Crescendo: l’edizione numero 27 di Miart ha mantenuto la promessa del suo titolo. In linea con la metafora musicale (peraltro leitmotiv di tutte le edizioni firmate dal direttore Nicola Ricciardi), l’appuntamento, che si è svolto dal 13 al 16 aprile, ha moltiplicato numeri, partecipazioni e presenze: 169 gallerie espositrici da 27 Paesi, il 40% di ospiti internazionali in più rispetto alla scorsa edizione, e raddoppiati anche premi e acquisizioni.
A una settimana dalla chiusura dell’Art Week e all’indomani della fine della Design Week, ci chiediamo quale sia il valore di queste manifestazioni. In un susseguirsi frenetico di eventi, attività più o meno interattive e mostre, può risultare impegnativo riuscire a soffermarsi.
È doveroso partire da una premessa e tenere presente lo scopo principale di Miart: è una manifestazione commerciale. La fiera, infatti, sopravvive grazie alle gallerie che affittano
metri quadri e ai collezionisti che acquistano le opere. È da qui che deve necessariamente prendere avvio un’analisi che cerchi di collocare una fiera all’interno di un contesto culturale. Allo stesso modo in cui ci si domanda se uno dei compiti della cultura sia anche quello di essere da traino per il mercato o viceversa. La compartecipazione di attori significativi, come curatori e critici, all’interno di una occasione commerciale trova il suo senso nel momento in cui i due mondi riescono a parlarsi e compenetrarsi, producendo una riflessione intorno alle loro reciproche influenze.
Parlando di cultura e mercato, nell’ultimo anno si è sviluppata un’attenzione particolare verso l’arte di alcuni paesi africani come Ghana, Nigeria, Sudafrica, e verso l’arte femminile, che ha fatto registrare risultati record nelle aste di tutto il mondo, oltre a raccogliere l’interesse dei musei e delle biennali.
Le fiere, dalla loro nascita nella seconda metà degli anni ’60 con Art Cologne e Art Basel, hanno l’obiettivo di inserirsi in uno spazio sottile e delicato che sta tra il lavoro di ricerca delle gallerie (soprattutto quelle di massima qualità) e la vendita, nuda e asettica. Le fiere rappresentano la piazza globale dell’arte e, in quanto tali, partecipano alla responsabilità di costruire la reputazione degli espositori, attraverso la loro selezione.
La voglia di accostare cultura e mercato è testimoniata anche da una lunga storia di stand che hanno ospitato importanti progetti curatoriali. Basti pensare a quelli del colosso svizzero Hauser and Wirth che a Frieze London nel 2017 ha ricreato una presentazione dell’Età del Bronzo con prestiti da musei e collezioni internazionali, in collaborazione con l’Università di Cambridge. O ancora a Lia Rumma che negli anni ha affidato agli artisti la curatela dei suoi stand, prima Joseph Kosuth a Londra, poi Haim Steinbach ad Art Basel Miami e, infine, Alfredo Jaar ad Artissima (nel 2019).
Come ulteriore aspetto, c’è la velocità: chi va a una fiera si aspetta di vedere in poche ore tutto quello che offre il mercato. E non va dimenticato un ultimo dato: importanti sono anche gli impatti che le fiere hanno sul territorio.
Ecco che Miart si inserisce nel crocevia di tutte queste riflessioni. Infatti e più di tutto, questa fiera ha rappresentato lo specchio della città che la ospita. Il senso del legame con Milano è stato reso manifesto da Ricciardi che per la prima volta ha fatto uscire dalle mura i contenuti della fiera, con l’idea di una restituzione. Triennale Milano ha infatti accolto miart LIVE, una serie di incontri con i grandi nomi della cultura, tra cui Massimiliano Giorni e Beatrice Trussardi. Questa scelta importante è andata di pari passo con la presenza di un pubblico molto variegato. Il giorno dell’opening, solitamente caratterizzato da piccoli gruppi di grandi collezionisti, è stato invaso da masse di giovani e meno giovani che, con entusiasmo, varcavano i confini degli stand, disperdendosi ovunque. L’idea di questa edizione, dunque, è proprio questa: un chiaro tentativo di apertura verso l’esterno e di accoglienza all’interno. Ha senso che l’arte arrivi a tutte e tutti, anche a chi non ha fatto dell’arte un lavoro e delle opere una passione estrema ed estremizzante. Con una domanda: ma i grandi collezionisti abituati e amanti della privacy e dell’esclusività la penseranno così?
