Per i saperi strettamente scientifici “ricerca” è quell’insieme di pratiche, di investigazioni, di teorie indirizzate ad allargare le conoscenze nei vari ambiti disciplinari: la ricerca può produrre nuovi metodi, scoperte, rivoluzioni, fino a cambiare il paradigma con cui guardiamo alla scienza stessa.
Implicito è il convincimento che la conoscenza è non solo allargabile ma progressiva: un modello può sostituirne uno nuovo.
Questo comporta un rapporto con la Storia diverso per ciascuna disciplina: ad esempio nella fisica o nella biologia moderne le competenze antiche raramente vengono approfondite (sistema tolemaico, teorie umorali) e ci si dedica alle conoscenze nuove perché più “vere” e quindi affidabili. Al contrario, nella matematica, teoremi millenari vengono trattati come contemporanei (cioè classici) e l’idea di progresso ha sfumature diverse. Se dalle scienze dure passiamo alle scienze umanistiche il modello è però profondamente diverso: a nessuno verrebbe in mente di reputare Joyce superiore ad Ariosto o Picasso più avanzato di Botticelli. Gli oggetti del sapere umanistico sono forme storico-sociali, espressione o testimonianza di modi di ragionare e di relazioni fra gli uomini il cui valore è stabilito anzitutto per convenzione.
Se però guardiamo con attenzione e senza pregiudizi, questa distinzione tra scienze e storia ha confini molto più sfumati di quanto non traspaia dal sentire comune. Per cominciare bisognerebbe chiarire infatti qual è l’oggetto che stiamo davvero studiando, ovvero: quando studiamo Botticelli stiamo studiando la figura storica del pittore o stiamo studiando l’oggetto del suo dipingere? E, quando studiamo la gravitazione, stiamo studiando un fenomeno fisico o l’idea che si sono fatti gli uomini di quel fenomeno?
Il concetto stesso di progresso è sfuggente, passibile di interpretazioni e per nulla oggettivo come avrebbe voluto la cultura positivistica. Eppure è diffusa nel sentire comune (amplificata dal giornalismo meno accorto) l’idea che la scienza sia il luogo delle evidenze certissime e che la ricerca non sia altro che la costante investigazione di nuovi territori e quindi non solo utile, ma indubitabilmente progressiva.
Insomma si tralascia, in maniera più o meno dolosa, il fatto che qualunque idea sul mondo ha un preciso punto di vista e che anche una presunta evidenza è anzitutto un dato che cambia faccia a seconda della storia e della società in cui lo caliamo per guardarlo. Gli studi storici dell’ultimo secolo hanno messo in luce come qualsiasi interpretazione ha consistenza solo all’interno di un preciso sistema di riferimento: al di fuori di questo, i fatti non sono né veri né falsi. È forse questa la più importante “scoperta” della Storia moderna: il progresso della disciplina è consistito appunto nei modi con cui si è guardato ai fatti e al mondo.
A questo punto per parlare di “ricerca” negli ambiti del design dobbiamo quindi chiederci qual è l’oggetto rispetto al quale facciamo ricerca. Nelle arti del Novecento c’è stato un utilizzo debole del termine “ricerca”. Arte di ricerca sarebbe quella che si oppone ai linguaggi istituzionalizzati, ripetitivi, risaputi, in nome di una spregiudicatezza di sguardo e dell’autonomia dell’artista.
Si è trattato di un concetto francamente modesto e pieno di rischi. Intanto vi è implicito un senso di frustrazione: di fronte alle sorti progressive della scienza moderna (dalla rivoluzione industriale in poi) il sistema delle arti, per paura di non aver nulla di comparabile ai frutti della scienza e della tecnica, ha cominciato a imitare superficialmente l’innovazione scientifica, cioè inseguendo freneticamente e aprioristicamente il “nuovo”: dall’impressionismo in poi l’arte è sempre contro, oltre, d’avanguardia.
Il risultato come sappiamo è stato un nevrotico susseguirsi di stili, di trovate, di provocazioni perfettamente in linea con l’esigenza del mercato di disporre di “merci” sempre nuove. Ma la secca non è tanto questa, è più insidiosa e di natura epistemologica: cioè credere che nelle arti e nei linguaggi possa esistere “il progresso” come fatto assoluto, e quindi intendere la storia come teleologicamente orientata.
In questo le arti hanno stretto patti profondi con le ideologie politiche: il progresso della società è diventato nel Novecento strettamente legato col progresso dei linguaggi, e si è finiti per misurare l’arte col metro dei contenuti: se un’opera era reazionaria nei temi non poteva essere grande arte e così via. Ultimo arrivato è il mito della tecnologia come garante di innovazione e quindi di ricerca: i linguaggi digitali sarebbero naturalmente innovatori rispetto a codici del passato.
