A cosa serve la partecipazione?

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    In questa sede più che propriamente definire la partecipazione mi interessa principalmente discuterne gli usi, ovvero sollecitare una riflessione sull’a cosa e a chi serva la partecipazione. Assumendone quindi una definizione molto lasca, ovvero designandola quale un ampio spettro di pratiche, procedure e politiche che in ambito urbano – e più latamente territoriale – intendono introdurre forme di legittimazione delle decisioni pubbliche e di gestione delle cose pubbliche diverse da quelle proprie alla democrazia rappresentativa ed alla relativa attuazione amministrativa. Da una parte, questa definizione così lasca ci permette di guardare ad una dimensione essenziale spesso ignorata, ovvero quella della legittimazione come la risorsa chiave in gioco in queste pratiche, procedure e politiche. E dall’altra ci permette di tenere assieme nel nostro discorso oggetti apparentemente distanti, quali la partecipazione di un individuo al bilancio partecipativo e un meccanismo di governance di un determinato progetto che preveda anche forme di coinvolgimento della cosiddetta società civile.

    Il primo uso della partecipazione che possiamo individuare ha a che fare con il sapere. La partecipazione può servire a far penetrare nei processi decisionali saperi non considerati, in precedenza, quali saperi legittimi sui quali fondare delle decisioni. Questo uso della partecipazione  mette in discussione l’ordine epistemico che domina le arene nelle quali sono prese determinate decisioni. Quando al culmine dei conflitti sull’urban renewal – i grandi programmi di modernizzazione urbana nella New York degli anni 50 e 60 – Robert Moses dà della “casalinga” a Jane Jacobs intendeva squalificarne la parola precisamente per impedire che saperi esterni a quelli degli apparati tecnici padroni dell’economia politica dello sviluppo urbano potessero essere per l’appunto considerati legittimi nei processi decisionali che riguardava la città. Jacobs non era una “casalinga”, ma i suoi argomenti facevano parte di un ordine del discorso non specialistico e non codificato che per giunta si fondava su una critica radicale alla scientificità (e quindi legittimità) dei saperi di cui Moses era invece portatore. In un contesto e in forme molto diverse, quando nella Terni dello stesso decennio Giancarlo De Carlo prendeva a progettare le abitazioni del noto Villaggio Matteotti attraverso un percorso molto strutturato che prevedeva anche delle interazioni con gli abitanti, riconosceva di fatto la legittimità dei loro punti di vista nonché delle loro preferenze rispetto agli spazi cui avrebbero abitato. Come evidente, De Carlo non riconosceva a questo sapere lo stesso valore che attribuiva al suo, ma di certo lo riconosceva in una misura molto maggiore rispetto a qualsiasi esperienza di progettazione dell’architettura in Italia realizzata fino ad allora.

    Il primo uso della partecipazione che possiamo individuare ha a che fare con il sapere

    Questi due casi, sebbene molto diversi fra loro, rimandano al coinvolgimento di saperi quotidiani fondati sull’esperienza diretta della città a scale diverse e sulla riflessività che – a livelli variabili di sofisticatezza – può discendere da tale esperienza diretta. Nel caso di Jacobs questa messa in discussione dell’ordine epistemico delle politiche urbane avviene per irruzione – attraverso l’azione collettiva nella forma di un conflitto – e conduce ad un’alterazione di lungo corso di quell’ordine, tanto che oggi il pensiero di Jacobs è diventato parte dell’ordine epistemico egemone sulle questioni urbane (dopo essersi strutturato e codificato nell’ambito di discipline che spaziano dagli studi urbani all’urban design). Più complessivamente, saperi anche specialistici, per essere riconosciuti quali legittimi in determinate arene devono in qualche modo irrompere e questo può avvenire anche attraverso la partecipazione: la sociologa Wendy Espeland, nel suo “ The battle for water” ricostruisce la vicenda dell’inserimento di saperi specialistici ambientali e territoriali nei processi di pianificazione delle opere idrauliche nel sud-ovest degli Usa attraverso certo un cambiamento delle norme che imposero il coinvolgimento di quegli specialisti, ma anche attraverso la capacità di questi specialisti di dare voce agli interessi ed alle conoscenze quotidiane di gruppi sociali marginali – in questo caso le comunità native – che il precedente ordine epistemico semplicemente non vedeva. In questo caso, come si vede, le conoscenze specialistiche divenivano alleate delle conoscenze quotidiane di un determinato gruppo sociale contrastando congiuntamente l’egemonia di altri saperi specialistici (strategicamente alleati di altri gruppi sociali).

