L’invasione russa dell’Ucraina e la nuova Europa

Quali saranno le conseguenze di lungo termine del conflitto tra Russia e Ucraina? Come si ridefiniranno gli equilibri politici interni alla Comunità Europea, nel quadro di mutati equilibri geopolitici globali? L’esplosione del conflitto ha rapidamente polarizzato il dibattito in tutti i paesi europei, consolidando opposte visioni degli eventi in corso. cheFare e il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere dell’Università di Bergamo hanno deciso di sviluppare, nel quadro di un progetto di Terza Missione, un percorso editoriale che intende interrogare il nostro tempo, analizzando le sfide sociali e culturali che la guerra pone al continente europeo e al suo futuro. Autrici e autori con diversa formazione ed estrazione culturale ragioneranno di istituzioni comunitarie, di equilibri migratori, di geopolitica, di politiche energetiche, di crisi ambientale, di economia, di culture europee.

L’aggressione militare lanciata dalla Federazione Russa contro la vicina Ucraina il 24 febbraio 2022 rappresenta la principale sfida all’ordine geopolitico continentale così come era emerso dalla fine della Guerra Fredda consumatasi tra il 1989 e il 1991.

Non si tratta certo della prima guerra combattuta sul suolo europeo negli ultimi trenta anni. A ben vedere, al contrario, mentre i quaranta anni di Guerra Fredda sono stati caratterizzati da una relativa stabilità, interrotta solo dai brutali interventi sovietici in Ungheria e Cecoslovacchia e dall’invasione turca della parte settentrionale dell’isola di Cipro, l’intera fase post-Guerra Fredda è stata segnata da una striscia, praticamente ininterrotta, di cruenti conflitti armati interni e internazionali: le guerre nella ex Iugoslavia tra il 1991 e il 2001, la guerra di Transnistria nel 1992, le due guerre di Cecenia, rispettivamente nel 1994-1996 e nel 1999-2009, le due guerre in Ossezia del Sud, rispettivamente nel 1991-1992 e nel 2008, e la guerra del Donbass, cominciata nel 2014 e di cui l’attuale conflitto costituisce un allargamento e un’intensificazione. Non si tratta neppure della guerra europea con più perdite umane: se ha senso compiere questa macabra contabilità e al netto della scarsa attendibilità dei dati disponibili, al momento, sia le guerre nella ex Iugoslavia che le guerre di Cecenia, pur con durate comparabili, hanno avuto un numero di vittime superiori rispetto all’attuale conflitto tra Federazione Russa e Ucraina.

Ciò detto, qualunque sia il suo esito, ci sono già tutte le condizioni per considerare questa guerra come un evento di cesura nella storia del continente. È la prima volta nell’ultimo trentennio, infatti, che uno stato europeo arriva a contestare la sovranità e la legittimità di uno stato vicino, oltre a mettere in discussione l’esistenza stessa della sua nazione. È la prima volta, soprattutto, che uno stato così prossimo all’Unione Europea e alla NATO entra in conflitto diretto con la Federazione Russa, così come è la prima volta che i principali stati e organizzazioni occidentali reagiscono contro di essa in maniera così veemente: pur non essendo entrati direttamente in guerra, Stati Uniti e Unione Europea, sia in quanto tale che in quanto singoli stati membri, hanno infatti assunto iniziative di ritorsione politico-diplomatica, economica e militare tali da configurare un’alleanza di fatto con il paese attaccato e di contrapposizione esplicita e netta con il paese aggressore.

Questa situazione, naturalmente, è resa particolarmente preoccupante dal fatto che, secondo una stima della Arms Control Association prodotta alla vigilia dell’invasione, la Federazione Russa è, con 6.257 testate utilizzabili, la principale potenza nucleare del mondo e che la NATO, a sua volta, può potenzialmente contare sulle 5.550 testate degli Stati Uniti, le 290 della Francia e le 225 della Gran Bretagna. La prospettiva di un utilizzo di questi armamenti, peraltro, non solo non è stata esclusa ma è stata apertamente e pubblicamente evocata sia dal ministro degli Affari Esteri russo Sergej Lavrov che dallo stesso Putin.