Il graphic design essendo stato trattato come faccenda anzitutto artistica risente a tutt’oggi di tutti questi luoghi comuni: ricerca e innovazione si limitano quindi ora alla trovata ad effetto, ora all’utilizzo di una nuova tecnologia, ora a mero fatto stilistico e di moda. Il graphic design non è però una cosa precisa bensì una serie di pratiche diverse rivolte a problemi e contesti molteplici della conoscenza o del mercato. Fanno parte del visual design: la scatola di un surgelato e un fumetto, un libro di analisi matematica e l’etichetta sul maglione o la bolletta del gas.
L’oggetto di ricerca nel visual design è così duplice: può consistere in un problema progettuale da risolvere e quindi nella messa a punto di procedure teoriche, tecniche e tecnologiche che possono produrre un artefatto innovativo; ma può consistere anche in un problema concettuale o storico da affrontare in maniera critica.
In entrambi i casi le istanze teoriche e quelle pratiche non possono viaggiare separate, perché la pratica progettuale senza un solido sistema di pensiero rischia di ridursi a mero mestiere e quindi iterazione di un modello già consolidato: efficiente, bello, immaginifico, ma per sua natura non innovativo. D’altro canto la teoria o la critica del design che ne ignori le procedure profonde (anche tecniche) finisce per non dire nulla.
La ricerca nel visual design si configura quindi come ricerca di procedure, di metodi, di tecniche, di teorie sempre in relazione le une con le altre. Non è un caso che i contributi più interessanti vengano fuori da singoli o gruppi che si muovono con disinvoltura tra il mestiere quotidiano e la riflessione concettuale.
La pratica progettuale ha per alcuni versi caratteristiche dei saperi scientifici, per altri somiglia alle indagini storiche, per altri ancora ha affinità con i metodi della fiction cioè raccontare qualcosa a qualcuno. Questo perché le forze di produzione culturale parlano a persone diverse in vari modi, per sedurre, per informare, per spiegare, per intrattenere. Il visual design si rivolge a gruppi diversi che possiamo solo superficialmente definire «pubblico», perché il pubblico non è una massa indifferenziata e opaca: ci sono utenti, spettatori, acquirenti, lettori e ci sono pure, come alle mostre, i contemplatori.
Nel visual design, allora, la “ricerca” dovrebbe (o potrebbe) essere anzitutto la ricerca di metodi. A questo proposito lo studio della percezione visiva è stato fin dal Rinascimento un contesto privilegiato per studiare da una parte la fisiologia umana, dall’altra i meccanismi sottesi alle composizioni visive.
Questa tradizione è iniziata con i problemi legati alla raffigurazione dello spazio figurativo e si è poi articolata secondo percorsi diversi, spesso paralleli. Nel Novecento i legami tra artefatti visivi e percezione saranno il campo della psicologia cognitiva da una parte, e degli studi sulla convenzionalità dell’espressione dall’altra, cioè gli ambiti della semiotica e dell’iconologia. Poi, dal dopoguerra, gli studi più avanzati sul cervello umano cominciarono a porre le basi per un approccio non soltanto psicologico ma fisiologico ai meccanismi della visione.
Tra i nodi che ne emergono forse il più importante riguarda il modo con cui il cervello compone quello che vede non in termini di immagine olistica (cioè di un tutt’uno del mondo ricostruito nella mente) ma attraverso una scomposizione per moduli. Tanti processi neuronali attivi in parallelo ciascuno dedicato a un compito preciso: neuroni deputati al riconoscimento di linee orientate, di colori, di contrasti luminosi e così via.
La percezione come fatto unitario sembrerebbe dunque il risultato di processi parcellizzati e solo in un secondo tempo uniti insieme. Infatti, per essere vista, la scena visiva viene scomposta secondo una serie di qualità: c’è una prima scomposizione retinale che elabora luminosità e lunghezze d’onda; c’è una seconda scomposizione corticale che smista il movimento, il colore e la posizione; e c’è poi una specializzazione a livello dei singoli neuroni per rintracciare aspetti specifici come individuare un contorno o una direzione di movimento.
Tutte queste elaborazioni, come dicevamo, avvengono in parallelo anche se noi sperimentiamo la visione come qualcosa di unitario. Ma forse è proprio grazie a questa struttura per moduli paralleli che possiamo estrarre dal mondo qualità e idee generali, e formulare concetti come la rotondità o la giallezza.
