Il teatro sociale d’arte oggi in Italia

teatro sociale

Qualche giorno fa (il 6 febbraio), in occasione dell’inizio del Festival di Sanremo, il Corriere della Sera ha pubblicato un interessante supplemento: Buone Notizie, l’impresa del bene. E l’ha interamente dedicato a tutte quelle pratiche musicali (dalla creazione artistica, alla formazione, dalla nazionale cantanti alle orchestre di periferia, e altro) che nascono in contesti di disagio psicofisico o sociale. Meritoria l’iniziativa del Corriere!

Lo spaccato che ne emerge è sicuramente molto interessante, addirittura commovente. Aspettiamo ora che faccia altrettanto con il Teatro.

Perché di fatto, in Italia, quel settore ampio, magmatico, vitale, diffusissimo che è il cosiddetto “teatro sociale” o “di interazione sociale” è senza dubbio la grande novità di questi anni. C’è una fioritura, una nuova consapevolezza, una maturità davvero interessante.

Da tempo, nella mia pratica critica, me ne occupo: non solo per solidarietà umana, ma per reale e fondamentale interesse artistico. Di fatto, molte – non tutte – delle esperienze teatrali che prendono forma in carcere o in ospedale, nei centri di salute mentale o nelle periferie urbane hanno assunto le stimmate di veri e proprio prodotti d’arte, con esiti scenici che possono competere serenamente con le migliori “produzioni” dei teatri mainstream.

Ho appena visto una bellissima e potentissima edizione di Ubu Re, messa in scena dalla Compagnia Teatro dei Venti di Modena con i detenuti-attori case circondariali di Modena e Castelfranco Emilia, con la regia e drammaturgia di Stefano Tè. Un grandissimo spettacolo, rigorosissimo e di forte impatto visivo. È solo un esempio, il più recente, dei tanti che si possono fare da Nord a Sud del paese.

E, al di là del dato propriamente estetico, forse meno interessante per questo giornale, vale la pena invece spendere qualche considerazione sulla natura progettuale, ossia economico-sociale, del Teatro Sociale d’arte.

Partiamo da un assunto, ripetuto dal regista Gabriele Vacis: “oggi in Italia c’è molta più gente che vuole fare teatro di quanta voglia vederlo”.

Sarà la Rete, sarà la voglia di stare insieme, sarà che un medium antico come il teatro sembra l’ultimo baluardo allo smembramento individualistico, di fatto – però – si sono moltiplicate le domande di iscrizione alle scuole e accademie (così come si sono moltiplicate le scuole stesse) e le maglie della partecipazione si allargano sempre più.

Il teatro oggi è terreno fertile per la crescita di un’umanità varia, aperta, integrata. Niente muri o barriere: anche la diversità trova accoglienza e ascolto, anzi diventa oggetto e soggetto creativo. È, paradossalmente, il coronamento del pensiero di Antonin Artaud, il grande marsigliese, teorico folle del “teatro della crudeltà”. Chiuso a lungo in manicomio, Artaud ebbe una sua ossessione tutta scenica: “rifare i corpi”, fino a farli danzare alla rovescia. E se l’attore era “il suppliziato che fa cenni dal patibolo”, ecco allora che le tante diversità e disabilità umane che oggi abitano il palcoscenico, con il loro carico di storie difficili, sono l’apoteosi di un teatro che ha sbaragliato ogni forma per giungere a una sostanza nuova. Bellissima ed esplosiva.

Il teatro sociale d’arte ha in sé la carica rivoluzionaria di chi sa scardinare preconcetti e pregiudizi, di chi non si arrende al perbenismo borghese, di chi cerca – come afferma il poeta e attore Gigi Gherzi – più il “senso” che non il “consenso”.
Dunque ricerca e esplorazione di nuovi linguaggi, di codici diversi, di possibilità drammaturgiche, poetiche, registiche, interpretative assolutamente originali.

Con la possibilità, poi, di sperimentare senza l’assillo delle leggi del mercato, senza inseguire il “nome televisivo”, il “titolo di richiamo”, la provocazione o lo scandalo buono solo a épater le bourgeois (semmai ce ne fossero ancora di borghesi da scandalizzare).

Anche da questo punto di vista, infatti, il teatro sociale opera un sostanziale ribaltamento di rotta rispetto alle pratiche dominanti. Fregandosene altamente del “botteghino”, del “fare cassa”, di quei “numeri” che sembrano essere il metro di ogni successo, il teatro sociale ha trovato strade proprie, e modalità di sostentamento alternative.

Se pure il Mibact ha comunque aperto i cordoni della borsa rispetto a iniziative di coinvolgimento sociale – come per il bel progetto Migrarti, destinato a sostenere iniziative teatrali capaci di confrontarsi con l’immigrazione – sono anche altri i settori, pubblici e privati, che sostengono la pratica teatrale socializzante.

