale, l’attenzione si sposta al fashioning del singolo artista.

    Cripta, crittografia 

    Tuttavia, le deboli forze cognitive della nostra specie non ci permettono di abbracciare iperoggetti completamente invisibili: abbiamo bisogno di finzioni e materialità. E qui entra in gioco la nozione di cripta o crittografia (Haiven, p. 142, 175).

    Riprendendo un concetto di Jacques Derrida, Haiven descrive il cuore dell’arte e della finanza contemporanee come un luogo ermetico e stregato: “Il capitalista usa la sua ricchezza per procurarsi questo simbolo che chiamiamo arte proprio per ricompensare sé stesso per il suo ruolo nel riprodurre un sistema che sta oggettivamente distruggendo o strangolando ciò che l’arte è chiamata a simboleggiare” (Haiven, p. 177).

    Protetta, securizzata, occultata alla vista del 99% l’arte continua a vivere, in forma fantasmatica ed auratica, dentro i porti franchi di Ginevra o Singapore (Steyerl, p. 80) – enormi edifici a metà strada fra una banca, un deposito di server ed un museo privato dove le élites deterritorializzate stipano e proteggono le opere in loro possesso.

    Per Nicolas Bourriaud (p. 16) la funzione dell’arte contemporanea è quella di produrre esperienze prefigurative di rapporti sociali utopici, creare in vitro l’esperienza di un mondo estraneo al Realismo Capitalista. Diversamente, per Hito Steyerl (p. 152) e Haiven (p. 183, 184), il museo e l’esposizione racchiudono in una enclosure (un vero e proprio cerchio magico) tutto ciò che ha valore, senso, bellezza, giustizia e perfezione, perché l’arte e la finanza speculativa (come in Cosmopolis di Don DeLillo) sono affascinate dalla perfezione e dalla simmetria dei modelli.

    Cerchio magico dell’arte contemporanea 

    Un oggetto artistico, una performance, un’esposizione, più che contenere un mondo possibile, sono un modello semplificato della nostra percezione (Lévi-Strauss), ovvero una sorta di giocattolo composto di pezzi componibili e smontabili.

    Nel film The Square (Östlund 2017) il cerchio magico dell’arte contemporanea è rappresentato da uno spazio delimitato da un perimetro bianco che recita “Il Quadrato è un santuario di fiducia e amore. Al suo interno abbiamo tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri”. Ironicamente, per rendere visibile al pubblico di massa il contenuto radicale dell’opera, viene proposta una campagna pubblicitaria estremamente violenta, che contraddice punto per punto quanto asserito nella didascalia del Quadrato.

    Secondo l’antropologo britannico Alfred Gell (p. 133) la spiegazione cognitiva del fenomeno che Marx chiama “feticismo delle merci” risiede nell’attribuzione di personalità, vita e facoltà di agire ad entità inanimate. Più precisamente, l’oggetto magico o di culto contiene, come un involucro, un tempio o un reliquario, una vera e propria sostanza senziente – una presenza.

    Nel caso della cripta descritta da Haiven, ciò che le esposizioni, i musei, ed i porti franchi dell’arte racchiudono e trattengono è una certa idea di futuro: la possibilità di una trasformazione radicale della totalità dei fenomeni politici, sociali, climatici.

    Eppure, tutto ciò esiste solo perché, all’interno del Realismo Capitalista, questo cerchio magico deve sopravvivere, per rendere sopportabili le devastazioni ambientali e sociali che esso stesso produce. In conclusione, Haiven non propone un salvataggio dell’arte e della finanza, ma la loro abolizione (p. 212).

    Odiare l’arte 

    Decriptare l’arte contemporanea è un compito duplice: da un lato si tratta di concettualizzare e rendere pensabile ciò che è inscritto ermeticamente nei suoi modelli di riorganizzazione del sensibile; dall’altro si tratta di erodere i confini (materiali e sociali) che trattengono le potenzialità inespresse dell’immaginario collettivo.

    Un approccio meramente “deittico”, volto a segnalare arbitrariamente questa o quell’esperienza radicale non è sufficiente: è necessario profanare il cerchio magico dell’arte con altre strategie.

    Un’ipotesi più interessante è quella di politicizzare e complessificare il design, come proposto da Benjamin Bratton. Si tratterebbe quindi di estrarre il design dall’oscillazione fra seduzione e ornamento che lo connotavano del XX secolo per riconoscere il ruolo di metodo speculativo, decisionale, e governativo che oggi ricopre.

    Per quanto ininfluente rispetto alla totalità del mercato finanziario, l’arte contemporanea potrebbe costituire il centro occulto della sua teologia economica (Benjamin): una forma arcaica di preservazione della Civitas Dei all’interno della guerra civile planetaria.

    Un’ulteriore strategia potrebbe essere quella del pessimismo benigno (Haiven, p. 130), ovvero un atteggiamento di disattivazione dell’hype pervasivo (nella finanza, nell’arte, nell’economia della reputazione) associato ad una disillusione strategica nei confronti delle prospettive emancipatorie del gesto artistico radicale.

    La riformulazione della gerarchia del sensibile non può che cominciare con una rielaborazione delle aspettative irrealistiche rispetto alla funzione sociale dell’arte. In altre parole, bisogna odiare l’arte contemporanea (per modificare l’espressione di un testo di Ben Lerner) perché ci ha promesso mondi che non si sono mai attualizzati, ma anche perché, dentro il suo recinto magico, conserva il magma immaginativo prodotto dall’intera società, sublimato in forme enigmatiche ed inaccessibili. Liberare questa instabile potenza immaginativa è un compito allo stesso tempo di design e di politica.

    “Detestare [l’arte] può quindi essere o un modo di mostrare, al negativo, l’[arte] come ideale – cioè un modo di esprimere il nostro desiderio di esercitare quelle capacità immaginative, di ricostruire il mondo sociale – o una reazione rabbiosa contro la semplice idea che un altro mondo, un’altra scala di valori sia possibile. In quest’ultimo caso, l’odio per l’[arte] è una specie di meccanismo di difesa: ci si scaglia contro il simbolo di ciò che si sta reprimendo, ossia la creatività, il senso di comunità, il desiderio di una misura del valore non “calcolatrice”* (Lerner, p. 55)


    *Ho sostituito il termine “poesia” con “arte”, anche sulla base della comune radice greca di ποίησις (fare, produrre).

    Bibliografia   

    Berger, John, Questione di sguardi, Milano, Il saggiatore, 2015.

    Bourriaud, Nicolas, Esthétique relationnelle, Dijon , Presses du réel, 2001.

    Cohen-Solal, Annie, Cristelle Terroni (a cura di), La valeur de l’art contemporain, Paris, PUF, 2016.

    Gell, Alfred, Art and agency: an anthropological theory, Oxford-New York, Clarendon Press, 1998.

    Haiven, Max, Art after Money, Money after Art: Creative Strategies Against Financialization, London, Pluto Press, 2018.

    Lazzarato, Maurizio, Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro, Milano, Edizioni Temporale, 2014.

    Lerner, Ben, Odiare la poesia, Palermo, Sellerio, 2017

    Marc, Jongen, Franchini Stefano (a cura di), Il capitalismo divino colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione con Boris Groys, Jochen Hörisch, Thomas Macho, Peter Sloterdijk e Peter Weibel, Milano; Udine, Mimesis, 2011.

    Rancière, Jacques, La partizione del sensibile. Estetica e politica, Roma, DeriveApprodi, 2016.

    Steyerl, Hito, Duty free art: l’arte nell’epoca della guerra civile planetaria, Monza, Johan & Levi, 2018.

    Note