Diceva Borges che le dittature sono una benedizione per le arti, perché costringono gli scrittori a trovare vie indirette per raccontare le cose, e quindi stimolano la creatività, in ultima analisi contribuendo a produrre opere migliori.
Mutatis mutandis, si potrebbe dire che le realtà più disagiate, a livello sociale economico e politico, sono infernali per chi le vive ma rappresentano un terreno di coltura ideale per le iniziative più fantasiose, improbabili e perciò necessarie. E non si tratta tanto della meridionale arte di arrangiarsi, valevole più come scusa per amministrazioni ignave, quanto di una spinta che va oltre la sopravvivenza ed è capace di creare non solo utilità ma anche – ebbene sì – bellezza.
Me ne sono reso conto, da napoletano ormai fuori Napoli da decenni, quando ho iniziato a cercare, a chiedere, a informarmi su progetti di attivazione sociale e culturale che partono dal basso, in maniera informale e in contesti problematici.
Pensavo di trovare stagnazione e disillusione e invece ho trovato una marea di iniziative e idee, strutturate o meno, spontanee o ben appoggiate, borghesi o popolari, in centro o in periferia
Pensavo di trovare stagnazione, disillusione, quella rassegnazione non priva di ironia che ci caratterizza a volte, e che rappresenta una salvezza e una condanna. Depressione che sarebbe pienamente giustificabile, per carità, in una metropoli europea che dall’altro lato è una favela sudamericana, dove le due dimensioni non sono fisicamente separate come nei peggiori casi di segregazione, ma sovrapposte, intersezionate; come le due città del romanzo di China Miéville, che sono nello stesso luogo e profondamente diverse, separate da barriere invisibili e invalicabili.
Mi aspettavo quello, e invece: ho trovato un fermento, una marea di iniziative e idee, strutturate o meno, spontanee o ben appoggiate, borghesi o popolari, in centro o in periferia. Soprattutto in periferia, soprattutto nella periferia più aliena e disintegrata: Scampia.
A Scampia è nato e prevalentemente opera Arrevuoto, esperimento di teatro collettivo per adolescenti. Ed è proprio raccontando la storia di Arrevuoto che si viene a conoscenza di un’altra realtà, storicamente antecedente di qualche anno: Chi rom… e chi no. Associazione che si pone come primo e costitutivo scopo quello di stabilire una relazione con la comunità nomade presente a Scampia. In un quartiere già privo di tutto, un dormitorio di ecomostri, senza infrastrutture, servizi e luoghi di socialità, in mano alla criminalità organizzata, zona di spaccio e teatro di scontri violenti, c’è chi è ancora un gradino più sotto: i rom del campo abusivo. È lì che nel 2002 nasce e inizia a operare un gruppo informale che si pone come scopo quello di far entrare in contatto questi due disagi, queste due marginalità e trasformare la reciproca diffidenza in relazione positiva.
“chi rom e chi no” suona in napoletano un po’ come “chi dorme e chi no”. La differenza è tra chi si è dato una svegliata e chi continua a campare nell’indifferenza
Barbara Pierro, che è entrata nel gruppo giovanissima, negli anni dell’università, e ora è presidente dell’associazione, ricorda e racconta: “All’inizio l’impegno è stato quello della costruzione della Baracca, di un luogo per stabilire una relazione a partire dall’interno del campo. Questa esperienza è durata 10 anni, anni terribili, quelli della faida, della guerra di camorra”.
C’era un’associazione storica, operativa addirittura dagli anni ’80, di cui l’attuale raccoglie in qualche modo il testimone: si chiamava Gridas. Il ponte che l’iniziativa vuole creare, tra italiani e abitanti del campo, si rispecchia nel nome, ma il nome ha anche un doppio senso che gioca col dialetto: “chi rom e chi no” suona in napoletano un po’ come “chi dorme e chi no”; in questo caso allora la vera e fondamentale differenza è tra chi si è dato una svegliata e si è attivato, e chi continua a campare nell’indifferenza.
“Operare a partire dal campo e nel campo rom”, dice Pierro, “è stato fondamentale anche da un punto di vista ideale, per affermare l’assurdità del termine ‘abusivo’. La provvisorietà, il disagio del campo, è obbligatorio, non è una scelta: non ci sono campi nei paesi da cui i rom vengono. La baracca in questo caso è l’unica possibilità. E questo è quello che abbiamo voluto dire”.
La baracca, chiamata anche Scola Jungla (tutti o quasi i nomi dell’associazione “suonano” sia nell’idioma partenopeo sia in quello dei rom), aveva uno status giuridico volutamente ambiguo proprio per far esplodere questa contraddizione, per mettere in crisi il concetto di legalità come unica risposta. “Era un posto pubblico, ma abusivo, in quanto costruzione sorta dentro un campo abusivo. Nonostante questo, agli incontri pubblici erano invitati, e venivano, rappresentanti delle istituzioni, magistrati, esperti del Tribunale dei minori”.
