Rovesciare il monachesimo globale

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    Come in una fiaba, una minuscola creatura ha invaso tutte le città del mondo. È difficile assegnargli persino l’attributo di “vivente”. È uno degli esseri più ambigui sulla faccia della terra: abita la soglia tra la vita “chimica”, che contraddistingue la materia, e la vita biologica, che caratterizza i viventi senza che sia possibile determinare con chiarezza a quale sfera appartenga. È troppo vitale per l’una e troppo indeterminata per l’altra. All’interno del suo stesso corpo, la chiara distinzione fra vita e morte viene annullata. Questo aggregato di materiale genetico in libertà ha invaso le piazze di villaggi e metropoli e, improvvisamente, il panorama politico ha cambiato forma.

    Proprio come in una fiaba, le città sono scomparse. Per difendersi da un nemico invisibile ma potente, si sono esiliate, hanno dichiarato se stesse bandite e fuorilegge e ora giacciono ai nostri piedi come in un museo archeologico o in un diorama.

    Da un giorno all’altro, le scuole, i cinema, i ristoranti, i bar, i musei e quasi tutti i negozi, i parchi e le strade sono stati chiusi, soppressi, dichiarati inabitabili. La vita sociale e la vita pubblica, gli incontri, le cene, il tempo del lavoro, i rituali religiosi, il sesso: tutto quello che si apriva non appena si chiudevano le porte delle nostre case è diventato impossibile. Sopravvive solo come ricordo o come un qualcosa che deve essere costruito tramite sforzi complessi e a volte dolorosi: le chiamate, le dirette Instagram, gli applausi o le canzoni sul balcone. Sembrano la lenta rielaborazione del lutto per la città scomparsa e la comunità sospesa, per la società che è stata chiusa assieme ai negozi, alle università e agli stadi.

    Proprio come in una fiaba, le città sono scomparse

    Giorno dopo giorno, la città – cioè la politica, nel senso più letterale del termine – diventa auto-sottrazione, come nei miti cabalistici che paragonano la creazione allo tzimtzum, l’atto di ritrazione della divinità. Per difendere le vite dei propri membri, le città si sono suicidate. Questo nobilissimo sacrificio ha reso più della metà della popolazione umana politicamente defunta, e nell’impossibilità di pensare politicamente al presente e al futuro.

    Il Sars-Cov-2, questa minuscola creatura fiabesca (o, per meglio dire, questa trinità di creature, visto che pare ne esistano tre ceppi) non ci è costato solo decine di migliaia di vite, ma ha anche causato il suicidio della vita politica così come l’abbiamo conosciuta e praticata per secoli. Ha costretto l’umanità ad avviare uno strano esperimento di monachesimo globale: siamo tutti anacoreti che si ritirano nel proprio spazio privato e trascorrono la giornata intenti a bisbigliare preghiere secolari. In un mondo in cui la politica è oggetto di divieto e una realtà impossibile, quello che ci rimane sono le nostre case: non importa che siano piccole o grandi oppure appartamenti o case vere e proprie. Tutto è diventato casa. Il che non è necessariamente una buona notizia. Le nostre case non ci proteggono. Possono ucciderci. Si può morire per eccesso di casa.

    2.

    Siamo da sempre ossessionati dalle case. Ci viviamo, ci trascorriamo moltissimo tempo. E soprattutto, vediamo case ovunque, pretendendo che tutte le creature non-umane abbiano un rapporto allo spazio equivalente a quello a cui diamo il nome di casa.

    Uno degli esempi più incredibili di questa ossessione per la casa è l’ecologia, che non è solo il sapere accademico che cerca di studiare il rapporto reciproco di tutti gli esseri viventi l’uno con l’altro, e di questi con il loro ambiente e lo spazio, ma anche e soprattutto una serie di pratiche che puntano a creare un rapporto migliore, più equo e più paritario con la vita non-umana. A causa del suo nome – ‘ecologia’ significa, letteralmente, “scienza della casa” – tutta l’ecologia è dominata da questa metafora: anche quando cerchiamo di trovare un’immagine più “ecologica” della terra, tendiamo automaticamente a pensarla come la casa di tutti noi.

