“Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente di fronte a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva? … Le utopie sono realizzabili. La vita marcia verso le utopie. E forse un secolo nuovo comincia; un secolo nel quale gli intellettuali e la classe colta penseranno ai mezzi d’evitare le utopie e di ritornare a una società non utopistica, meno «perfetta» e più libera” Nikolaj Berdjaev, Nuovo medioevo, 1923
Quando Yona Friedman pubblica Utopies réalisables per la prima volta, il tema dell’utopia monopolizza la letteratura architettonica, sulla scia di quella filosofica. Non si contano infatti i titoli dedicati all’utopia usciti negli anni successivi al Maggio francese, senza tralasciare le riedizioni dei volumi sul tema, a partire da quelli di Lewis Mumford.
Friedman dal 1970, anno della pubblicazione di L’architecture mobile – la raccolta di saggi scelti dedicati ai suoi progetti a grande dimensione sviluppati dal suo arrivo a Parigi tredici anni prima – si sta dedicando ad altro. Ha iniziato a insegnare periodicamente negli USA, cominciando a intervallare nei suoi scritti i suoi disegnini essenziali come se fosse sempre alla lavagna, e a collaborare ad alcuni progetti di auto-pianificazione per mezzo dei primi software applicati ai primi computer, trovando nuovi interlocutori in istituzioni e personalità aliene ai circuiti dell’architettura.
Chiuse le esperienze del GEAM (Groupe d’Études d’Architecture Mobile) e del GIAP (Groupe International d’Architecture Prospective), Friedman dialoga ora con scienziati-architetti come Nicholas Negroponte, fisici interessati all’arte come Ilya Prigogine e filosofi irregolari come Ivan Illich, cominciando ben presto a lavorare per l’Unesco, che ha sede a Parigi ma con campi di attuazione nei cosiddetti paesi del Terzo mondo, territori mai trattati dall’architettura accademica fino ad allora – con rarissime eccezioni.
Il tema delle utopie sociali era dunque centrale e conosceva molte occasioni di discussione anche in luoghi inediti allora per Friedman come i musei d’arte. Nel 1975 il Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris organizza una sua mostra e pubblica un catalogo, una semplice auto-antologia di scritti e disegni che l’architetto ungherese intitola Une utopie réalisée. Nello stesso anno Friedman riesce a pubblicare Utopies réalisables, che era piaciuto a Illich, come ha dichiarato egli stesso a Hans Ulrich Obrist:
Friedman: Ivan Illich also tried with Utopies réalisables, wich was rejected by Le Seuil.
Obrist: And did you meet Illich?
Friedman: Yes, I did. He had come to see me. I think he really liked my attitude. In the end, Christian Bourgois published Utopies réalisables. The editorial context was particularly difficult
Bourgois era l’editor della Union General d’Editions, e pubblicò il libro nella collana «Bibliothèques 10/18» dedicata alle scienze umane, che ha diretto fra il 1968 e il 1992. In ogni caso Friedman con queste pubblicazioni si collocava fuori dallo stretto ambito dell’architettura anche sul piano editoriale, così come accadrà per la nuova edizione del 2000 ad opera delle Éditions de l’éclat fondate da Michel Valensi e Patricia Ferrazzi, vale a dire una casa editrice nettamente orientata verso la saggistica e la filosofia.
L’originalità di fondo di Utopie realizzabili consiste nel trovare una posizione autonoma e molto personale. Tratta dell’organizzazione della società, ma a differenza di qualsiasi analisi sociologica rinuncia ad utilizzare numeri e statistiche, rigettando anzi il concetto di uomo medio.
Ciò che Friedman analizza è anzitutto il linguaggio e la comunicazione, con i relativi effetti che le loro storture comportano anche in termini di città e territorio. Se ad esempio la città rappresenta l’utopia per eccellenza, «forse persino la prima utopia umana realizzata», essa allora andrà intesa come sintesi di organizzazione umana (software) e territorio (hardware) alla luce dei due concetti intimamente correlati di “gruppo critico” e “villaggio urbano”.
L’architetto ungherese critica nettamente il mito della connessione globale e quello di internet in particolare perché in fondo dieci milioni di persone non possono fisicamente incontrarsi e quindi nemmeno comunicare: «La comunicazione generalizzata è quindi possibile solo quando i fatti da comunicare sono già noti a tutti in precedenza; non è possibile per propagandare idee nuove». Da un lato «Friedman dimostra come il linguaggio stesso, la sua forma, la sua capacità di rappresentare, di plasmare e di rendere intellegibile una forma di pensiero sia l’unità di base ma anche la conditio sine qua non della costruzione utopica», dall’altro «Nei confronti dell’essenza astratta e totalizzante del progetto moderno e dell’esigenza dell’autografia la generazione di Yona Friedman ha cercato di opporre una maggiore considerazione delle differenze che attraversano e segnano l’abitare nonché una concezione meno soggettiva del linguaggio».
La parte finale del libro contiene peraltro una serie di attualissime proposte concrete per opporsi al fenomeno globalizzato dell’assenza di contatto fra politica e media con la maggior parte degli individui, cui invece vorrebbero rivolgersi: «Il fallimento di queste due generose utopie, la democrazia e la “comunicazione globale” tra gli uomini, comporta logicamente il formarsi di mafie che agiscono in nostro nome, contro i nostri interessi».
La città-continente, la pratica del sorteggio come vetta della democrazia diretta, il servizio civile al posto delle tasse, la migrazione come forma di difesa di fronte all’iniquità sociale, la “corruzione onesta” ovvero l’acquisto di servizi utilizzabili, il capitalismo sociale ecc. sono tutte piccole utopie realizzabili che brillano per la loro originalità né d’impianto prettamente marxista né liberale.
Certo Friedman ha sempre a cuore la difesa intransigente dei diritti individuali, che in nessuno modo devono essere mai scavalcati da quelli collettivi: le sue esperienze giovanili delle leggi razziali, ma anche quelle volontarie e certamente più positive in un kibbutz lo hanno chiaramente segnato in tal senso. Il sionismo utopico di Martin Buber è a mio avviso leggibile in controluce in più di un passaggio del libro, una posizione culturale rimasta del tutto marginale in Israele – il paese che nonostante tutto incarna l’utopia realizzata del sionismo che Friedman ha lasciato per sempre nel 1957 pur conservandone il passaporto – «Eppure i movimenti marginali di oggi rappresentano forse la soluzione del futuro…».
Grazie a questa impostazione radicale, che fa a meno di note, riferimenti e citazioni, Yona Friedman non invecchia e anzi suscita l’entusiasmo di nuovi lettori a volte imprevisti come gli artisti – vedi i continui inviti nei musei, biennali e gallerie d’arte – per la sua aderenza al presente.
Del resto Friedman si è sempre occupato del presente, detestando la futurologia. Come ha scritto un altro libero pensatore, Ivan Illich, «All’inferno il futuro! È un idolo mangiatore di uomini. Le istituzioni hanno un futuro… ma le persone non hanno futuro; le persone hanno solo speranza».
Riprendiamo la postfazione a Utopie realizzabili di Yona Friedman (Quodlibet)