Le porte della percezione è un famoso saggio di Aldous Huxley in cui l’autore racconta i suoi esperimenti con la mescalina. Ma è prima di tutto un verso del poeta inglese William Blake, che ha ispirato sia Huxley che Jim Morrison, visto che quest’ultimo lo ha scelto per dare il nome alla sua band nel 1965. Quel verso deve aver ispirato anche un altro personaggio, meno famoso dei primi due, ma oggi molto influente nel mondo della social innovation e del design degli ambienti urbani: John Thackara. Si chiamano così infatti – Doors of Perception – il blog e la società che Thackara ha fondato nel 1999 dopo essere stato direttore dell’istituto olandese per il design. Doors of Perception è quindi un blog, una società e un festival che John porta in giro per il mondo intorno ai temi della progettazione della città e della sua sostenibilità.
Se le porte della percezione fossero spalancate, ogni cosa apparirebbe all’uomo come realmente è, infinita. William Blake
Nel 2010, senza sapere chi fosse, mi sono ritrovato con lui a cena in un ristorante di Amsterdam, invitato da un mio amico che viveva lì, un hacker abbastanza famoso. Feci una figuraccia perché all’epoca non conoscevo Doors of Perception, avevo solo letto Huxley (sempre grazie al mio amico hacker che era stato mio coinquilino all’università) e ascoltato i Doors.
Sei anni dopo ordino un libro su Amazon dal titolo How to thrive in the next economy. Designing Tomorrow’s World Today (Thames & Hudson). Avevo preso il libro in uno di quei momenti di acquisto compulsivo in cui sei disposto a comprare qualsiasi libro attiri la tua curiosità. Solo leggendolo ho scoperto che era di John Thackara, quello sconosciuto che mi avevano presentano ad Amsterdam.
Leggendolo mi appassiono molto, è scritto con lo stile del giornalista e del ricercatore assieme, racconta storie di casi pratici che tentano di risolvere le molte sfide a cui è sottoposto il nostro pianeta: il cambiamento climatico, la povertà, la mobilità, la produzione di cibo, il consumo del suolo, la cura della salute globale e lo fa con un certo ottimismo in grado di lenire il mio pessimismo cosmico (sono un fan delle previsioni catastrofiche del Club di Roma e ho paura che il mondo collasserà nel 2030). Thackara ha girato il mondo con il suo festival a raccogliere esempi di design al servizio dei bisogni più umani. In questo libro scopre rimette al centro la potenza della creatività from below (dal basso) e dell’organizzazione collettiva orientata alla sperimentazione di pratiche di vita rurale e urbana in armonia con l’ambiente circostante.
Il libro non basta a sconfiggere il mio pessimismo, ma fornisce degli ottimi tentativi, spiegati rigorosamente e descritti con lo stile di uno che sa scrivere.
Siccome non mi aveva convinto del tutto, pensavo di contattarlo per fargli delle domande. Poi ho scoperto che il 31 maggio sarebbe stato ospite di Meet the Media Guru a Milano e allora è stato più facile intervistarlo.
Tra i molti casi che hai brillantemente descritto e raccontato nel tuo libro, ce n’è uno in particolare che credi sia più centrale degli altri nella progettazione del “mondo di domani”?
JT: L’assoluta varietà di progetti e iniziative contenuta lì dentro, è per me, la storia principale. Nessuno di quei progetti rappresenta da solo il seme magico dal quale crescerà la sacra quercia. Dobbiamo pensare più come una foresta che come un albero singolo! Se osservi le foreste che sono ancora in salute ti accorgerai che sono estremamente diverse, allo stesso modo stiamo osservando un sano alto grado di diversità nei progetti di social innovation in giro per il mondo.
Questi progetti e queste reti apparentemente marginali, quando le metti insieme, sostituiscono la paura che ha così tanto ostacolato il movimento ambientalista. Insieme raccontano una nuova storia sul nostro posto nel mondo. In opposizione a un’economia globale che impoverisce la terra, la biodiversità e le persone che tocca, questi progetti segnalano un riconoscimento crescente del fatto che le nostre vite sono dipendenti dalle piante, dagli animali, dall’aria, dall’acqua e dal suolo.
Il tuo libro mette al centro le pratiche e le soluzioni provenienti dai movimenti sociali, dal lavoro degli artisti e dei designers e dagli esempi di società non occidentali. Per apprendere dalle storie che racconti nel libro, le città occidentali devono cambiare il modo in cui si concepiscono e aprirsi al design e alla progettazione comune insieme ai movimenti, gli attivisti sociali, gli artisti, i designer?
JT: Quando incontro gli urbanisti e i governi delle città mi piace esordire con due domande: “Lo sai da dove arriverà il tuo prossimo pranzo?” e: “Sai se quel luogo di provenienza è sano o no?”. Queste due domande, inaspettate, sono un innesco per tornare a focalizzarsi sulla qualità e la sanità dei luoghi dove si producono gli alimenti che nutrono la città e dove nasce l’acqua di cui ha bisogno. All’interno di questo nuovo quadro, emergono nuove opportunità per innovare –ad esempio l’urban farming, gli orti urbani. In questo caso innovare la città non ha a che fare con sistemi di controllo high-tech, ha piuttosto a che fare con nuovi modi di condividere e non sprecare le risorse a disposizione e collaborare per portare a casa il risultato. Abbiamo bisogno di nuovi tipi di impresa: cooperative urbane di produzione di cibo, cucine collettive, spazi per il consumo comunitario di cibo, orti e giardini commestibili, nuove piattaforme di distribuzione, diversi modelli di condivisione delle risorse. Queste che ho elencato forniscono tutte nuove opportunità per i designer.