Nello sforzo apprezzabile di democratizzare un territorio così elitario come quello dell’arte, resta sullo sfondo una questione aperta, per il pubblico ma anche per le generazioni più giovani di artisti che vorrebbero/potrebbero gravitare su un nuovo, vivace, interessante polo. Milano ha una problematica oggettiva di costi dell’abitare e della vita (mondana e non), che diventano un ostacolo a qualsiasi forma di apertura e investimento futuro. C’è un gap, ma anche una grande opportunità da cogliere in termini di progetti da mettere in campo. Vedremo.
Ma entriamo nel merito di Miart. Ricciardi, in veste di direttore e valido curatore, ha scelto attentamente le aree in cui dividere la fiera: accanto alla sezione principale, che ha ospitato le
gallerie Established, con linguaggi della più stretta contemporaneità e opere realizzate nel corso del XX secolo (con anche un po’ di design d’autore), c’è stata Decades, che ha esplorato la storia del XX secolo in una scansione per decenni, curata dal Direttore di ICA Alberto Salvadori. Un’attenzione a sé merita la sezione degli Emergent, riservata alla promozione delle generazioni più recenti di artisti e gallerie, in una selezione della curatrice indipendente Attilia Fattori Franchini. A sé perché guardare gli emergenti è stato significativo per identificare due tendenze: la voglia e/o necessità di supportare gli artisti più giovani e lanciati sul mercato, e una sfida verso l’internazionalità. Questi due aspetti si sono rivelati come le due facce della stessa medaglia, se si pensa che questa sezione, composta da 26 espositori, ne ha raccolto 18 provenienti da Europa ed extra Europa. Tendenza di successo identificata anche nella mostra collettiva “Supernova 23”, presentata da Intesa Sanpaolo, Main Sponsor della fiera e dedicata a sette pittrici e pittori emergenti, under 35.
Parlando di opere: la materia ha avuto la meglio sul medium digitale. La video arte si è presentata timidamente in pochi stand, nonostante l’ondata digitale e virtuale in cui il mondo della cultura (e non solo) ha tentato di riversarsi in questi anni. I lavori a parete e le sculture, meno presenti nelle edizioni passate, vincono sia per Established che per emergenti.
Morale (sembrerebbe): l’esperienza dal vivo ha più presa rispetto a una forma non tangibile o virtuale, anche per quelle generazioni che il digitale l’hanno frequentato. Miart ha dimostrato che la sperimentazione non ha niente a che vedere con pratiche nuove e che lo stare al passo con i tempi significa guardare avanti in termini di prospettive e compresenze, senza che questo comporti necessariamente l’abolizione delle forme precedenti. Anzi. Lo confermano anche alcuni artisti giovanissimi, come Peter Ojingiri (Nigeria, 1997), che affronta temi critici pre e post coloniali attraverso la materialità del colore della pelle, e Nabeeha Mohamed (Sudafrica, 1988), che si confronta, invece, con le complessità e le contraddizioni dell’identità e del privilegio di classe nel Sudafrica post-apartheid. La galleria che li promuove, Gallery 1957 (Accra – Londra), ormai sulla cresta dell’onda delle nuove tendenze contemporanee, ha l’obiettivo di promuovere la tecnica della pittura e la pratica del ritratto su scala globale e giovane.
Dunque, riflessione finale. È la commistione di passato, presente e futuro che vince sull’ultra contemporaneità (del digitale e dell’ormai superato boom NFT). Vince a Miart ma forse, e ancor di più, nelle due settimane artistico/mondano/milanesi. Bene.