La mediocrazia universitaria

Il giornalista statunitense Chris Hedges lo dice senza giri di parole: i docenti universitari sono i responsabili dei nostri mali storici. Di regola se ne stanno fuori dal mondo, specialisti in campi minuscoli ed estremamente marginali, incapaci di coscienza critica, fagocitati da tattiche per l’avanzamento di carriera e chiusi dentro un’appartenenza collegiale che ha le caratteristiche di una «tribù»; nondimeno, la loro presenza si scopre non appena si sondano le ragioni dei nostri pericoli collettivi.

La crisi ecologica in continuo aggravamento, le disuguaglianze dei redditi che portano a esclusioni su scala nazionale e mondiale, la dipendenza dai combustibili fossili, il consumo eccessivo e l’obsolescenza programmata, la trasformazione della cultura nell’industria del divertimento, la colonizzazione della mente da parte della pubblicità, la predominanza del sistema finanziario internazionale sull’economia così come la sua instabilità, per fare alcuni esempi, sono tutti aspetti sociali che, insieme a diversi altri, incarnano problemi che trovano origine nella formazione e nelle ricerche sviluppate dagli istituti universitari.

I laboratori, le facoltà e i dipartimenti universitari costituiscono infatti “l’élite” in causa. Non è forse in virtù del sapere acquisito e sviluppato all’università, del quale danno conto vistosi diplomi, che chi prende le decisioni al livello più alto plasma e affina secondo modelli precisi il mondo nel quale viviamo? È il caso di preoccuparsi, insiste Hedges nell’Impero dell’illusione, perché «le università elitarie, quelle più prestigiose, hanno rinunciato a qualsiasi autocritica.

Si rifiutano di rimettere in discussione un sistema che ha, come unica ragione di essere, soltanto la propria conservazione. In tali istituzioni contano solo l’organizzazione, la tecnologia, la promozione personale e i sistemi informativi». L’università è diventata né più né meno che una componente del dispositivo industriale, finanziario e ideologico contemporaneo. È in tal senso che si fa forte dell’appoggio della cosiddetta «economia del sapere», alla quale si vanta di partecipare. L’imprenditoria vede dunque l’università trasmetterle il sapere più avanzato e il personale che essa richiede, e tutto ciò grazie al denaro pubblico.

Per cinquecento milioni di dollari, l’Energy Biosciences Institute dell’Università di Berkeley fornisce alla British Petroleum (BP) impianti e lavoro di ricerca. «La British Petroleum potrà dunque chiudere uno dei suoi centri privati e approfittare di laboratori finanziati dal settore pubblico» è la conclusione di Hedges.

Negli Stati Uniti come in Canada – e forse presto la si considererà un’idea eccellente anche in Europa – un’università assumerà il nome Rockefeller, una bandiera sfoggerà il nome dei Desmarais (Paul Desmarais (1927-2013), capostipite della famiglia cui fa riferimento l’autore, è stato un potente uomo d’affari canadese), una cattedra si presenterà sotto la sigla di GoldCorp (Industria estrattiva con sede a Vancouver, in Canada), un’aula scolastica perderà il suo numero identificativo a beneficio dell’appellativo PriceWaterhouseCoopers, una borsa di studio si farà facilmente riconoscere per l’indelebile nome del suo sponsor, Bosch.

Nei confronti dei clienti che acquistano i cervelli da lei prodotti in serie, l’università ha sviluppato un così radicato rapporto di subordinazione che nemmeno Max Weber sarebbe stato capace d’immaginarlo. Eppure anche lui, un centinaio d’anni fa, denunciava già la «mediocrità» nella quale sprofondava l’università subordinando la propria organizzazione alle lusinghe di natura commerciale che già allora imperversavano.

All’epoca era il contenuto delle lezioni a essere proposto come merce a beneficio dei clienti, che erano poi gli studenti. Insegnanti e professori si compromettevano per attrarre alle loro lezioni gli studenti, tirati da una parte e dall’altra dalla concorrenza tra gli istituti. Ciò ha talmente contaminato i rapporti con la ricerca che, agli occhi di Weber, le scelte istituzionali avevano iniziato a dipendere apertamente dal «caso».