    A causa del suo nome – ‘ecologia’ significa, letteralmente, “scienza della casa” – tutta l’ecologia è dominata da questa metafora

    Da dove deriva questa ossessione? A pensarci bene, non c’è nulla di naturale. Perché il rapporto che gli esseri viventi hanno l’uno con l’altro dovrebbe somigliare alla nostra socialità domestica? Perché usiamo, ad esempio, la metafora, l’immagine, il concetto chiave della città? Perché non l’immagine della piazza di un paese? O dell’amicizia? Quando proviamo a immaginare come tutti i viventi si rapportano l’uno con l’altro, li immaginiamo immancabilmente come membri di una casa immensa, grande quanto tutto il pianeta. Serve forse che Ibsen e Tolstoj ci insegnino di nuovo che le case non sono luoghi particolarmente felici?

    Perché siamo stati tanto crudeli nei confronti dei nostri amici non umani al punto di pensarli come dei personaggi di una tragedia planetaria in cui ciascuno è confinato a vita nella propria casa? La risposta a questa domanda è un po’ lunga e cercherò di sintetizzarla. Il responsabile è Linneo, il biologo svedese a cui dobbiamo il sistema di classificazione biologica degli esseri viventi.

    Nel 1749, uno dei suoi studenti, Isaac Biberg, pubblicò il primo grande trattato sull’ecologia e lo intitolò De economia naturae, che, tradotto in termini contemporanei, significa all’incirca “Sull’ordine domestico della natura”. Perché si è interpretato la natura come un enorme ordine domestico? All’epoca, la maggior parte dei biologi non credeva nella trasformazione o nell’evoluzione delle specie. Si riteneva che tutte le specie fossero immutabili nel corso del tempo. In un contesto simile, il solo modo per comprendere se c’è un rapporto fra un bufalo dell’Arizona e una mosca australiana (e per comprendere questo rapporto) consisteva nell’assumere il punto di vista di colui che aveva immaginato, disegnato e creato entrambi: Dio. Essendo responsabile dell’esistenza di entrambi, costui doveva aver ideato e stabilito un rapporto fra queste due specie, così come fra tutte le specie viventi.

    Nell’universo cristiano, Dio si rapporta al mondo non come un semplice governatore o un leader politico si rapporta al suo popolo, ma piuttosto come un padre si rapporta alla propria famiglia e alla propria casa: esercita potere sul mondo solo perché lo ha creato.

    D’altro canto, il mondo non si relaziona a Dio come un suddito si rapporta al sovrano, ma piuttosto come un figlio al padre. Tutta la vita sulla terra è pertanto un’unica casa e un’unica famiglia dell’unico Padre-Dio. Per questo motivo, Biberg e Linneo denominarono questa scienza “economia della natura”. Fu poi Haeckel, un biologo tedesco del XIX secolo, a suggerire di passare da economia a ecologia per distinguere questa disciplina dall’economia mercantile. L’immagine si rivelò utile poiché esprimeva in maniera immediata l’evidenza e il bisogno di un rapporto reciproco fra tutti i viventi: tutti fanno parte di un’enorme casa e di una famiglia immensa.

    Tuttavia, è anche problematica. Innanzitutto, questa immagine è il cuore di tutto il patriarcato. L’ecologia non lo sa ma continua a essere in essenza una mitologia patriarcale, a prescindere da tutto l’impegno riversato dalle eco-femministe nel tentativo di sbarazzarsene. Nell’antichità come oggi, la casa è uno spazio in cui una serie di oggetti e individui rispetta un ordine, una disposizione che punta alla produzione di un’utilità e che è sottoposta al potere di un individuo. Dire che la vita sul pianeta è una grande casa significa che questa rispetta tale ordine e che ciascun elemento che la compone produce una forma di utilità in virtù di tale ordine. Da questo punto di vista l’ecologia condivide con l’economia mercantile una medesima origine, il medesimo vocabolario e la medesima struttura concettuale. E non riesce a liberarsene mai.