    Come abbiamo visto con De Carlo, la rottura dell’ordine epistemico tradizionale di un determinato campo dell’azione pubblica avveniva però anche per “invito”, ovvero attraverso il disegno di un processo che includesse la legittimazione di queste conoscenze. Questa forma dell’invito alla partecipazione per trattare problemi definiti come complessi e quindi difficilmente trattabili è diventato forma piuttosto ordinaria, specie nell’ambito delle politiche urbane di matrice europea e su oggetti non di grande e immediata rilevanza per i sistemi di potere locale. La diffusione di forme cosiddette laboratoriali (ad esempio, i cosiddetti urban living lab) generalmente orientati a trattare problemi emergenti – ad esempio, quelli ambientali e climatici – si fonda sull’idea che per trattare questi problemi vi sia bisogno di innovazioni profonde ed accelerate cui si pervenga anche attraverso la sperimentazione di progetti “pilota” costruiti da una varietà di attori sulla base di una varietà di prospettive epistemologiche. Queste tecnologie della partecipazione permettono ai governi urbani di estrarre conoscenze specialistiche in forma sostanzialmente gratuita e facendo ampiamente leva sul desiderio di distinzione, riconoscimento e protagonismo proprio ai ceti urbani che di queste conoscenze sono portatori. In questo caso la razionalità della partecipazione è l’innovazione, e queste pratiche si legittimano non tanto perché cerchino espressamente la rottura dell’ordine epistemico di una data politica quanto piuttosto perché quella forma di partecipazione permetterebbe l’innovazione. Queste forme di partecipazione pongono questioni e problemi di diverso ordine quando sono promossi e appropriati dagli attori pubblici (ad esempio il rischio di un approccio “soluzionista” a problemi di natura eminentemente politica, oppure un’eccessiva attenzione al processo come fosse di per sé garanzia di desiderabilità degli esiti). Ma ancora di più quando lo sono da attori privati, i quali hanno ormai sviluppato una diffusa, sofisticata capacità di stimolare la produzione e patrimonializzare il sapere accumulato nel corpo sociale urbano e la sua capacità di produrre innovazioni (rendendole così invise ad una parte del medesimo corpo sociale urbano, che le vede come una minaccia).

    Un altro uso della partecipazione, il più tradizionale e frequentemente connesso all’uso epistemico di cui abbiamo parlato è quello finalizzato a mutare gli assetti distributivi del potere nell’ambito di una determinata politica e/o decisione pubblica rispetto a quelli che prevarrebbero nel quadro dei soli meccanismi della democrazia rappresentativa. La partecipazione – se minimamente effettiva – è a somma zero dal punto di vista della distribuzione del potere, nel senso che funziona in modo idraulico: rafforza il potere di influenza su una determinata decisione di determinati gruppi sociali e riduce quello di altri. Un uso radicale dei processi partecipativi ha scarsa fiducia in ideali deliberativi habermasiani e tende, viceversa, a perseguire l’obiettivo di un rafforzamento del potere di gruppi sociali comparativamente deboli e di un indebolimento del potere di quelli comparativamente forti anche attraverso il conflitto. La partecipazione può essere usata, ad esempio, per aggirare le barriere che fanno di frequente della democrazia formale una fortezza che lascia fuori molti abitanti della città, ad esempio dando voce a gruppi sociali che de jure sono esclusi dalle istituzioni rappresentative locali: residenti adulti che come nel caso degli immigrati nelle città italiane non esercitano il diritto per le scelte politiche che volontariamente li escludono; quartieri o porzioni di territorio che per un insieme articolato di fattori partecipano scarsamente ai processi elettorali subendo in una misura particolarmente intensa le decisioni pubbliche; o anche gruppi  sociali – quali bambini e adolescenti – anch’essi esclusi de jure dalla rappresentanza pur avendo un punto di vista potenzialmente legittimo (legittimabile) su una varietà di oggetti delle politiche urbane. Quando negli Usa degli anni sessanta del secolo scorso il governo federale mise in opera il Community Action Programme aveva come obiettivo – attraverso l’introduzione del principio della cosiddetta maximum feasible participation – quello di dare alle popolazioni dei ghetti afro-americani un’arena nella quale poter esprimere richieste e rivendicazioni nei confronti degli apparati pubblici, gestendo al contempo con inedita autonomia delle risorse pubbliche. L’obiettivo strategico del programma era quello di aumentare il potere di condizionamento di questi gruppi sociali su politiche che li riguardavano premendo su regimi urbani che li escludevano (e prevedibilmente i responsabili di questi regimi urbani convinsero rapidamente il governo a de-finanziare una politica pubblica di cui si era evidentemente sottovalutato il portato radicale e conflittuale). Un tale uso radicale della partecipazione non è, come del tutto evidente, comune e diffuso e implica forti mobilitazioni sociali precedenti e contestuali che giustifichino dei disegni istituzionali così apertamente orientati alla riforma politica (quella sostanziale, ovvero degli assetti di potere reali). Diversamente, già Sherry Arnstein, autrice del noto Ladder of community participation, indicava i rischi di un uso della partecipazione a fini di manipolazione, terapia e placazione ovvero in direzione precisamente opposta ad una lettura radicale. Al di qua di questo argomento, anche quando non siano necessariamente tacciabili di collocarsi ai livelli più bassi della scala di Arnstein, molte delle politiche di partecipazione oggi prevalenti, producono come vedremo effetti paradossalmente anti-redistributivi.