Nel frattempo, anche al di fuori delle aree più direttamente e drammaticamente colpite, l’invasione russa ha già prodotto conseguenze di natura e di proporzioni di gran lunga superiori a quelle causate da tutti i conflitti scatenatisi nel continente dopo la fine della Guerra Fredda.

Una guerra generalizzata, persino nella sua versione nucleare, torna a essere uno scenario quanto meno plausibile nella percezione diffusa degli europei. Pur con differenze significative tra paesi dell’Europa Occidentale e Orientale e tra settori diversi delle stesse opinioni pubbliche nazionali, inoltre, la Russia torna a essere percepita come un nemico e una minaccia geopolitica e ideologica, un’alterità che segua i confini stessi dello spazio e dell’identità europei.

Il conflitto, oltre a questo, determina e, con ogni probabilità, continuerà a determinare pesanti ricadute negative sia sull’economia russa che sulle economie dei paesi europei, a sua volta frutto della drammatica contrazione dei flussi commerciali e finanziari, dei reciproci investimenti e degli scambi turistici, appena ripresisi dal duro colpo inferto dalla pandemia; l’esclusione dei prodotti energetici dalle durissime sanzioni imposte da Bruxelles alla Federazione Russa, inoltre, non è stata capace né di fermare la dinamica di aumento dei prezzi già in atto né di eliminare le gravi incognite che incombono sulla continuità, consistenza, affidabilità e costo degli approvvigionamenti energetici europei.

L’invasione, al tempo stesso, ha causato la più grave crisi di migranti e rifugiati dai tempi del secondo dopoguerra. Difficile stabilire con esattezza quante persone si siano spostate e quante abbiano fatto ritorno. Oltre all’ancora più elevato numero di ucraini che hanno cambiato residenza all’interno del proprio paese, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati stima che, dopo cinque mesi di combattimenti, circa 9.600.000 persone, soprattutto donne e bambini, abbiano varcato i confini dell’Ucraina per trasferirsi in un paese estero: circa il 18% sono emigrati nella Federazione Russa, l’82% in un paese europeo. La Polonia, con quasi 4.800.000 rifugiati, è di gran lunga la destinazione principale degli ucraini in fuga dalla guerra, mentre la piccola e poverissima Moldavia, con più di 540.000 rifugiati, è il paese che ha accolto più persone in rapporto alla propria popolazione. Accolta con un sincero sentimento popolare di solidarietà e facilitata da storiche scelte comunitarie, come quella di utilizzare, per la prima volta, la Direttiva sulla Protezione Temporanea adottata più di venti anni fa, questo immenso flusso di persone rappresenta un’ulteriore, potente sfida alla tenuta demografica, economica, sociale e democratica dei paesi di arrivo; la crisi alimentare indotta dalla stessa guerra, peraltro, lascia intravedere la più che concreta possibilità che all’esodo ucraino possa sommarsi un parallelo, massiccio spostamento di migranti economici dai paesi asiatici e africani che più dipendono dal grano russo e ucraino.

L’invasione russa, infine, sta imprimendo importanti e sorprendenti cambiamenti agli assetti politici interni al continente e alla stessa struttura comunitaria, oltre che ai più generali equilibri globali.

Il Gruppo di Visegrád, una trentennale e apparentemente solida alleanza politico-culturale tra Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, si è di fatto dissolto a causa delle divergenti posizioni sulle responsabilità del conflitto e sulla diversa percezione del rapporto con la Russia. Svezia, Finlandia e, persino, Svizzera stanno mettendo in discussione la propria neutralità e si stanno avvicinando alla NATO, inopinatamente ridiventata riconosciuto e, per ora, compatto baluardo della sicurezza europea. La Repubblica Federale Tedesca, tradizionalmente prudente in materia, ha accettato di aumentare le proprie spese militari e di inviare armamenti a un paese in guerra.