    Non sappiamo assolutamente cosa è nocivo o no per la natura: è già difficile stabilire cosa è nocivo per noi, figuriamoci per la ‘natura’

    In fin dei conti, la biologia continua a fare uso di questo concetto ogniqualvolta in cui si sforza di dimostrare che l’evoluzione di una specie o la comparsa di un’altra rappresentano l’affermazione del più adatto e quindi del più utile. Prolunghiamo la stessa idea anche ogni volta che pensiamo che l’introduzione di specie cosiddette invasive (la Robinia pseudo-acacia, per citarne una) è nociva per l’equilibrio naturale dell’ecosistema. In realtà, non sappiamo assolutamente cosa è nocivo o no per la natura: è già difficile stabilire cosa è nocivo per noi, figuriamoci per la ‘natura’. Come ha detto una volta Mark Dion, “la natura non sempre sa cos’è meglio per lei”.

    Pensare in maniera ecologica significa ritenere che esiste un ordine da difendere, che ci sono dei limiti in natura che non vanno oltrepassati e che questi limiti sono limiti definiti da una relazione semi-patrimoniale con le altre specie. Ci sono case altrui – gli ecosistemi – che dobbiamo rispettare proprio come siamo chiamati a rispettare le case degli altri. La proprietà privata.

    Se da una parte quest’idea ci permette di essere meno distruttivi nei confronti dei nostri fratelli e delle nostre sorelle non-umane, purtroppo proietta anche su di essi un ordine che non è affatto naturale. È come concepire il mondo come un immenso Schrebergarten, una sterminata distesa di giardinetti lottizzati ogni volta a specie diverse intente a coltivare il proprio spazio senza preoccuparsi d’altro, perse in una eterna domestica che non conosce un fuori, una città, uno spazio diverso dal ‘proprio’. È difficile associare a questa forma di vita una idea di felicità. Ne abbiamo fatto esperienza in questi giorni.

    In fin dei conti, pensare che la terra sia una casa enorme significa anche ritenere letteralmente che tutte le creature viventi, fatta eccezione per gli esseri umani, sono agli arresti domiciliari. Non riconosciamo agli altri esseri viventi il diritto a lasciare la casa, a vivere al di fuori di essa e ad avere una vita politica, sociale, non domestica. Animali, piante, funghi, batteri virus sono sempre a casa e possono solo stare a casa. Il loro stato naturale è una quarantena che dura tutta la vita. Quando qualcuno ‘cambia casa’, oltrepassa i confini naturali che immaginiamo essere i loro, come il Sars-Cov-2, ci affrettiamo di dire che è colpa nostra, che siamo noi che abbiamo distrutto la loro casa naturale. Pensare che per noi come per le forme di vita non-umane, la casa non sia l’unico spazio di soggiorno ci è quasi impossibile.

    In fondo, la reazione alla crisi originata dal Sars-Cov-2 è stata una radicalizzazione del pensiero ecologico: ora anche gli esseri umani devono rispettare il proprio ecosistema. Stare a casa. Se gli uomini, grazie alle città, si sono arrogati una volta il diritto di viaggiare ovunque e vivere liberamente, ora tutti gli esseri viventi, nessuno escluso, devono esistere in maniera anacronistica.