E l’Università italiana, spesso lontana dai fermenti creativi contemporanei, si sta aprendo sempre più allo studio di questo teatro: dai luoghi “storici”, come la Cattolica di Brescia e Milano, all’Università di Torino e Dass di Bologna, fino alla Sapienza di Roma, dove sta partendo – la cito per esperienza diretta – un Master interamente dedicato al teatro sociale.

Ma il panorama della creatività sociale è davvero ampio e articolato, difficile contenerlo o catalogarlo.

Si va da Bolzano, con la compagnia La Ribalta-Accademia Arte della Diversità diretta da Antonio Viganò a Catania, dove la compagnia Teatro Neon è entrata ufficialmente nella programmazione del Teatro Stabile.

Oppure da Torino, dove il citato Gabriele Vacis ha ideato un “Istituto di pratiche teatrali per la cura della persona”, con il sostegno dello Stabile Torinese a Pisa, con il pluriennale lavoro di Alessandro Garzella e della compagnia Animali Celesti. Si passa dal coordinamento teatro e carcere della Regione Emilia Romagna al lavoro fuori dal carcere, per ex detenuti di Rebibbia, dell’associazione Fort Apache diretta da Valentina Esposito: autori, tra l’altro, di un recente e struggente docu-film, “Ombre della sera”.

O ancora vale la pena scoprire l’azione sistematicamente sul campo dell’Associazione Asinitas Onlus di Roma che coinvolge donne immigrate in laboratori di teatro comunitario, o del Laboratorio teatrale integrato permanente “Piero Gabrielli” guidato da Roberto Gandini che agisce nelle scuole capitoline realizzando meravigliosi e fantasiosi spettacoli con bambini disabili e non.  L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.

Si potrebbe citare, ad esempio, il bellissimo lavoro teatrale dei Frati Minori Cappuccini della Lombardia, e tra questi Frate Stefano Luca, con i bambini soldato in Africa subsahariana.

Oppure ancora si potrebbe evocare il lungo legame che una compagnia importante come il Teatro delle Albe di Ravenna ha con il continente nero: dalle ormai storiche creazioni con gli attori senegalesi giunti in Italia negli anni 80, al teatro costruito a Diol Kadd, paese di origine del compianto attore Mandiaye N’Diaye, fino alla nuova avventura in Kenia del regista Marco Martinelli, che ha dato vita a una “non-scuola”, la pratica pedagogico formativa per adolescenti creata dalle Albe, con i bambini di Nairobi.

Proprio da una “non-scuola”, fatta per tre anni nel quartiere di Scampia, è nata la compagnia Punta Corsara, diretta da Emanuele Valenti: un altro esempio, certo tra i più significativi, di quel che può fare il pensiero e la pratica teatrale portata in contesti geografici e umani troppo spesso bollati con termini spregiativi.

Esiste un modello? C’è un approccio “strutturale” per fare teatro d’arte sociale? Nonostante fioriscano le pubblicazioni dedicate, mi pare difficile rintracciare un criterio principale o dominante: impossibile unificare in un unico “trend” il teatro, figuriamoci le diversità. Ognuno fa storia a sé, porta avanti il proprio discorso e la propria pratica. Anche se, ovviamente, appare quanto mai necessaria una preparazione, una iper-competenza non solo teatrale, in chi vuole avventurarsi nei territori del disagio: capacità di interloquire, comprensione del contesto, risoluzione dei conflitti, conoscenze dei settori di riferimento (che so, dalla psichiatria al regolamento carcerario), eccetera eccetera…

Insomma, c’è un mondo nel mondo del teatro. Un mondo brulicante iniziative, idee, energie, passione, solidarietà, comprensione, scontro e incontro. Ci sono modelli sociali e culturali diversi, messi alla prova grazie al palcoscenico, al discorso che si può instaurare tra alterità.

Nel clima di terrore in cui rimesta la folklorica e vuota campagna elettorale, fatta di grossolane promesse e cupi scenari, queste esperienze sono pause di riflessione, oasi di senso, prospettive culturali che, pur tra mille difficoltà, si mutano in prassi concrete e reali. Starebbe alla politica coglierne appieno il valore e la possibilità, capire quanto e come simili iniziative potrebbero prefigurare un Paese diverso, inedito, più a misura d’uomo. Se solo queste realtà potessero diventare una costellazione, una rete attiva e concreta, un tessuto sempre più intrecciato – anziché, come ancora spesso accade, essere monadi che operano in solitudine – allora, forse, anche gli italiani potrebbero sorprendersi, rendersi conto di essere un pochino migliori di quel che abitualmente sono.


Immagine di copertina da Il ballo – Teatro la Ribalta