Ho scoperto di essere femminista poco dopo aver scoperto di essere una bambina

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    Pubblichiamo un estratto dalla conversazione tra Claudia Durastanti e Giusi Marchetta dalla nuova edizione di Tutte le ragazze avanti! A cura di Giusi Marchetta (Add editore). Ringraziamo l’editore per la disponibilità. 

    Mi piacerebbe partire dal momento in cui hai pensato di essere femminista o dover essere femminista. È stata una scoperta? La necessità del momento? C’è stato un episodio che ricordi e da cui ti va di partire per raccontare questo modo di essere o questa scelta?

    Ho scoperto di essere femminista poco dopo aver scoperto di essere una bambina. Mia madre non voleva che nascessi femmina, e invece di raccontarmi le favole della buonanotte, mi spiegava tutti i modi in cui qualcuno avrebbe potuto farmi del male. Persino quando mi leggeva una favola della Disney o una dei fratelli Grimm, mi parlava solo di abusi e di lotta. «Ecco, vedi come se ne approfittano», diceva di Cenerentola. O La Bella Addormentata, che avevano messo a tacere per anni ed era costretta ad aspettare qualcuno che la salvasse.

    Ho avuto un’iniziazione brutale alla femminilità; a sei anni mi faceva già vedere i film in cui Jodie Foster veniva stuprata ed era costretta ad affrontare lunghe giornate in tribunale. È stato un addestramento graduale, ma molto preciso – essere femmina significava essere esposta a una violenza costante, e il femminismo era la consapevolezza di questa violenza – finché a un certo punto ho iniziato a fare di testa mia e ho iniziato a leggere libri che mi spiegassero quel che mi diceva mia madre, ma meglio, e in maniera più sfumata.

    Il primo libro a cui devo qualcosa è una raccolta di poesie intitolata Settimo Cielo di Patti Smith. Da qualche parte dice «maschio, il sesso che avrei scelto se avessi potuto». Era una cosa che capivo, mia madre non si vestiva mai da don- na e puntava sul camuffarsi come forma di difesa e mi incoraggiava a nascondermi.

    Allo stesso tempo, in quelle poesie, Patti Smith celebrava Marianne Faithfull, Amelia Earhart, donne che erano estremamente consapevoli della propria sessualità e forza e non nascondevano un bel niente. C’era una frizione, un contrasto tra queste cose – il fastidio per il proprio genere, la voglia di far parte del «the boys’ club» e la celebrazione di altre donne – che mi è stato familiare per molto tempo.

    Ma forse il testo che ha cambiato tutto è stato Donne di Marilyn French, praticamente una Bibbia. Tra i dodici e i quindici anni l’avrò letto dieci volte. È la storia di Mira e delle donne che incontra nella sua vita, che dai matrimoni fatti negli anni Cinquanta per scappare di casa arrivano al movimento di liberazione delle donne negli anni Settanta, e nel mezzo gliene capitano di ogni tipo: maternità, violenza domestica, abusi, ma allo stesso tempo cresce la rivendicazione di un ruolo intellettuale e Mira arriva a insegnare all’università.

    Nonostante tutte le sofferenze di cui è costellato il libro, mi ha fatto capire che esiste una via di uscita.

    Ci ho messo molti anni a sviluppare un’idea gioiosa di femminismo, e a capire che potevo essere qualcosa di diverso da una ragazza in trappola. Se è successo, è stato soprattutto attraverso le storie di donne diverse da me, ed è una scoperta che dura ancora adesso.

    Ci sono diverse correnti di pensiero oggi che si definiscono femministe, alcune anche in contrapposizione tra loro. Che cosa significa per te essere femminista?

    Significa pensare di avere una via di uscita da uno stato di oppressione. Significa esercitare una critica quotidiana allo stato di cose, in cui il mio essere femmina non può prescindere dal fatto di essere anche una lavoratrice, una persona che può godere di determinati privilegi in alcuni contesti e di svantaggi in altri.

    Significa essere costantemente attenta a come stanno gli altri, e non perché ho una predisposizione al materno o alla cura in quanto donna; è una scelta precisa che faccio da essere umano. Cerco di tenere tutte queste cose insieme: sono una donna e mi interessano i diritti delle donne, ma anche quelli di chi si oppone alle classificazioni di genere se queste classificazioni esercitano pressione e violenza sulla loro vita quotidiana. Così se le femministe nere dicono di avere problemi diversi da quelli delle femministe bianche, non riesco a dire che dobbiamo far fronte comune perché si tratta della stessa lotta. Possiamo lottare insieme, ma in maniera diversa.

    Mi interessano i diritti delle donne working class anche quando non sviluppano una rivendicazione precisa, e fatico a chiedere loro di fare di più o di votare come penso che debbano votare: nella mia idea di femminismo è contemplata anche l’idea che una donna possa «tradire» il suo genere se questa scelta risponde a criteri altrettanto importanti per lei, come la tutela del reddito.

    Alla lunga credo che il femminismo sia la soluzione migliore per certi problemi, dall’equal pay alla maternità sostenibile e ai diritti LGBTQ+, e ho abbastanza fiducia da credere che si imporrà come scelta naturale per tante persone.

    Ognuna di noi arriva al femminismo con la sua storia particolare, con i suoi desideri, con la sua rabbia e il suo senso di giustizia. Tenere insieme questi vissuti con un progetto politico può essere complicato, lo è, ma non più di quanto lo sia tenere insieme un progetto politico di sinistra. E questa differenza interna al movimento, che viene catalogata come «femministe che si fanno la guerra tra loro», «donne incapaci di far fronte comune» mi avvilisce. Perché da un intellettuale o politico maschio ci aspettiamo che sia in conflitto con i suoi colleghi, e che questo conflitto e questa divergenza di opinioni possa essere esercitata con correttezza. Anzi, la «differenza» tra intellettuali maschi passa anche come merito, come segno di ambizione.