Il tuo lavoro ha contribuito a riconcepire la pianificazione urbana dalla prospettiva del designer e dell’artista. Quali sono i vantaggi dell’immaginare le città di domani da queste prospettive?
JT: la priorità non sono i messaggi o i concetti o i piani. Come ha scritto Marcel Proust “La vera scoperta consiste non nello scoprire nuove terre, ma nel vedere con nuovi occhi”. Abbiamo bisogno di nuovi modi di vedere e raccontare i luoghi e gli artisti sono ben posizionati per aiutarci a farlo. La priorità è favorire l’empatia con l’ambiente e connessioni più fertili tra luoghi e persone. Qui è dove l’arte e lo storytelling si incontrano. Entrambe possono modificare il nostro interesse, reindirizzare la nostra attenzione e dare vita a conversazioni impossibili da trovare sui prepotenti mezzi di comunicazione tradizionale.
La tua è una proposta che va nella direzione della “decrescita” o una forma totalmente differente di crescita, basata su un uso più intelligente dei beni comuni? La società occidentale è pronta per uno stile di vita molto meno individualistico?
JT: Un’economia basata sui beni comuni e orientata alla cura degli uomini genera forme di ricchezza di cui si fa carico la comunità, una generazione dopo l’altra. Quest’idea incarna un impegno a lasciare le cose “un po’ meglio di come le abbiamo trovate” invece che estrarre valore da esse il più velocemente possibile, come succede ora. Niente di tutto ciò che sto dicendo è nuovo. La cura collettiva dei beni comuni ci riporta dannatamente indietro nel tempo. Descrive il modo in cui le comunità gestivano la terra comune nell’Europa medievale. Un’economia basata sulla cura degli uomini è esistita lungo tutta la storia umana – badare l’uno all’altro, badare alla terra comune, in molti modi diversi, molti dei quali non includono lavoro salariato. Molte persone dicono che abbiamo bisogno di concentrarci su soluzioni che possano essere scalabili – questa è la globalizzazione – ma io non sono d’accordo. Ogni contesto sociale ed ecologico è unico e le risposte che cerchiamo sono contenute in un’infinità di bisogni locali.
I cambiamenti che descrivi nel libro sono pronti per essere adottati da un numero più vasto di persone oppure abbiamo prima bisogno che queste misure vengano approvate e applicate dai governanti?
JT: Un cambiamento di tipo veramente trasformativo sta già accadendo ora – ma sta avvenendo sotto i radar, lentamente, lontano dai riflettori dei media e dall’attenzione politica. In un’età di reti e tecnologie digitali, anche le più piccole azioni locali possono contribuire alla trasformazione del sistema nel suo insieme. La mia impressione come autore, come scrittore – che il cambiamento è già in atto – è coerente con il modo in cui gli scienziati spiegano il cambiamento all’interno di sistemi complessi. Da quello che sostengono loro, una varietà di cambiamenti, interventi, innovazioni distruttive e opposizioni si accumulano lungo l’arco temporale finché il sistema raggiunge un punto di non ritorno: allora, in un momento che non possiamo prevedere, un piccolo rilascio di energia innesca una catena di eventi più ampia, o un cambiamento di fase, e il sistema nel suo complesso, cambia. Il filosofo francese Edgar Morin lo ha descritto in maniera splendida: “Tutte le grandi trasformazioni erano impensabili fino a quando non sono successe davvero; il fatto che un sistema di pensiero sia così radicato non significa che non può cambiare”
Quali sono gli ingredienti per una città in grado di renderla sostenibile per chi ci vive?
JT: Curiosità e apertura mentale. Tutte le soluzioni sono già di fronte a noi, là fuori. Quando si tratta di progettare nuovi luoghi e nuove forme di riparo, la risorsa più importante della città è costituita dall’energia e dalle motivazioni dei suoi abitanti. Molte funzioni e servizi un tempo erogati da istituzioni pubbliche stanno venendo reinventate dall’accumularsi dell’esperienza di iniziative individuali nel commercio, nell’edilizia e nei servizi pubblici. I progetti urbani più importanti, secondo me, sono quelli in grado di mettere la vitalità della società e dell’ambiente in cima all’agenda politica. In termini progettuali questo si traduce nel supporto alla creatività sociale e ai luoghi dove questa può fiorire: maker space, progetti e officine di riciclo, forni collettivi, distillerie artigianali, orti urbani, cucine comunitarie aperte al pubblico e cose simili. Ogni città ha bisogno di molti spazi come questi e altri luoghi basati sui commons. Nei loro programmi di sostegno all’economia e lo sviluppo economico, le città devono focalizzarsi su platform co-ops, piattaforme cooperative in cui il valore è redistribuito in parti eguali tra le persone che contribuiscono a produrre quel valore. Valore in questo caso significa case, trasporti, cibo, mobilità, acqua, cura degli anziani…
Dove e cosa bisogna osservare per scoprire modelli emergenti di stili di vita sostenibili?
JT: Il messaggio che voglio far passare è che il cambiamento sta già accadendo. Non stiamo partendo dall’inizio, non dobbiamo scoprire nulla. Guardati attorno; c’è sicuramente un programma o un progetto nel quale ti piacerebbe essere coinvolto. Il cambiamento e l’innovazione non hanno più a che fare con visioni finemente costruite e la promessa di una realtà migliore descritta in un manuale di design per qualche luogo o tempo futuro. Il cambiamento accade quando le persone si riconnettono tra loro e con la biosfera, in contesti reali e umanamente ricchi e altamente diversi.
Immagine di copertina: ph. di Mikael Kristenson da Unsplash