La stessa Unione Europea ha scelto di schierarsi con una forza e con modalità che non hanno precedenti nella propria storia. Le durissime sanzioni imposte alla Federazione Russa e la politica di apertura ai flussi di rifugiati ucraini, infatti, si sono accompagnate alla storica decisione di finanziare l’invio di equipaggiamento militare e il sostegno diretto alle forze armate ucraine, prefigurando così una futura militarizzazione di quella che era stata definita, per conformazione e impostazione, una «potenza civile». Accanto a questo, l’improvvisa accelerazione del processo di adesione dell’Ucraina segna un cambio di passo evidente nelle priorità, negli obiettivi, nelle strategie, nelle prassi e nelle tempistiche della politica di allargamento storicamente perseguita da Bruxelles; parallelamente, la Federazione Russa, con cui, a partire dall’accordo di partenariato e cooperazione di Corfù del 1994, era stato avviato un difficile ma effettivo e a tratti fruttuoso percorso di collaborazione, diventa e viene perlopiù trattata come una presenza ostile ai confini dell’Unione Europea.

Attraverso l’influsso sulle più generali dinamiche globali, a sua volta, l’invasione russa ha influenzato il sistema di relazioni internazionali dei paesi europei e della stessa Unione, portando soprattutto a un riavvicinamento con Stati Uniti e Gran Bretagna e a un raffreddamento di rapporti con tutti i principali soggetti “revisionisti” che, a livello globale, hanno espresso solidarietà o comprensione verso le ragioni di Mosca: tuttavia, mentre i legami con Pechino hanno risentito in maniera evidentemente negativa dello scoppio della guerra, l’impatto sulle relazioni indo-europee è stato caratterizzato da un più articolato tentativo europeo di rilancio, volto a impedire una ulteriore saldatura tra i paesi del B(rasile)R(ussia)I(ndia)C(ina)S(udafrica), a cui hanno recentemente chiesto di entrare anche Argentina e Iran.

Se è vero che, in questo contesto, gli elementi di pessimismo prevalgono nettamente sui segnali di ottimismo, è altrettanto vero che la guerra offre importanti opportunità di cambiamento all’Unione Europea e ai suoi membri. Anche se finora si sono mostrati sorprendentemente silenti, la guerra potrebbe rappresentare un incentivo per la ripresa di un forte movimento e, soprattutto, di una forte coscienza pacifista; allo stesso tempo, nonostante la generalizzata interruzione di programmi di scambio e collaborazione, non mancano isolati ma significativi sforzi da parte del mondo accademico e, più in generale, del mondo intellettuale e culturale europeo di mantenere vivo un dialogo con i sempre più limitati settori liberi della società civile russa. Allo stesso tempo, se da un lato comporta costi, ricerca di rapporti con regimi controversi e rischi di ritorno a fonti ancora più inquinanti, la necessità di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia può aprire la strada a una vera politica comune energetica, a una maggiore diversificazione dei paesi fornitori e, in prospettiva, al completo superamento del ricorso a combustili fossili.

A sua volta, i più generali pericoli derivanti dalla dipendenza esterna, già palesati dalla pandemia, potrebbero incoraggiare una più convinta discussione sull’opportunità di riformare senza abbandonare la politica agricola comune e di realizzare una vera politica industriale europea, capaci, insieme, di assicurare autosufficienza alimentare e autonomia nei settori vitali dell’economia continentale. Se la crisi dei rifugiati legata all’invasione, inoltre, può stimolare la creazione di meccanismi e strategie di risposta comune al più generale fenomeno migratorio, le importanti scelte militari assunte nella contingenza del conflitto potrebbero favorire la tanto annunciata creazione di un’identità europea nel campo della difesa e, nel medio termine, persino la realizzazione della più recentemente evocata «autonomia strategica» dell’Unione Europea. La guerra, infine, potrebbe rappresentare una formidabile occasione per ripensare i presupposti identitari, i valori comuni, gli obiettivi e il ruolo nel mondo dell’Unione Europea a trenta anni esatti dalla sua fondazione a Maastricht.