Quali saranno le conseguenze di lungo termine del conflitto tra Russia e Ucraina? Come si ridefiniranno gli equilibri politici interni alla Comunità Europea, nel quadro di mutati equilibri geopolitici globali? L’esplosione del conflitto ha rapidamente polarizzato il dibattito in tutti i paesi europei, consolidando opposte visioni degli eventi in corso. cheFare e il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere dell’Università di Bergamo hanno deciso di sviluppare, nel quadro di un progetto di Terza Missione, un percorso editoriale che intende interrogare il nostro tempo, analizzando le sfide sociali e culturali che la guerra pone al continente europeo e al suo futuro. Autrici e autori con diversa formazione ed estrazione culturale ragioneranno di istituzioni comunitarie, di equilibri migratori, di geopolitica, di politiche energetiche, di crisi ambientale, di economia, di culture europee.
Le immagini della guerra in Ucraina che occupano i social e i siti dei giornali dallo scorso febbraio hanno riportato lo spettro della devastazione nel cortile europeo. Per qualcuno, però, i video e le fotografie che documentano i cadaveri per le strade e le case rase al suolo non suscitano solo un senso generale di paura e di impotenza. Quei frame, per qualcuno, rappresentano l’automatica via di accesso al riemergere di intime memorie, di vicende subite esattamente trent’anni fa. Era la primavera del 1992 quando, durante una manifestazione pacifista organizzata a Sarajevo a pochi giorni dalla proclamazione di indipendenza della repubblica bosniaca dalla Jugoslavia, due giovani donne, la musulmana Suada Dilberovic e la croata Olga Sucic, persero la vita sotto i colpi degli snjper serbi contrari alla secessione.
Era la primavera del 1992 quando, durante una manifestazione pacifista organizzata a Sarajevo a pochi giorni dalla proclamazione di indipendenza della repubblica bosniaca dalla Jugoslavia, due giovani donne persero la vita sotto i colpi degli snjper serbi contrari alla secessione.
I nomi di Suada e Olga non sarebbero più stati suoni qualunque. Da quel momento avrebbero per sempre fatto echeggiare il ricordo di una barbarie in procinto di avanzare. Ma anche simboleggiato il monito di resistere per farle da contrasto.
Quello che sta succedendo in Ucraina ha rimodellato l’esperienza delle celebrazioni legate al trentennale della guerra in Bosnia. Il cui focus non è più stato solamente sul passato, ma si è concentrato anche sul presente che sta prendendo forma a non troppi chilometri di distanza. Accanto alle corone di fiori posate per commemorare le vittime come Suada e Olga, hanno fatto capolino anche bandiere blu e gialle riportanti la scritta “Sarajevo understands”.
E molte cose la capitale bosniaca le capisce davvero. Ma trent’anni sono un battito di ciglia se ciò che occorre fare in quella finestra temporale è elaborare i traumi ereditati da un conflitto e rispondere ai punti interrogativi a esso connessi. La ricomparsa dei carri armati sul suolo europeo ha stimolato le analogie tra le due vicende storiche, ma ha anche messo sotto i riflettori ciò che di diverso esiste nella gestione da parte delle potenze straniere dei due conflitti.
Ed è la questione delle armi a rappresentare la differenza più significativa. Mentre ad oggi i governi occidentali hanno approvato in bilancio pacchetti di aiuti militari a sostegno dell’Ucraina per decine di miliardi di dollari, all’epoca non fu versato un centesimo per permettere alle vittime di difendersi contro i nemici. Con la risoluzione 713 delle Nazioni Unite, approvata dal Consiglio il 25 settembre del 1991, fu infatti imposto l’embargo sulle forniture belliche in tutto il territorio della Jugoslavia.
L’obiettivo era circoscrivere quanto più possibile il conflitto, esortare all’avvio di negoziati. Si auspicava, insomma, che negare kalashnikov e mitragliatrici a chi si ritrovò da un giorno all’altro con gli aggressori fuori dalla porta di casa potesse portare a una rapida conclusione delle ostilità. Invece l’assedio di Sarajevo terminò solo cinque anni dopo, nel febbraio del 1996, e così gli scontri in molte altre città della Bosnia, centri abitati meno celebri ma dove ancora oggi molte famiglie chiedono di poter riavere le ossa dei cari gettati dai paramilitari serbi in fosse comuni.
