Il ritorno imprevisto delle Gif (Graphics Interchange Format, formato d’interscambio grafico) animate sugli schermi degli utenti dei social media è una delle caratteristiche più interessanti del panorama della comunicazione digitale di questi anni. Originariamente il formato era utilizzato per la sua capacità di sintesi dell’immagine: con il dispendio di pochi byte e la compressione ad un massimo di 256 colori, le Gif erano la soluzione ottimale per piccoli banner pubblicitari animati.
Un’intera generazione di grafici, all’inizio degli anni ’00, si è fatta le ossa ottimizzando banner che dovevano combinare la leggerezza con la capacità di attrarre l’attenzione. E, anche se questo non ve lo racconteranno mai, molti di loro l’hanno fatto soprattutto per siti pornografici grandi e piccoli, che proprio sui banner shoccanti giocavano la loro capacità di attrarre pubblici.
Con l’avvento di formati più efficienti come Flash e l’aumento della banda a disposizione sembrava che le Gif fossero destinate a nicchie relativamente ristrette di utenti che le utilizzavano come commenti nei forum, per l’animazione di meme o all’interno di comunità artistiche relativamente ristrette (anche se non così piccole: i numeri di siti come Giphy, Gifpop!, Giphoscope o NewHive sono comunque decisamente significativi).
Tutto è cambiato dal maggio 2015, da quando cioè Facebook ha iniziato a supportare le Gif animate sulla timeline degli utenti. Da allora, nel giro di pochissimo tempo, la costruzione del senso visivo sul social network con oltre un miliardo di utenti si è trasformata completamente. L’introduzione delle Gif ha coinciso con quella dei video in autoplay: una mossa precisa all’interno della strategia di Facebook per costruire una rete autonoma e separata dal resto del World Wide Web, facendo a meno di Youtube e simili.
Da Facebook c’è sempre meno bisogno di uscire per andarsene a zonzo, portandosi via click e dati personali di vario tipo; molti utenti degli smartphone non si rendono nemmeno conto che dal 2015 la loro navigazione avviene all’interno di un browser proprietario di Facebook, e non tutti si sono accorti che le pagine locali “cerca e trova” stanno integrando le funzioni delle piattaforme per la ricerca di affitti e simili. In questo tentativo di recintare porzioni sempre più significative di Internet non tutto fila liscio.
Due tendenze della comunicazione di cui si sta parlando molto ultimamente possono essere dei preziosi indicatori di una trasformazione radicale in corso. Da un lato, il cosiddetto “context collapse“: gli utenti continuano a condividere le informazioni sul social network, ma lo fanno sempre meno a partire dalle informazioni sul mondo che li circonda; continuano ad essere postati link, immagini, video e (appunto) gif, ma ci si sente sempre meno a proprio agio nella condivisione di dettagli intimi sulla propria vita.
Sembra qualcosa in controtendenza rispetto al florilegio di selfie che ci inondano; eppure, tutti gli utenti “avvertiti” di Facebook sono estremamente consapevoli della delicatezza della propria immagine pubblica sui social-media. Vale per i PR delle discoteche come per i docenti universitari, per i bancarellari dei mercati e gli appartenenti alle associazioni sportive: la pressione sociale su Facebook può essere altissima; le bizzarrie dell’algoritmo di visualizzazione risultano sempre meno comprensibili; ci si abitua alle “strane coincidenze” delle pubblicità sponsorizzate ma il senso sottile di irrequietezza non si dissipa; gli strumenti a disposizione per differenziare i destinatari della comunicazione (in primis, le liste) non sono sufficienti.
Allo stesso tempo, altri social network stanno utilizzando linguaggi completamente diversi, che rispondono in modo nuovo alle necessità degli utenti. E’ il motivo per cui si fa un gran parlare di Snapchat, che ha avuto la sua prima ondata di popolarità grazie alla possibilità di creare messaggi che si auto-distruggono (rispondendo così al desiderio di non costruire uno storico che possa creare futuri imbarazzi) e in cui oggi una parte significativa delle comunicazioni non avviene tramite testo scritto ma tramite selfie ai quali vengono applicati filtri più o meno surreali.