    Oggi, tutti noi – umani e non – siamo monaci di Gaia. Questa situazione inedita è forse un’opportunità. Sars-Cov-2 ci permette di liberarci definitivamente dalla nostalgia e dall’idealismo delle città. La città è, per definizione, uno strano teatro che ci ha permesso di coltivare l’illusione che per vivere assieme non abbiamo bisogno di nessun’altra forma di vita: basta riunire donne e uomini attraverso pietre e metallo per poter divenire eterni. La città è soprattutto una forma di monocultura (umana) che respinge fuori di sé tutto quello che non le somiglia, in quelle che chiamiamo ancora oggi foresta. Il nome foresta (dal latino foris, cioè fuori) che ci ostiniamo a pensare come la casa naturale degli esseri naturali, è solo l’espressione di questa ‘forclusione’: è il luogo in cui si raccolgono gli esclusi, gli esiliati dalla città. Foresta, andrebbe tradotta, letteralmente con ‘campo profughi’. Quindi ogni volta che pensiamo alla foresta come luogo naturale per gli alberi, gli animali, i batteri, i virus, diciamo che i non-umani devono vivere in esilio.

    Se la morte della città è avvenuta da un giorno all’altro, la casa non patriarcale potrebbe venire alla luce nel giro di qualche settimana

    Dobbiamo forse liberarci per sempre dall’idea di città come del teatro originario e principale della politica. Non è solo una questione di durata della quarantena. Le città sono le reliquie di una forma di politica che non ci sarà mai più accessibile. Il nuovo comune, lo spazio della convivenza, dovrà essere costruito a partire dalla trasformazione delle celle monastiche in cui siamo chiusi. È trasformando e rovesciando questo monachesimo globale che riscopriremo la vita pubblica, non solo ripopolando le vecchie città.

    Ormai nessuno può più uscire. Nessuno può scappare: chiusi in casa, è da casa e, soprattutto, nelle case che dovremo ricostruire la società e la politica. Il cambiamento dovrà avvenire nei confusi rettangoli di cemento che ci separano dagli altri e dal mondo.

    Sarà necessario scavare in questo spazio una serie di corridoi invisibili che ci permettano di capovolgere lo spazio domestico per trasformarlo in un nuovo spazio politico. Se ci sarà una rivoluzione, sarà una rivoluzione domestica: sarà necessario liberarsi della definizione patriarcale, patrimoniale e architettonica delle nostre case e dimore per trasformarle in un qualcosa di diverso. Non è certo che questo percorso sarà lungo: se la morte della città è avvenuta da un giorno all’altro, la casa non patriarcale potrebbe venire alla luce nel giro di qualche settimana.

    3. 

    Che cos’è la casa? In genere, identifichiamo le nostre case con il loro guscio architettonico: la casa, le pareti, la forma minerale che separa uno spazio dal resto del mondo. Di solito, la descriviamo in base alla forma e alle funzioni degli spazi che questo involucro cesella, raccoglie, cova, protegge: il bagno, la cucina, la sala da pranzo, la camera da letto. I vari elementi della casa assumono nomi diversi in base al tipo di vita che conduciamo. Ciononostante, la casa è innanzitutto un vasto contenitore, un baule enorme in cui raccogliamo soprattutto oggetti e cose. Questo concetto può sembrare del tutto controintuitivo e forse anche un po’ ideologico, come se volessimo enfatizzare l’aspetto patrimoniale e quindi consumistico della casa, ma le cose stanno proprio così e l’orientamento politico non c’entra niente.

    La casa comincia con gli oggetti: le pareti, i soffitti, i pavimenti. Tuttavia, ciascuno di questi oggetti non è in grado di svolgere la sua funzione in maniera distinta. L’ho capito qualche anno fa, grazie a una strana esperienza che mi ha aiutato a comprendere un concetto importante. Avevo da poco avuto il mio primo posto di lavoro in Germania, a Friburgo, e, non appena arrivato, cominciai a cercare un posto in cui vivere, che trovai subito. Riuscì a firmare il contratto immediatamente e, nel giro di pochi minuti, avevo già le chiavi in mano.

    Tuttavia, non appena entrato nell’appartamento, la mia carta di credito smise di funzionare per ragioni misteriose. Qualcuno potrebbe dire che non è poi un evento così catastrofico: dopotutto, ero già entrato in casa e avevo un tetto sulla testa.