    Quel che vorrei è che questo fosse chiaro a tante amiche e colleghe femministe: penso che siamo abbastanza forti da sostenere divergenze di opinione, storicamente lo siamo sempre state. Un movimento contraddittorio e per me problematico come #metoo non ha spaccato un bel nulla, anzi. Mi è sempre parso bello che nel movimento femminista si parlasse di waves, di ondate: l’acqua scorre, non si spacca. È una sostanza fluida, inarrestabile, che porta le sostanze più diverse dentro di sé.

    Mi pare che accada con pochi altri movimenti politici. Altrove si parla di muri, qui di onde.

    Nella tua biografia c’è New York e c’è la Basilicata. Adesso vivi a Londra. È una commistione di esperienze molto interessante che credo abbiano influenzato il tuo pensiero ma soprattutto abbiano contribuito in modo diverso ad ampliare il tuo sguardo. Dal punto di vista della situazione delle donne quali differenze hai vissuto personalmente o notato in modo evidente? Vorrei capire se c’è una Claudia italiana e una londinese e cioè in che modo ritieni che la città o il contesto influenzino direttamente la vita delle giovani donne e il modo in cui li abitano.

    Da quando sono nata, non ho fatto altro che cambiare contesti e adattarmi a regole diverse tra uomo e donna. In America ero circondata da immigrate lucane felici di vivere in una società ancora patriarcale, penso alle mie zie e a mia nonna, ma le mie cugine e amiche erano completamente liberate, e hanno affrontato il sesso con una disinvoltura che a me è mancata. Questo perché mentre loro imparavano a essere felici del proprio corpo e a esercitare il suo potere al fine di ottenere piacere, io trascorrevo la pubertà e poi l’adolescenza in un paesino della Basilicata in cui dare un bacio con la lingua alle medie scatenava un’isteria collettiva per cui ti eri già fatta una cattiva reputazione e le maestre potevano prenderti da parte per spiegarti che con l’arrivo del ciclo mestruale dovevi chiuderti in casa, altro che dare baci con la lingua.

    Ma in Basilicata si decideva chi era «facile» e chi non lo era in base anche alla famiglia di provenienza, quindi il problema non era essere tanto una ragazza quanto essere una ragazza povera, e sono stata educata alla misoginia quanto al classismo. Mi sembrava che le mie amiche provenienti da famiglie borghesi e a prova di macchia potessero esercitare il loro essere ragazze in maniera molto più euforica e libera, facevano sesso sui sedili posteriori senza avere timore che questo rovinasse la loro vita, e quando andavo a trovare la mia famiglia in America apparivo come una specie di aliena: nevrotica, erede del femminismo difensivo di mia madre, terrorizzata dal sesso.

    Ho avuto un’emancipazione tardiva da questo punto di vista, e penso a tutto il tempo che ho sprecato ad assecondare il senso comune su quello che dovesse fare una «brava ragazza»: dentro di me potevo parlare di rivoluzione tutto il giorno, avere un senso preciso del tipo di donna liberata che volevo essere da grande, ma per gran parte dell’adolescenza ho vissuto davvero come se fossi un’immigrata degli anni Cinquanta, quantomeno dal punto di vista del corpo.

    Mi ero scelta il ruolo dell’intellettuale androgina, pur avendo un fisico che non me lo permetteva, e credevo davvero che avrei avuto tanto più potere quanto più avessi ignorato il fatto di avere un seno. I professori, i familiari, tutti non facevano altro che confermarlo.

    Persino gli scrittori, dopo che ho pubblicato il mio primo libro, sembravano stimarmi di più in base alla mortificazione del mio aspetto. Ricordo commenti di amici sul mio rossetto rosso durante le presentazioni, il modo con cui guardavano sospettosi il trucco. Ecco, se penso all’Italia, penso a tutte queste cose. A volte non gliene faccio una colpa: sono cresciuti così, educati a credere che esistesse un modello di scrittrice femminista, e per tanto tempo l’ho pensato anche io. Noto solo pigrizia nel rovesciare questi stereotipi.

    Quando sono arrivata a Londra, dopo tutto quel tempo a capire come si potesse avere un rapporto gioioso e normale con l’altro sesso, a cercare di capire come essere presa sul serio sul lavoro senza vergognarmi di chi ero, ho scoperto che il genere non era così importante, e che ero ancora indietro sui tempi. Le mie preoccupazioni erano state superate dalla società, o quantomeno lo sforzo era quello, e mentre io pensavo a come usare una prima persona femmina in letteratura senza essere tacciata di narcisismo domestico, a Londra e a New York il dibattito era eliminare del tutto i pronomi maschili e femminili dalla scrittura.

    Anni a cercare di capire bene Il secondo sesso, solo per scoprire che dovevo iniziare a ragionare in termini di «Non sesso», o a contemplare un tipo di evoluzione possibile. È stato liberatorio da tanti punti di vista, ma questo fa sì che quando torni in Italia io ricaschi negli stessi schemi: quando apro il «Guardian» o leggo «The Quietus» non vado quasi mai a leggere il nome dell’autore del pezzo.

    Mi aspetto che a parlare di antropocene o della discografia dei Fall siano un uomo quanto una donna. In Italia invece non appena apro «La Repubblica» o il link di una rivista culturale online, cercare quel nome è la prima cosa che faccio. E in genere trovo conferma ai miei sospetti: ci sono ancora argomenti da donne e argomenti da maschio.

     

    Immagine di copertina di Carolina Altavilla (particolare dall’illustrazione di copertina del libro, Tutte le ragazze avanti!)

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