Le Gif reintroducono la polisemia all’interno di un medium che è sempre più disperatamente didascalico. L’irregimentazione delle narrative personali fatta di selfie, commenti tranchant sulla partita, l’ultimo gossip politico, le foto al mare, quelle con la moto, i gattini e i cagnolini.
La standardizzazione di mezzobusto con il foglio bianco con l’hashtag (quella delle campagne di Repubblica), primo piano sull’ultimo libro/disco/vestito comprato, il foodporn della prima colazione, quello dell’aperitivo, quello della cena e quello dello spuntino di mezzanotte. Tutto questo contesto che viene riversato sulle nostre timeline da amici, conoscenti e sconosciuti è, in fin dei conti, così piatto che più piatto non si può. Piatto nel senso che descrive tutto, senza raccontare nulla e soprattutto senza discostarsi mai dall’ovvio e dall’esplicito.
Le Gif “funzionano” perché sono ambigue, surreali, oniriche, psichedeliche, minacciose, stupide, buffe, fastidiose; non hanno necessariamente un senso e non devono per forza raccontare qualcosa. Permettono di saccheggiare gli immaginari visivi del cinema, dei videogame, del design, dei cartoni animati, dell’arte, dei meme del web senza per forza dover dichiarare tutto a tutti. Consentono una comunicazione multilivello, fatta di citazioni, strizzate d’occhio e del non preoccuparsi che tutti capiscano.
In qualche modo, la proliferazione delle Gif è un processo di definizione del sé digitale in controtendenza rispetto all’ossessione della trasparenza assoluta implementata dai principali social network e raffigurata in modo chiaro ed agghiacciante nella distopia tecnologica de Il Cerchio di Dave Eggers: un mondo dove tutti sanno tutto di tutti, dove la presenza online è totale e pervasiva e dove l’unico modo per restare off-line è isolarsi da tutto e da tutti.
“Tu hai un’identità” ha sostenuto Zuckerberg in un’intervista con David Kirkpatrick nel libro The Facebook Effect “I giorni in cui avevi un’immagine diversa per i tuoi amici sul lavoro ed i tuoi collaboratori ed un’altra per le persone che conosci stanno probabilmente per finire, e velocemente”. Perché secondo il fondatore di Facebook “Avere due identità è un esempio di mancanza di identità”.
Sembrerebbe che questa piattezza stia diventando sgradevole, o semplicemente noiosa, per un numero crescente di utenti.
Anche se a molti piacerebbe che fosse così, questi segnali non ci dicono che Facebook sta andando incontro ad una vera crisi; quello che stiamo vedendo è piuttosto il prodursi di una nuova tensione culturale sul campo di un social network che è in costante crescita e che, ad Aprile 2016, contava oltre 1.600.000 utenti attivi. Si tratta molto probabilmente, quindi, di un fenomeno di nicchia che ha che fare con alcuni parzialissimi settori del mondo occidentale.
Eppure, da questa tensione si stanno producendo nuove forme espressive che vanno a ridefinire sia i mondi della cultura istituzionale che le pratiche di comunicazione dal basso. Non è un caso che le Gif esistano da moltissimi anni (e con esse anche innumerevoli esempi di Gif Art) ma che proprio in tempi recenti stiano proliferando mostre d’arte a loro interamente dedicate, come quelle a Spaces, alla PC Gallery di Providence o quella in corso a smART – polo per l’arte a Roma; non si tratta solo di un processo di istituzionalizzazione.
Da un punto di vista più ampio, è il sintomo della necessità di riflettere su come una forma espressiva “minore” stia rendendo estremamente pop elementi che fanno parte dei linguaggi del pre-cinema, del cinema sperimentale, delle avanguardie e dell’arte digitale, come il loop, il cut-and-paste, il flickering e il glitch. Alla ricerca di un’identità digitale che non sia necessariamente trasparente e piatta che più piatta non si può.