    Un altro uso della partecipazione è quello finalizzato a mutare gli assetti distributivi del potere

    Tale tendenza della partecipazione ha oggi molto a che fare con quello che chi scrive considera oggi uno dei suoi usi più importanti nella città contemporanea, ovvero quello di rilegittimare una classe politica e più complessivamente delle istituzioni che appaiono sempre più fragili, instabili e impegnate in una ricerca spasmodica di legittimità. In questo senso la partecipazione serve a governare, più precisamente serve a realizzare delle partnership fra attori politici e la cosiddetta società civile. Tali partnership hanno come obiettivo quello di generare effetti di governo. La politica non può stare da sola, quella del politico locale che decide da solo e “non risponde a nessuno” è una purissima costruzione ideologica che, se concretamente tentata, conduce generalmente al disastro. A qualcuno e qualcosa la classe politica deve rispondere e con qualcuno e qualcosa la classe politica deve agire di concerto. In una fase di crisi molto intensa (e apparentemente senza fine) delle forme organizzate di rappresentanza e intermediazione, in molte città avanzate le forme di partecipazione associate a determinate politiche pubbliche servono a creare arene nelle quali la classe politica locale e gli apparati dell’amministrazione possano generare attori esterni cui appoggiarsi, rappresentando anche teatralmente la natura collettiva dei processi politici (o meglio di una selezione accurata di questi) e così facendo in qualche misura rilegittimandosi. Molte delle politiche partecipative – sebbene siano di frequente innovative dal punto di vista della trasformazione degli ordini epistemici – sono viceversa piuttosto conservatrici dal punto di vista della configurazione degli assetti distributivi del potere fra i gruppi sociali, venendo a fornire una maggiore varietà di occasioni di partecipazione a gruppi sociali che ne dispongono già in quantità significativa (da lì il fenomeno dei cosiddetti super-citizen, ovvero individui in grado di utilizzare una grande varietà di strumenti di partecipazione). Oggi la partecipazione urbana è in grande prevalenza un affare delle classi medie, di gruppi sociali con un elevato capitale culturale, contatti eccellenti con i decisori e un’avanzata consapevolezza dei meccanismi istituzionali e amministrativi. In questi termini, la partecipazione è la politica delle classi medie senza più dover necessariamente disporre di un partito delle classi medie oppure di organizzazioni sociali delle classi medie. In questo senso la partecipazione può rappresentare anche un meccanismo per la selezione di quadri dirigenti (i movimenti sociali ed i movimenti urbani hanno tradizionalmente svolto questo ruolo, si veda ad esempio quanto accaduto nello scorso decennio nelle città spagnole, tuttavia questo meccanismo può essere attivato via politiche della partecipazione in assenza di movimenti sociali). Complessivamente, le politiche di partecipazione possono fornire una classe di rappresentanti e mediatori che, nel quadro della crisi delle forme organizzate di reclutamento del personale politico a tutti i livelli, si offra come partner di una classe politica malata di solitudine.