Da cinque anni però la baracca non c’è più, ma le attività di Chi rom… e chi no invece di contrarsi si sono ampliate e differenziate, in varie direzioni. Oggi l’associazione si occupa di: laboratori e pedagogia, gestione dell’Econido (un progetto di asilo condiviso), attività di advocacy per le politiche di inclusione e sportello legale, progetti in rete con altre realtà di Napoli e di tutta Italia.
Alcune di queste aree appartengono più all’ambito dell’attivismo politico e quindi sono fatte per spinta ideale; con altre si cerca anche di mantenersi, visto che Barbara Pierro con Emma Ferulano e Biagio Di Bernardo ci dedicano tutta la loro esistenza: perciò progetti pedagogici da portare in giro per scuole e dovunque ci sia richiesta, partecipazione a bandi nazionali ed europei… “Anche se è difficile e ce la facciamo sempre a stento”.
Il discorso su tradizioni e identità qui è decisivo: bisogna sapere infatti che Scampia è un quartiere recente, una periferia ancora in costruzione quando ha iniziato ad essere popolata
Come progetto in rete con altre realtà è nato Arrevuoto, che unisce pedagogia e inclusione sociale attraverso il teatro. “Ma a un certo punto abbiamo capito che per arrivare ai piccoli dovevamo passare per gli adulti. Soprattutto per le donne, che sono il motore di entrambi i gruppi, quello napoletano e quello rom. È venuto così naturale rivolgerci alla cucina, perché attraverso il cibo si recuperano e si mantengono le tradizioni, l’identità”.
Il discorso su tradizioni e identità, lungi dall’essere conservatore e retrogrado, qui è decisivo data la realtà storica di Scampia: bisogna sapere infatti che parliamo di un quartiere recente, di una periferia ancora in costruzione quando ha iniziato ad essere popolata (con tutti i problemi e i disagi del caso).
I napoletani arrivavano da zone e edifici distrutti o resi inagibili dal terremoto dell’80, i rom dai Balcani che in quegli anni iniziavano a manifestare i primi segni di turbolenza, le avvisaglie di quella che sarà una delle più feroci guerre di epoca moderna.
“Lo spaesamento era comune, entrambe le comunità si trovavano ad abitare luoghi nuovi, si sentivano sradicate. Così è nata Kumpania, altra parola bilingue: è una vera e propria impresa sociale, basata sul recupero e sulla commistione delle tradizioni culinarie”. Donne sia napoletane sia rom – attualmente 7 assunte a tempo indeterminato, più aggiunte stagionali a seconda delle esigenze e dei periodi – che offrono catering, eventi e altri servizi: la Kumpania ha avuto subito ottimi riscontri e ha vinto premi internazionali.
Ovviamente c’è anche un locale, gestito secondi questi principi: il Chikù, nel bel mezzo di Scampia, propone fritture napoletane, sarme e ghibaniza balcaniche, pizza e moussaka. Purtroppo proprio a partire dal ristorante, Pierro individua alcune criticità che poi si estendono a tutta la situazione. “Da un punto di vista economico Chikù riesce a malapena a mantenersi: in sé e per sé non va male, ma paga il fatto di essere praticamente l’unico posto di aggregazione in un quartiere di 60mila abitanti. Se ci fossero anche altre cose aperte, come il teatro per esempio, la gente uscirebbe e verrebbe anche a mangiare”.
Ma il punto è più generale: dopo la faida, dopo il periodo delle stragi, durato anni, la risposta delle istituzioni c’è stata, ma ha parlato solo una lingua: “Quella della repressione. La guerra di camorra è finita, ma l’intervento statale non ha creato il successivo sviluppo. Tante opere sono rimaste incompiute, non c’è stato il decollo necessario, non si è data un’alternativa. Stiamo parlando di un luogo in cui lo spaccio spesso è una scelta di sopravvivenza, la droga è un mezzo sussistenza economico come un altro, e se non ce ne sono altri…”.
Comunque si agisce in una realtà difficile: le stesse attività di Chi rom e chi no, pur essendo riconosciute come positive dalla maggior parte della comunità, possono incontrare opposizioni e ostacoli di vario tipo. Proprio a fine novembre, i locali di Chikù hanno subito un furto, il secondo nel giro di un anno: porta divelta, locali a soqquadro, attrezzature rubate.
Il potenziale, il fermento che dicevo all’inizio, c’è: Barbara Pierro lo sottolinea. “Ma è un patrimonio che rischia di andare in dispersione. Per colpa di uno Stato assente, che non sostiene il tessuto sociale”.