Mario Lodi, cento anni di un maestro di comunità

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    Qualcuno tra i non addetti ai lavori ricorderà Mario Lodi come co-autore, insieme ai suoi alunni della scuola elementare di Vho di Piadena, del celeberrimo romanzo collettivo “Cipì”, e in parte questa storia partecipa al composito lavoro di rivoluzione che questo maestro ha attivato partendo dal piccolo paese lombardo.

    Si è scelto di parlarne su cheFare – a cento anni dalla nascita – perché, appunto, di stravolgimento socio-culturale si parla, ovvero di creazione di comunità. Personalmente, se penso a una classe scolastica, non riesco a immaginare e osservare nulla di diverso da una gruppo organizzato, socialmente costituito. Lodi la pensava allo stesso modo perché vedeva nei bambini individui, persone, con menti differenziate, stati emotivi specifici, sostrati sociali caratterizzanti.

    Eppure, come ricorda Juri Meda, storico della scuola, “Mario Lodi non è sempre stato Mario Lodi”.

    Il lettore neofita che si avvicina per la prima volta alle pagine di Lodi, ai suoi diari didattici e alle  osservazioni acute che ne seguono, deve, però, allo stesso tempo, fare uno sforzo di contestualizzazione affinché alle parole dell’autore sia accompagnata la dovuta prospettiva.

    Lodi iniziò ad insegnare nel ’48, proprio l’anno in cui veniva promulgata la Costituzione. Scrive: “(…) venni mandato allo sbaraglio in una scuola autoritaria e verticistica, con nel cuore e nella mente i valori della libertà, della democrazia e della partecipazione che dovevano essere alla base della nuova società da costruire”.

    Egli stesso si ritrovò inizialmente impantanato nel modello corrente di docenti che dispensavano lezioni dogmatiche da sussidiari stereotipati, maestri affezionati a certe valutazioni severe, a giudizi incontrovertibili, severi e temibili. Già in queste narrazioni che Lodi fa di questa sua genesi, il respiro si apre sulle sue osservazioni rispetto ad alunni che vivevano la scuola come un sacrificio; che non osavano esprimere un’opinione, neanche quando gli veniva chiesta, perché tutta la società intorno a loro – e la scuola con essa – non permetteva ai ragazzi di elaborare un pensiero né tantomeno di articolarlo in parola. Questa verticalità nella scuola rispecchiava fedelmente quello che avveniva in famiglia. “L’autoritarismo che i genitori subiscono all’esterno, lo esercitano all’interno, sui loro figli”, scriveva Lodi in “Cominciare dal bambino” (1977).

    Dai primi anni Cinquanta il maestro Lodi cominciò ad avere delle crisi rispetto al suo ruolo e verso la metà del decennio ebbe un susseguirsi di epifanie fondamentali:

    “Un giorno, osservando dalla finestra della mia aula, giù in cortile, i ragazzi che vivevano liberi, felici, feci un confronto con loro stessi qui, nei banchi in cui erano obbedienti, rassegnati, senza idee, mentre laggiù erano vivi e ricchi di fantasia. Da quel giorno io dissi basta al vecchio tipo di scuola, la scuola autoritaria dove io comandavo e loro obbedivano, per incominciare un nuovo tipo di scuola in cui, liberando i ragazzi liberavo anche me, davo un senso alla mia vita, cessavo di farne in un certo senso dei piccoli schiavi… E poi la bellezza di non comandare, specialmente per i bambini ai quali comandano tutti. Ecco, mi pare che tutto sia nato in quel giorno che guardai dalla finestra quei bambini liberi giocare…”

    In questa intuizione c’è tutta la sua ribellione al lavoro meccanico entro certi limiti angusti del sussidiario e del programma, del disagio economico, dell’incomprensione delle famiglie, del trascorrere monotono degli anni.

    Si è scritto molto sull’azione pedagogica di Lodi ed egli stesso generosamente ci ha lasciato in eredità di studio e ricerca i suoi vivissimi diari didattici – di cui i più noti sono “C’è speranza se tutto questo accade al Vho” (1963), “Il paese sbagliato”(1970) e “Insieme” (1974) -, così come molte sono le sue esperienze creative, narrative e politiche, all’interno della scuola.