    Un altro uso della partecipazione è quello del governo a distanza che, a certe condizioni, può essere anche un più o meno sottile esercizio di deresponsabilizzazione dell’attore pubblico. La partecipazione talvolta serve a mettere in scena il governo dando l’illusione che la città sia effettivamente governata attraverso il moltiplicarsi di iniziative realizzate da altri rispetto alla classe politica e agli apparati amministrativi, ovvero la società civile. Questa illusione di governo è particolarmente preziosa quando si applica a problemi difficili da trattare e/o a conflitti intensi: in questo caso la creazione di un’arena nella quale gli abitanti possano attivarsi e prendersi delle responsabilità può svolgere la funzione di placare o decentrare i conflitti verso soggetti che più o meno inconsapevolmente si trovino a fare così le veci del governo urbano. Si pensi a molte delle gestioni collaborative di beni pubblici ridefiniti quali “beni comuni” ed in particolare di quelle più elementari – quali un piccolo spazio verde, uno spazio pubblico se non addirittura un marciapiede – che in contesti di grave incapacitazione dell’attore pubblico (condizione comune in Italia) tendono semplicemente a sostituirlo. E a sostituirlo per funzioni alle quali in condizioni migliori non dovrebbe applicarsi la partecipazione dei cittadini bensì un qualche apparato sociotecnico specializzato (gestire come bene comune uno spazio complesso è sicuramente fonte di arricchimento del corpo sociale urbano, gestire un marciapiede come bene comune è più discutibile sia per lo spreco di partecipazione su un oggetto elementari che esso rappresenta sia per il suo alimentare aspettative di governo privato della città e delle sue parti). In riferimento ai quartieri, che continuano ad essere una scala rilevantissima nel farsi della convivenza urbana, queste forme di governo a distanza (e ce ne sono di molto più elaborate) permettono la costituzione di una membrana sottile che per periodi anche lunghi possono proteggere la classe politica dall’irrompere di conflitti nei quali necessariamente dover intervenire.

    La partecipazione talvolta serve a mettere in scena il governo dando l’illusione che la città sia effettivamente governata attraverso il moltiplicarsi di iniziative realizzate da altri

    Come anticipato, queste poche note non muovevano da alcuna ambizione di esaustività. La limitata ambizione era quella di ragionare e far ragionare attorno agli usi della partecipazione la quale, a ben vedere, andrebbe sempre giustificata. Quando viceversa essa è presentata come portatrice di una razionalità auto-evidente, come se fosse un bene in sé, è molto probabile se ne stia facendo un uso surrettiziamente egemonico. La partecipazione serve sempre a qualcosa, ed a qualcuno. Interrogarsi e dividersi sui suoi usi appare quindi indispensabile.

    Riferimenti

    Saul Alinsky, Radicali all’azione, a cura di Alessandro Coppola e Mattia Diletti, Edizioni dell’Asino, 2020

    Wendy Nelson Espeland, The Struggle for Water: Politics, Rationality, and Identity in the American Southwest, University of Chicago Press

    Alessandro Coppola, “Citizenship by design. Cinquant’anni di politiche contro la povertà negli Usa”, Acoma, Anno XXI, n.14, 2015;

    Alessandro Coppola e Sebastiano Citroni The emerging civil society. Governing through leisure activism in Milan” (with Sebastiano Citroni), Leisure Studies, 40:1, 121-133

    Paola Savoldi, Giochi di Partecipazione. Forme territoriali di azione collettiva, Franco Angeli

    Giovanni Allegretti, Enrico Gargiulo, Elena Ostanel, Laura Saija, Michelangelo Secchi “Sulla partecipazione: strumenti di attivazione e democrazia degli abitanti”,) in “Ricomporre i divari. Progetti e politiche territoriali contro le diseguaglianze e la transizione ecologica” (a cura di Alessandro Coppola, Matteo del Fabbro, Arturo Lanzani, Gloria Pessina, Federico Zanfi), Il Mulino, 2021

    Questo contributo sviluppa l’intervento di Alessandro Coppola alla Summer School a cura di cheFare, Compagnia di San Paolo, ANCI-national Urbact Point e Comune di Torino del 5-6 settembre 2022

    Immagine di Rob Curran da Unsplash

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