    L’appartamento, però, era completamente vuoto. Non c’era niente: un letto, un materasso, una sedia e nemmeno un piatto o una forchetta. Niente. Nessuno degli oggetti che popolano le nostre case e le stanze d’albergo. Rimasi bloccato lì per una settimana, senza poter arredare l’appartamento (avevo solo contanti a sufficienza per mangiare) e dovevo cominciare a insegnare già alla fine della settimana. Mi resi conto presto che uno spazio del genere non è fisicamente abitabile. È impossibile dormirci perché il pavimento è troppo duro e troppo freddo. Ci vogliono coperte, un cuscino e un pigiama. Ci volevano cose. Paradossalmente, sarebbe stato più facile dormire nella foresta o fuori in giardino: mi sarei sentito più comodo e meno spaventato (era settembre, però, e in Germania faceva già troppo freddo).

    Anche lavorarci era impossibile: anche per lavorare c’è bisogno di un tavolo, di una sedia, di un computer o di un quaderno. Cose. In maniera analoga, anche mangiarci era impossibile. Ma soprattutto, era impossibile rimanerci a lungo: la contemplazione del vuoto è oscena, insopportabile, assordante. È stato allora che mi sono reso conto di una cosa importante o, per meglio dire, di varie cose.

    Una casa è letteralmente un puro deserto inabitabile fino a quando non si popola delle cose e degli oggetti più disparati

    Innanzitutto, la casa in quanto tale – in quanto semplice guscio, pura idea di spazio, idealizzazione architettonica – è inabitabile. Non è ciò che ci consente di abitare uno spazio ma piuttosto ciò che crea lo spazio. Tale spazio è sempre occupato da cose, vive. Una casa è letteralmente un puro deserto inabitabile fino a quando non si popola delle cose e degli oggetti più disparati.

    L’idea di spazio è un’astrazione: lo spazio non esiste. Non lo incontriamo mai. Abitiamo in un mondo che è sempre popolato da altri esseri umani, piante, animali e oggetti più disparati. E questi oggetti non occupano spazio ma piuttosto lo aprono, lo rendono possibile: in una foresta, gli alberi non occupano spazio ma piuttosto aprono lo spazio della foresta. Lo stesso vale per le case: il letto, i piatti, il tavolo, il computer, il frigorifero non sono oggetti che occupano spazio, non sono una decorazione. Sono quanto rende reale uno spazio che altrimenti è solo immaginario e astratto, la proiezione mentale di soggetti, in cui è proibito entrare.

    Dopotutto, è il letto che crea la camera da letto e il tavolo che dà vita alla sala da pranzo. Sono i piatti, il forno e le pentole a trasformare un rettangolo astratto in una cucina. La scatola-casa è, da un punto di vista tecnico, una forma di deserto, uno spazio puramente minerale, un castello di sabbia. Non abbiamo mai un rapporto con le sue pareti. Piuttosto, abbiamo un rapporto con gli oggetti. Abitiamo veramente solo gli oggetti. Gli oggetti ospitano il nostro corpo, i nostri gesti. Attirano i nostri sguardi. Gli oggetti ci impediscono di scontrarci con la superficie squadrata, perfetta, geometrica. Gli oggetti ci difendono dalla violenza delle nostre case.

    Tradotto in termini politici, tutto ciò significa che la casa non è il luogo che si sottrae alla città. Una casa è l’unità minima dello spazio in cui alcune cose aprono lo spazio, lo rendono abitabile, ci rendono accessibile il mondo. Proprio per questo motivo, lo spazio domestico non è di natura euclidea: gli spostamenti nella casa non seguono la geometria che abbiamo studiato a scuola, la trigonometria o le proiezioni ortogonali. Piuttosto, gli oggetti sono magneti, attrattori o sirene che ci seducono con una canzone irresistibile e catturano i nostri corpi, spesso senza che nemmeno ce ne accorgiamo.