    Tuttavia, se si vuole azzardare una elezione teorica su tutto il suo operato, possiamo dire che, in un momento storico in cui da molte parti operavano maestre e maestri interessati ad alzare un dibattito culturale e sociale, Lodi si aprì finalmente alla vita del bambino, al suo pensiero, al suo operato. Il maestro ebbe delle intuizioni, capi. Cominciò, cioè, a dare al bambino dignità di essere umano, cercando di liberarlo da vincoli arcaici da cui egli stesso – il ragazzo – faticava a divincolarsi, gli diede parola, accompagnò il bambino in questo processo di liberazione del pensiero: un lavoro artigiano lento, pensato ma non privo di improvvisazioni, costante, imperterrito, paziente.

    Da quel momento, le attività cominciarono a non essere più legate a un artificio (il libro di testo, il programma da seguire, il voto finale), ma erano collegate alla vita, richiedevano ai bambini di eliminare timori e al maestro di costruire coscienze nuove, a partire dalla propria. La classe si vedeva impegnata in una nuova attività: la conversazione, una tecnica difficile perché “nella scuola nozionistica gli alunni hanno la parola solo quando sono interrogati”.

    Da qui, dalle esperienze dei bambini, dalla loro riscoperta capacità di ascoltarsi con attenzione e dedizione, di attendere il turno di parola, di dare importanza all’altro, di sentirsi parte di un gruppo, Mario Lodi e la sua classe approdarono alla raffinata tecnica della scrittura collettiva.

    La classe si vedeva impegnata in una nuova attività: la conversazione

    Questi affinamenti si fecero spazio man mano che il maestro entrava in contatto, nel 1955-’56, con il gruppo del Movimento di Cooperazione Educativa (M.C.E.) http://www.mce-fimem.it/, fondato nel 1951 a Fano (inizialmente col nome di Cooperativa della Tipografia) da un gruppo di insegnanti che si ispiravano alla metodologia del pedagogista francese Célestin Freinet. Il gruppo si incontrava per scambiarsi le singole esperienze, confrontarsi su problematiche concrete, trovare riparo in spazi più ariosi di dibattito e conforto, insomma per studiare.

    Lodi a quel tempo aveva un obiettivo in mente: fare in modo che i bambini stessero bene a scuola, si sentissero protagonisti del loro fare, ma anche – dopo la crisi vissuta che rischiava di allontanarlo del tutto dalla scuola – stare bene egli stesso nella classe.

    La scuola cominciò, allora, per lui, a muoversi intorno al bambino, alle sue esperienze, alle discussioni in classe, ai problemi reali. Si stava creando la comunità. La scienza entrava in classe attraverso le mani di un contadino, i bambini andavano incontro a nuovi quesiti parlando con i coltivatori che a quel tempo avevano appena cominciato a organizzarsi in cooperative, scoprendo che ci sono dei vantaggi a fare gruppo.

    Quando Vittorio De Seta entrò nelle aule di Lodi (https://www.youtube.com/watch?v=QW7udBeP2CI) per documentare l’attività del maestro e dei suoi ragazzi, l’opera del maestro-guida era già pienamente strutturata. Erano lontani i tempi del Lodi inesperto che si adeguava alla norma, seppure con sentimenti sempre più turbati. Il lavorìo dei bambini era intenso e concentratissimo. In quella classe ognuno aveva un compito e lo eseguiva con la serietà e il coinvolgimento dovuti a ciò di cui ci si sente partecipi e creatori.

    In “Cominciare dal bambino” viene riportato il passaggio di un’intervista:

    DOMANDA: Mettendosi nei panni di tanti giovani maestri per cui l’ingresso nella scuola si traduce immediatamente in una radicale crisi, alla lettura del tuo libro sorge immediatamente un problema: è Mario Lodi una personalità eccezionale? (…)

    RISPOSTA: Nego l’ipotesi dell’eccezionalità. (…) È avvenuto invece che lavorando in un certo modo con i ragazzi, introducendo un clima ed un rapporto diversi, nonché le tecniche a queste funzionali, mentre i ragazzi sviluppavano le loro attitudini, anche il maestro, in modo molto maggiore sviluppava le sue ed era costretto necessariamente, non solo ad ampliare la sua cultura ma a farsene una tutta nuova, quella che non gli aveva dato la scuola magistrale. Non c’è allora l’eccezionale personalità ma lo sviluppo delle capacità che ciascuno di noi ha, in un contesto che è liberatore non solo per i bambini ma anche per l’insegnante. (…)”.