Uno dei modelli più fortunati di approccio al pensiero visivo è stato quello di Arnheim che divulgò una versione brillante della psicologia della Gestalt a uso delle arti. Questo modello, tutt’oggi diffusissimo, è ormai superato, e l’approccio olistico della Gestalt, per quanto ne rimangano validi i principî descrittivi, si è dimostrato debole nelle fondamenta. La Gestalt parla di tensioni flagranti e di campi di forze, tutte cose che non hanno un preciso sostrato fisico o neuronale, anzi il cervello arriva a costruire una rappresentazione d’insieme seguendo una strada opposta, per pezzi disgiunti e paralleli. La Gestalt sostiene poi che l’insieme finale è un «di più» della somma delle parti, ma si tratta di un postulato e non spiega molto. È ovvio che alla fine c’è una riunificazione delle attività parallele e che questa è un «di più» della somma del singolo neurone, ma tale riunificazione è la coscienza stessa, e come il cervello la produca è ancora un mistero.
A questo dobbiamo aggiungere che per il cervello non tutte le cose guardate sono uguali. Ci sono neuroni per gli atti motori, neuroni per riconoscere le facce e le mani, ma non conosciamo neuroni specifici per i gomiti o per le rose. Non è un dettaglio di poco conto: a livello neuronale non tutte le cose hanno lo stesso peso. Quello che conta è che, senza mediazioni, il cervello tratta subito le cose come significanti e gerarchizzate: il viso di un figlio è qualcosa di diverso dallo spigolo del comodino non per ragioni cognitive «alte» ma da subito, a livello delle singole cellule neuronali. Non c’è bisogno di nessun piano alto per spiegare al cervello che quello è proprio nostro figlio. Crolla quindi qualunque approccio pittorico alla realtà. Gli impressionisti teoricamente avevano torto, noi non vediamo macchie luminose, ma vediamo contorni esatti e movimenti precisi in un mondo dove le cose hanno sùbito un valore emotivo.
Da sempre il visual design ha radici profonde nei fenomeni percettivi e conoscitivi, perché una delle domande di fondo consiste nel chiedersi quali codici siano adatti, efficaci, sensati. Una sola risposta ovviamente non c’è, ogni volta dobbiamo investigare criticamente il da farsi. Però, siccome tutti gli uomini sono biologicamente simili, le neuroscienze ci forniscono una manciata di assunti che possono illuminare il campo e rendere più agevole distinguere tra predisposizioni fisiologiche e convenzioni culturali. La sfida è però intrecciare queste competenze con la società e con la storia. Il limite degli approcci scientifici all’arte è stato infatti reputare la percezione visiva un fenomeno che trova in sé stesso ogni motivazione e sensatezza, quando, al contrario, il nostro guardare accade sempre in un momento e in un luogo precisi.
In questo senso l’apporto delle scienze della mente al visual design può essere molteplice: da una parte ci permettono di portare avanti il discorso sulla percezione e quindi trovare negli artefatti visivi il banco di prova di meccanismi profondi (e qui il design diventa una specie di verifica del modo con cui conosciamo il mondo); dall’altra saperne di più sul funzionamento della mente umana permette di sgombrare il campo da false credenze riguardo le attività creative, liberandoci una volta per tutte dalle aporie delle teorie romantiche e idealistiche e riformulando in maniera nuova categorie come il talento, la fantasia e la creatività.
A quanto ne sappiamo nel cervello non c’è nessuna struttura deputata all’arte o alla scienza, non esiste dunque un bernoccolo del talento. Quella che chiamiamo creatività è il frutto di processi complessi in cui le predisposizioni sono indistricabili dalle competenze apprese e da elementi casuali. Insomma la definizione di “talento naturale” è semplicemente un non senso perché il cervello umano si compie nell’arco di circa vent’anni e quindi le informazioni genetiche e le occasioni biologiche non sono definibili o pensabili a prescindere dai fatti accaduti in quei vent’anni.
Studiare il cervello in relazione ai problemi del visual design può essere così un grimaldello per scardinare luoghi comuni e credenze logore e abusate. In questi termini è legittimo parlare di “ricerca” nel visual design: non perché abbiamo a che fare con la scienza, ma perché muovendoci tra un territorio e un altro della conoscenza possiamo tentare di formulare nuovi modi per guardare a problemi antichi. Trattando la prassi come strumento teorico e le teorie come arnesi o utensili. La ricerca intesa quindi non come proposta di nuovi linguaggi come vorrebbero tanti “creativi” ma anzitutto la ricerca di nuovi problemi e di nuovi punti di vista. La ricerca, insomma, non come scoperta ma come metodo.
L’immagine in copertina è un’opera di Luigi Veronesi
Una versione simile è stata precedentemente pubblicata su Hi-Art