    Le cose magnetizzano lo spazio domestico e lo trasformano in un campo di forze costantemente instabili, una rete di influenze sensibili che ci libera solo una volta chiusa la porta di casa. Ecco perché, in realtà, nei giorni in cui restiamo a casa più del solito ci sentiamo spossati. Rimanere a casa significa soffrire, sopportare, resistere a tutte le forze che le cose esercitano l’una sull’altra e su di noi. La vita a casa si incentra tutta sulla resistenza, intesa nella sua accezione elettrica e non meccanica: siamo un filamento di tungsteno attraversato dalle forze delle cose e ci accendiamo o spegniamo.

    Da dove viene questa forza? Perché le cose di casa sono tanto potenti? Una volta attraversata la soglia di casa, le cose si animano o, per meglio dire, acquisiscono una parte di noi e della nostra anima. Gli indumenti, i biglietti su cui abbiamo scritto un numero o uno scarabocchio mentre eravamo al telefono con un’amica, un dipinto, il giocattolo di nostra figlia esistono quasi come soggetti, sono simili a sé di entità minore che ci fissano a loro volta e dialogano con noi.

    Ecco una prima definizione di casa: casa è lo spazio in cui tutti gli oggetti esistono come soggetti

    L’uso, la routine quotidiana ripetuta e prolungata per giorni, settimane, mesi e anni e la frizione dei nostri corpi sui loro corpi lasciano tracce, li magnetizzano, trasferiscono loro una parte della nostra personalità e soggettività. Pertanto, in casa gli oggetti diventano soggetti. Ecco una prima definizione di casa: casa è lo spazio in cui tutti gli oggetti esistono come soggetti. L’esatto opposto della schiavitù. Ciò significa che ogni casa è uno spazio di animismo inconscio e volontario.

    Che cos’è l’animismo? Sin dalla fine del XIX secolo, l’antropologia ha utilizzato questo termine per caratterizzare il modo di pensare di alcune culture che attribuiscono a determinati oggetti (primi fra tutti i feticci, ossia gli artefatti che rappresentano gli dei) qualità che in genere vengono riconosciute esclusivamente come umane, ossia personalità, coscienza e addirittura la capacità di agire. La nostra cultura afferma di basarsi sul rifiuto assoluto di questo modo di pensare e sulla separazione netta e irreparabile fra cose e persone, fra oggetti e soggetti. Tuttavia, la faccenda è più complessa. Le bambole, cose di casa per eccellenza, sono oggetti nei confronti dei quali tolleriamo un tipo di rapporto animistico, perlomeno da parte dei bambini. Ma c’è dell’altro. Alla fine del secolo scorso, Alfred Gell ha esposto una idea rivoluzionaria nel suo straordinario volume Art and Agency.

    In questo libro, Gell ipotizza che quello che chiamiamo arte è solo la sfera in cui la nostra cultura riconosce alle cose un’esistenza quasi analoga a quella umana. Quando entriamo in un museo, quando ci troviamo di fronte a quei pezzi di materia – un insieme di lino, legno e pigmenti di vario colore – che chiamiamo quadri, siamo certi di potervi riconoscere i pensieri, gli atteggiamenti e i sentimenti di una persona che non abbiamo mai visto o incontrato e di cui non sappiamo assolutamente niente.

    Vediamo la Gioconda e siamo certi di aver incontrato Leonardo. Abbiamo un rapporto animistico con tutte le opere d’arte. Qui è dove si ferma Gell. Noi, però, potremmo andare oltre e affermare che, a casa, ciascuno di noi ha un rapporto animistico con la stragrande maggioranza degli oggetti di cui ci circondiamo, soprattutto quelli più vecchi. Ciascuno di essi non solo contiene una parte di noi ma diventa anche una versione precedente del nostro ego. Ecco perché non siamo in grado di distinguerci da essi e soffriamo per la loro perdita.

