Il tema della cura ritorna, o forse non si esaurisce mai completamente, ma non è certo nuovo. Tu hai lavorato su questo concetto per anni, sia a livello pratico, per esempio recentemente con il progetto Commonfare, sia a livello teorico. In riferimento alle tue esperienze e al tuo lavoro nel movimento femminista in Italia, in che modo ti sembrano cambiare le modalità pratiche della cura e il suo uso concettuale?
La questione è molto complessa. Da un punto di vista teorico, le donne si sono interrogate da sempre sul concetto di cura con il quale hanno intrattenuto “un’alleanza complessa”. Il femminismo di matrice marxista e materialista, soprattutto in Italia nel corso degli anni Settanta, ha messo in luce l’occultamento del lavoro domestico e di cura, il mancato collegamento tra le condizioni e contraddizioni materiali che le donne si trovavano a vivere, compresi i condizionamenti culturali che subivano. Noto è il percorso relativo al salario di lavoro domestico avviato da esponenti di punta di Lotta Femminista, le quali cercarono di mettere in rapporto elementi emozionali, azione collettiva e, non ultimo, il denaro. Laura Balbo nel 1982 lo definì lavoro di servizio, nel tentativo di valorizzarne il ruolo di mediazione tra i bisogni e gli affetti e le risorse determinate dalla logica del profitto.