    La generazione di docenti che è seguita a Lodi deve molto alla sua pratica nella scuola pubblica perché ha spostato la norma fornendoci di strumenti concreti e permettendoci ancora oggi di portare avanti dibattiti e lotte all’interno della scuola.
    Tra le recenti riforme, quella sulla valutazione che ha eliminato il voto numerico nella scuola primaria e riformulato del tutto lo strumento valutativo rispetto a un processo di formazione in cui il bambino deve sentirsi libero dal giudizio e dalla graduatoria, è stata una delle battaglie a cui l’M.C.E. si è mostrata particolarmente sensibile e attiva negli ultimi anni.

    Mario Lodi è stato maestro, pedagogista, scrittore, pensatore e, vorrei dire, politico italiano.

    Ultimamente, rileggendo il testo delle Indicazioni Nazionali, testo ministeriale moderno e illuminato che sostituisce i vecchi e superati programmi scolastici mi è capitato di pensare alla scuola desiderata e compiuta di Lodi.  Certamente questo documento, che oggi tutti i docenti delle scuole italiane sono chiamati a seguire, si struttura sul pensiero di  pedagogisti e pedagogiste della storia europea, eppure riconosco in un passaggio il pensiero, l’opera politica e didattica del maestro cremonese:

    “È compito peculiare di questo ciclo scolastico porre le basi per l’esercizio della cittadinanza attiva, potenziando e ampliando gli apprendimenti promossi nella scuola dell’infanzia.

    L’educazione alla cittadinanza viene promossa attraverso esperienze significative che consentano di apprendere il concreto prendersi cura di se stessi, degli altri e dell’ambiente e che favoriscano forme di cooperazione e di solidarietà. Questa fase del processo formativo è il terreno favorevole per lo sviluppo di un’adesione consapevole a valori condivisi e di atteggiamenti cooperativi e collaborativi che costituiscono la condizione per praticare la convivenza civile.

    Obiettivi irrinunciabili dell’educazione alla cittadinanza sono la costruzione del senso di legalità e lo sviluppo di un’etica della responsabilità, che si realizzano nel dovere di scegliere e agire in modo consapevole e che implicano l’impegno a elaborare idee e a promuovere azioni finalizzate al miglioramento continuo del proprio contesto di vita, a partire dalla vita quotidiana a scuola e dal personale coinvolgimento in routine consuetudinarie che possono riguardare la pulizia e il buon uso dei luoghi, la cura del giardino o del cortile, la custodia dei sussidi, la documentazione, le prime forme di partecipazione alle decisioni comuni, le piccole riparazioni, l’organizzazione del lavoro comune, ecc.

    (…) Parte integrante dei diritti costituzionali e di cittadinanza è il diritto alla parola (articolo 21) il cui esercizio dovrà essere prioritariamente tutelato ed incoraggiato in ogni contesto scolastico e in ciascun alunno, avendo particolare attenzione a sviluppare le regole di una conversazione corretta. È attraverso la parola e il dialogo tra interlocutori che si rispettano reciprocamente, infatti, che si costruiscono significati condivisi e si opera per sanare le divergenze, per acquisire punti di vista nuovi, per negoziare e dare un senso positivo alle differenze così come per prevenire e regolare i conflitti.

    La lingua italiana costituisce il primo strumento di comunicazione e di accesso ai saperi. La lingua scritta, in particolare, rappresenta un mezzo decisivo per l’esplorazione del mondo, l’organizzazione del pensiero e per la riflessione sull’esperienza e il sapere dell’umanità. È responsabilità di tutti i docenti garantire la padronanza della lingua italiana, valorizzando al contempo gli idiomi nativi e le lingue comunitarie. Così intesa, la scuola diventa luogo privilegiato di apprendimento e di confronto libero e pluralistico.”

    Questo testo, che sembra talvolta lontanissimo dalla società adulta contemporanea, è invece ciò che ci si aspetta da una scuola “moderna”: Lodi usava questo aggettivo mezzo secolo fa denunciando il fatto che nella scuola tradizionale il bambino non produce un pensiero perché la sua esperienza personale “non viene portata sul piano della socialità, viene rifiutata e gli si dà, invece, il contenuto preordinato trasmesso, perché l’obiettivo, non dichiarato  ma reale, è quello di non formare uomini che hanno fantasia, che hanno capacità operativa, che producano, perché sarebbero pericolosi”.

    Mario Lodi è stato maestro, pedagogista, scrittore, pensatore e, vorrei dire, politico italiano.

    Insegna ancora che la parola è lo strumento del pensiero attivo e che va esercitata come strumento di emancipazione sociale, non solo culturale.

     

    Immagine di copertina: fotogramma da Mario Lodi: il metodo di Vittorio De Seta

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