    Questo è il punto di partenza per la rivoluzione domestica: essere in grado di pensare alla casa non più come a uno spazio di proprietà e amministrazione economica ma come allo spazio in cui le cose prendono vita e ci rendono la vita possibile. Questa vita non deve essere definita dalla geometria e dall’architettura ma da questa capacità di animazione che passa dagli esseri umani alle cose e dalle cose agli esseri umani. Fare casa significa riconoscere un’anima a tutto quello che è davanti a noi.

    4.

    D’ora in poi, restare a casa dovrebbe significare solo rimanere nel posto in cui noi diamo vita a tutto e tutto ci dà vita. C’è un luogo, nelle nostre case, in cui questa attitudine è particolarmente evidente: la cucina. Ogni cucina (che proprio per questo per molto tempo era esclusa dagli appartamenti moderni) è il luogo in cui le case si aprono al mondo. È in quello spazio che ogni casa nega la sua natura di spazio chiuso, proprietario, assolutamente umano.

    I corpi più diversi, le vite più lontane devono abitano quello spazio e lo fanno solo perché ciascuno di essa ci da vita. E in quello spazio ribadiamo che il nostro corpo non ha nulla di umano: come strani Frankestein ci reincarniamo nel corpo di polli, agnelli, vacche, pere, mele, asparagi o biete. Prendiamo la loro carne per sopperire al deperimento della nostra. In cucina le case si trasformano in enormi vortici in cui tutto entra nel corpo dell’altro e tutto cambia il proprio volto. La casa dovrebbe essere una cucina comune, una sorta di laboratorio comune in cui provare a inventarci per trovare il giusto punto di fusione e produrre una felicità comune. La nuova città dovrebbe essere una sorta di enorme storta chimica in cui provare a trovare l’elisir della vita mescolando le cose e noi stessi gli uni con gli altri e con ogni tipo di oggetto.

    Riprogettare le città dalle nostre cucine: una proposta del genere può sembrare estremamente triviale e forse anche volgare. Tuttavia, la cucina è il luogo in cui verifichiamo che la città non è solo una raccolta di esseri umani. Come hanno dimostrato William Cronon e Carolyn Steele, dal punto di vista della cucina la città presenta confini diversi rispetto a quelli che immaginiamo: tutti i non umani che in genere escludiamo devono farne parte. Le città umane sono impossibili senza grano, mais o riso, senza meli, senza maiali, senza mucche e senza agnelli. Sono soprattutto i non umani che rendono le nostre città abitabili.

    Liberare la casa dal patriarcato e dall’architettura significa anche cominciare a pensare che la città non è la casa dell’uomo.

    È arrivato il momento di dare a ciascuno di essi la cittadinanza. Liberare la casa dal patriarcato e dall’architettura significa anche cominciare a pensare che la città non è la casa dell’uomo. Siamo soliti immaginare che – dal momento che tutti i non umani hanno una casa lontano dalla città, in spazi “selvatici” – le città siano lo spazio legittimo per l’insediamento dell’uomo. Invece, dimentichiamo che ogni città è il risultato della colonizzazione di uno spazio occupato da altri esseri viventi e di un conseguente genocidio che ha forzato altre specie (con le rare eccezioni di cani, gatti, topi e qualche pianta ornamentale) a spostarsi altrove.

    La cucina è, dopotutto, il buco nero delle nostre case, lo spazio in cui l’essenza monastica viene rivoluzionata in palestre per la mescolanza: le frontiere fra le cose e le persone sono sospese e l’opposizione fra umani e non umani viene capovolta in una fusione festosa. Il monachesimo continuerà a essere impossibile in cucina.

    Pensare alla casa e alla città come se fossero grandi cucine significa capovolgere il rapporto patriarcale trasformandolo in uno spazio di cura che non prenda solo la forma dell’alimentazione. L’atto di cucinare è solo la forma di base dell’atto della cura, quella in cui è impossibile separare la cura del sé da quella degli altri.

    La casa esiste solo dove c’è cura per qualcosa e qualcuno.


    Questo saggio di Emanuele Coccia è apparso in inglese su Fall Semester il 21 aprile. Tradotto per cheFare da Antonella Lettieri

    Note