La scelta di vietare la distribuzione di armi agli assediati sembrava non tener conto (volontariamente o meno) di un fatto incontrovertibile: coloro che attaccavano nell’intento di impedire la secessione erano – anche – militari dello Jugoslavenska narodna armija (JNA), l’esercito ufficiale della Jugoslavia, prevalentemente composto da soldati provenienti da Serbia e Montenegro (ossia le uniche due repubbliche rimaste a costituire la Federazione jugoslava). All’epoca, lo JNA era molto potente, con un arsenale che, grazie alla posizione “non allineata” della Jugoslavia di Tito, aveva potuto contare negli anni su ricchi rifornimenti che giungevano tanto da Est quanto da Ovest. Nel momento in cui il Consiglio delle Nazioni Unite adottò all’unanimità la risoluzione con cui veniva ufficialmente impedita la distribuzione di armi alla Bosnia, gli aggressori godevano già di uno straordinario vantaggio in termini di armamentario.
Contro un esercito che finì per invadere gli stessi territori che avrebbe dovuto proteggere, i bosniaci non potevano più nemmeno contare sulla Difesa territoriale, ossia quell’insieme di reparti di guerriglia la cui formazione era prevista in tutte e sei le repubbliche jugoslave. Il perché lo spiega bene Davide Mendeni nella sua tesi di laurea dal titolo «Strategie e forze armate in Bosnia Erzegovina».
“[Prima della crisi] la Bosnia Erzegovina era il luogo, dove in caso di invasione, si sarebbe ritirato l’esercito e per questo vi erano stanziate il maggior numero di fabbriche belliche e l’arsenale meglio rifornito. Tutti i cittadini ricevevano nozioni belliche relative alla difesa territoriale e i ruoli di comando erano affidati a civili scelti che seguivano una serie di corsi d’aggiornamento, in modo tale da farsi trovare pronti in caso di invasione. Riconoscendo l’importanza che avrebbero potuto giocare questi arsenali, a partire da maggio del 1990, la presidenza jugoslava decise di spostare le armi nelle caserme dell’esercito federale disarmando le repubbliche di Slovenia, Croazia e soprattutto di Bosnia Erzegovina che erano proprietarie delle armi”.
In fretta e furia nacquero formazioni militari improvvisate e furono costruite armi artigianali, ma col passare dei mesi e degli anni il persistere dell’embargo imposto dal mondo occidentale costrinse la Bosnia a cercare aiuto nei Paesi del Medio Oriente (principalmente Iran e Arabia Saudita), coi quali avviò un commercio d’armi di contrabbando in virtù della comune fede islamica.
Alle accuse di indifferenza e di connivenza con gli aggressori mosse ai governi occidentali, l’Onu rispose con la costituzione dell’Unprofor, la forza di protezione dei territori dell’ex Jugoslavia che prevedeva l’invio dei Peacekeepers, i soldati internazionali incaricati, come suggerisce il nome, di mantenere la pace. Tuttavia, in tempo di guerra è difficile che si possa “mantenere la pace”, perché non si può proteggere qualcosa che non c’è, come hanno fatto notare con amara ironia alcuni bosniaci. I Caschi Blu, del resto, non ebbero alcuna influenza nel determinare le sorti del conflitto, privati com’erano di un vero e proprio potere di azione (i soldati Unprofor del contingente olandese non si schiodarono dal loro ruolo di “semplici osservatori” nemmeno di fronte all’uccisione da parte di paramilitari serbi di 8mila musulmani nell’enclave di Srebrenica, avvenuta nel luglio del 1995. Al contrario, alcuni di loro furono presi in ostaggio dagli stessi aggressori).
Oggi il modus operandi delle potenze del blocco atlantico appare praticamente invertito. Non si parla ancora di peacekeeper, mentre la pianificazione per la consegna di arsenale bellico al governo di Kiev è all’ordine del giorno. Il motivo di questa scelta è in realtà giustificata con ragioni speculari a quelle di trent’anni fa e il riassunto, per quanto paradossale, suona più o meno così: in Bosnia le armi non furono inviate per mettere più velocemente fine al conflitto. In Ucraina, invece, le armi vengono inviate per mettere più velocemente fine al conflitto. Come hanno più volte ribadito gli Stati Uniti, oggi c’è “l’urgenza di agire in fretta”, anche per scoraggiare ulteriori sogni espansionistici della Russia che, del resto, non fa mistero delle sue mire in Moldavia e Georgia. Come mai di fronte a questo timore, nel 1992, l’Occidente votò l’embargo?