Il ricercatore, di regola mosso da passioni incalzanti, dotato d’immaginazione e intuizioni forti, e provvisto di un alto senso del lavoro, poteva sperare di riuscire professionalmente solo se in aggiunta mostrava di possedere tutt’altro genere di doti, vale a dire quelle che consentono di muoversi con agio nell’arcano mondo istituzionale. Rendendo inevitabili queste «condizioni superficiali del mestiere di scienziato», come le descrive Weber nel 1919 nella Scienza come professione, l’istituzione incoraggiava la mediocrità. «Sarebbe ingiusto imputare a una qualità scadente del personale delle facoltà o dei ministeri il fatto innegabile che tante personalità mediocri hanno ottenuto un ruolo eminente nelle università. Tale fatto dipende piuttosto dalle leggi intrinseche dell’interazione umana, e a maggior ragione dalle leggi intrinseche dell’interazione tra di- versi organismi».

E non si era ancora visto niente. Oggi gli studenti non sono più quei consumatori dell’insegnamento e dei diplomi offerti nei campus, sono diventati loro stessi dei prodotti. L’università vende ciò in cui li trasforma alle imprese private e ad altri istituti che la finanziano, che sono dunque i suoi nuovi clienti.

Nell’autunno del 2011, il rettore dell’Università di Montréal lo ha affermato come un fatto evidente: «I cervelli devono corrispondere ai bisogni delle imprese». L’istituto era gestito allora direttamente da consigli decisionali e da comitati d’influenza, ovvero da amministratori provenienti da ambienti bancari (Banque Nationale), farmaceutici (Jean Coutu), industriali (SCN-Lavalin), estrattivi (GazMétro) o mediatici (Power Corporation e Transcontinental).

Nondimeno, l’Università di Montréal resta largamente finanziata dallo Stato. Il piano affaristico di questo tempio del sapere era diventato improvvisamente molto simile alle mire di una televisione pubblica di stampo bassamente commerciale. Qualcuno ha paragonato la dichiarazione del suo rettore a quella di Patrick Le Lay, presidente e direttore generale della rete TF1, il quale nel 2004 affermava che il suo canale vendeva alla Coca-Cola «un po’ di tempo di cervello umano disponibile».

Libero Zuppiroli l’ha osservato in Svizzera. Quando è diventato lo Swiss Institute of Technology, il Politecnico di Losanna ha visto improvvisamente fiorire discipline incongrue in nome dell’innovazione, dell’eccellenza e della produttività. Com’è ovvio erano interamente rivolte agli interessi del commercio, come le teorie della neurofinanza introdotte di recente nell’insegnamento, un nuovo settore della ricerca che ha «l’ambizione di comprendere meglio i meccanismi del ragionamento che preludono alle operazioni commerciali». Ne offre testimonianza il suo libro del 2010, La bulle universitaire.

Le istituzioni che valutano le università prendono dunque in considerazione elementi quantitativi (numero di pubblicazioni dei professori, numero di laureati, percentuale di collocamento ecc.), distintivi (riviste scientifiche scelte, argomenti in voga, appartenenza a determinate reti, pubblicazioni in inglese ecc.) e pubblicitari (accomandita, partenariato, pre- senza nei media ecc.).

Questa «governance» dell’università non fa che girare a vuoto, e corrompe completamente l’istituzione. Come illustrava nel 2012 il sociologo canadese Gilles Gagné sul quotidiano Le Devoir, «se io invento un modo per fare i pomodori quadrati e un’azienda trova la cosa geniale e me lo compra perché un pomodoro quadrato si infila meglio nel suo hamburger quadrato, sto contribuendo alla formazione in generale? No. Contribuisco alla formazione del ragazzo che come lavoro farà gli hamburger quadrati per conto della compagnia che ha finanziato la ricerca sui pomodori».


Pubblichiamo un estratto da La Mediocrazia di Alain Deneault (Neri Pozza Editore) Traduzione di Roberto Boi