Anche se tra gli analisti non c’è accordo nel definire quella in Ucraina una guerra per procura, la ragione principale del diverso approccio sul fronte “armi” è legata al fatto che – banale dirlo -, è diverso il peso geopolitico degli attori coinvolti. Mentre l’attuale sopravvivenza dell’Ucraina coincide con l’interesse a difendere i valori (molti dei quali economici) del blocco atlantico, in Bosnia Erzegovina la partita non appariva così cruciale. Oltre a non essere il “granaio d’Europa” (come invece è stata soprannominata l’Ucraina), il piccolo paese balcanico, con la sua popolazione a maggioranza musulmana (43%, contro il 17% di croati e il 31% di serbi), non era nemmeno in grado di suscitare quella naturale empatia che è invece più facilmente accordata ai paesi di comune fede cristiana. Il fatto che si trattasse di uno Stato con una forte cultura islamica ha contribuito a percepire quel conflitto come una faccenda “distante”, un problema “loro”. Alcune espressioni pericolosamente stereotipate come “odi tribali” e “guerra medievale” che furono usate dai media per raccontare le vicende di quegli anni, contribuirono a fomentare la percezione che i problemi dell’ex Jugoslavia fossero qualcosa di inevitabile e su cui ci fosse scarso margine di manovra. A tutto questo va spesa qualche parola sull’inziale posizione ambigua assunta da diversi paesi europei che (ad eccezione di Austria e Germania), si dimostrarono sostanzialmente contrari a una dissoluzione della Jugoslavia, temendo (oltre alla fine del sogno socialista), uno stravolgimento degli equilibri determinato dalla nascita da un giorno all’altro di nuovi paesi.
La crisi nei Balcani fu anche il primo test per un’Europa che in quegli anni stava faticosamente transitando dall’identità di Comunità legata da meri interessi economici a quella di un’Unione che puntava a fare della condivisione dei valori di democrazia e libertà il suo tratto distintivo. La Bosnia fu il primo banco di prova post-guerra fredda per un’Europa che doveva dimostrare di poter badare alle risse esplose nel suo cortile senza l’aiuto dell’alleato statunitense.
Quel test fallì. Al conflitto si mise fine con gli accordi di Dayton, siglati nel novembre del 1995 sotto la supervisione del presidente Bill Clinton, che “risolvendo” la crisi bosniaca si assicurò un merito da far brillare nella campagna elettorale ormai prossima. Peccato solo che non fu risolto alcunché: i trattati ufficializzarono una suddivisione di terre che era il risultato di quattro anni di pulizia etnica portata avanti in maniera indisturbata.
Il paese ne uscì separato in due entità, la Repubblica Srpska e la Federazione croato-musulmana. Ma le ferite di quegli anni non sono ancora state rimarginate. Al contrario, la loro mancata elaborazione ha creato il terreno ideale per la proliferazione di politiche nazionaliste, alimentate dai tre popoli costitutivi. Attualmente, il più accanito di tutti è il leader dei serbi-bosniaci separatisti Milorad Dodik, che ha fatto della promessa di ricongiungimento alla Serbia il pilastro del suo fare politica.
Trent’anni dopo, dunque, i paesi europei stanno ancora facendo i conti con l’instabilità di una terra che è geograficamente prossima all’Unione, ma lontanissima per quanto riguarda i parametri necessari a entrare nel gruppo dei 27. Sono passati sei anni da quando la Bosnia ha ottenuto lo status di “potenziale candidato”, e da allora non si ha conoscenza di sostanziali passi in avanti.
A velocizzare il processo, in realtà, potrebbe essere l’attuale scenario ucraino. La storica alleanza tra i serbi e i russi ha infatti messo in allarme Bruxelles, secondo cui le velleità secessioniste di Dodik potrebbero indurre l’alleato russo a mettere le mani nel già delicato contesto balcanico. Chissà che questa paura, almeno stavolta, non spinga l’Unione europea ad agire un po’ più in fretta.