Simposio 2022: la fine della fine e l’inizio della fine. Un reportage dalla fine del mondo

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    Simposio questanno ha inaugurato le proprie giornate con un titolo quanto mai provocatorio: Non è la fine del mondo!. L’ironia e in un certo senso l’incoraggiamento insito in quella frase si facevano forza di un punto esclamativo che stava a significare una chiamata alla partecipazione necessaria e soprattutto urgente. Così se posso dire che quei giorni sono stati un po’ una fine del mondo (quella che vorremmo per davvero ogni giorno, e non quella a cui sembrano volerci condannare le cronache quotidiane), va detto anche che quello che ho potuto vedere è stato il tentativo, nemmeno troppo approssimativo, dell’inizio di qualcosa di nuovo e di vivo. Come riportato in una delle performance che hanno costellato il laboratorio Propaganda Game a cura di Scuola Open Source, Simposio è stato la fine della fine e l’inizio della fine.

    Non sono anni semplici e anche solo scriverlo è diventato insopportabile, perché quando una cosa è vera e ti attraversa il corpo con il suo carico di ansie, angosce e paure non la sopporti più nemmeno scritta perché sembra sempre la solita retorica. Ma altre parole per descrivere questi anni non ne ho, sarà perché è la prima volta che scrivo per davvero, e sarà anche perché è la prima volta – dopo due anni di pandemia – che mi tuffo per quattro giorni in mezzo ad una comunità di persone per discutere, osservare e capire, e per farlo tutti insieme a voce alta, senza nessun filtro che non siano i nostri punti di vista e certamente anche i nostri pregiudizi.

    Arrivo che – nonostante il caldo – l’estate quella vera, quella delle vacanze deve ancora arrivare. Arrivo già stanca, nonostante l’eccitazione e la voglia di confrontarmi con altre persone sia già altissima. Mi porto dietro la  fatica di una stagione non semplice – credo per tutti -, ma è proprio questo rimescolamento di sensazioni a cui non sono più abituata a sfiancarmi, come se venissi in qualche modo e non a caso da una fine del mondo a cui non avrei mai voluto essere stata invitata.

    Molte cose del resto oggi costano più fatica di ieri: avere fiducia e avere immaginazione sopra tutte, ma se sono qui è perché non so davvero cosa aspettarmi e questa sensazione di sorpresa e di stupore che per la prima volta da molto tempo sento ancora tra le dita delle mani tende a farmi (finalmente) nuovamente felice.

    Così succede che anche le montagne, le Dolomiti per la precisione, seppur già note a me e a chiunque altro immagino, ora mi appaiano come realmente mai viste. Questi meravigliosi Monti pallidi sembrano rivelare una forma inedita, una luce che conosco ora per la prima volta, come se mi fossi tolta anni di occhiali spessi e scuri. Mi stropiccio gli occhi e resto a bocca aperta, un po’ incantata e un po’ intontita. Ora desidero solo scrollarmi di dosso questa fatica ottundente che mi porto addosso (che ci portiamo addosso?) da tra troppo tempo. Per cominciare mi libero dello zaino, quasi gettandolo a terra: le spalle libere, la schiena leggera, gli occhi leggeri. Mi raddrizzo e mi stiracchio come appena sveglia in questo giorno finalmente nuovo: annuso l’aria come fosse la prima volta e guardo come fosse la prima volta, provando a non perdermi nulla. Sentendo prima di ostinarmi a capire, o per meglio dire capendo sentendo. Insomma, direi che ci siamo capiti.

    Leggo davanti a me, scritto su uno striscione: “the end” e subito penso al “That’s all Folk!” che chiudeva le puntate dei Looney Tunes della Warner Bros. Ma questa come detto non è la fine, e cosa altro sia sono qui per capirlo. Di certo non mi stupirei se incontrassi voltato l’angolo Bugs Bunny, Daffy Duck o Porky Pig. Per non dire di Taz, il diavolo della Tasmania.

    Il punto di ritrovo ha i contorni di un nuovo mondo e soprattutto l’imbarazzo di chi si ritrova un po’ estraneo e un po’ fuori posto. Ci si parla con una timidezza che le zoom ci avevano fatto dimenticare: il clima e i luoghi di provenienza tengono banco, veri e propri rompighiaccio universali: “Fa caldo, molto caldo” e in particolare “A Milano si muore” è già un intercalare diffuso, dichiarazione di uno stato inevitabile, ma anche di uno stoicismo visto ancora con un certo rispetto. Le banalità non si sprecano, ma è la strada obbligata se ci si vuole – piano, piano – riconoscersi e ritrovarsi e infine concedersi qualche pensiero davvero proprio scambiandosi sorrisi e discutendo anche animatamente.

    L’Ex Villaggio Eni di Borca di Cadore che ci ospita è una vera e propria scenografia immersiva. Luogo evocativo potentissimo, L’Ex Villaggio Eni è simbolo e sostanza di una cultura della comunità che ha attraversato il Novecento e le sue ideologie, superando rigidezze e condizionamenti. Un luogo che oggi si rivela pienamente nel suo restauro che non sta solo nell’architettura a cui la sua struttura dà forma, ma nell’idea di un’architettura di comunità fluida, capace di vestire – cucendo e ricucendo – e includendo chiunque si dia il tempo di coglierne le possibilità. Concepito da Edoardo Gellner tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta su commissione dell’ENI allora guidata da Enrico Mattei, Il Villaggio doveva rappresentare – come altri sparsi lungo tutta la penisola – un elemento della modernizzazione del paese di cui l’ENI era uno degli elementi propulsivi. Una modernizzazione che la scomparsa di Mattei e la mutazione del clima politico, sociale ed economico, tramutò in una vera e propria utopia che oggi Il Villaggio tramutato in un Ex Villaggio esprime non più solo simbolicamente, ma attraverso pratiche di comunità come Simposio.

    La densità di quello che è avvenuto nei quattro giorni (dal 7 al 10 luglio) è tale che risulta complicato restituirlo se non in maniera estremamente compilativa. Bisognerebbe infatti partire dalle sensazioni provate, quasi tutte sorprendenti, capaci di confondere ed entusiasmare al tempo stesso. Per poi dire che tutto è volato via velocemente e non per un’ostentata frenesia, ma per la possibilità (quasi sempre più rara) di vivere con facilità tutti questi momenti, lasciandoli evaporare, senza trattenere inutili discorsi, ma solo avvertendo la sostanza reale di una possibilità fino a prima non avvertita o mai presa in considerazione. In un alternarsi continuo e incalzante di performance musicali, lavori di gruppo, discussioni e pranzi che si sovrappongono a cene che diventano chiacchiere felici e allegre che si protendono fino a tarda notte e oltre, o almeno fino a quando il sonno lo permette. Quello che segue è dunque quello che si può leggere di giorni bellissimi, ma va ricordato che manca tutto quello che si è vissuto sentendolo su di sé giorno dopo giorno. Del resto partecipare non è una cosa che si dice, ma una cosa che si fa, e la partecipazione non è una cosa di cui si può scrivere (e io oltre tutto non sono Martha Gellhorn), ma è una cosa in cui è bene stare.

    Il 7 luglio, giorno dellarrivo, è un giorno dedicato alladattamento, come se il corpo e la mente richiedessero un momento iniziale per abituarsi ai nuovi ritmi – paradossalmente più lenti – ai 1200 metri di altezza, alle salite e alle temperature non proprio ordinarie di un luglio in città. La gente arriva allEx Villaggio Eni poco a poco, chi già affaticato dal percorso a piedi, chi entusiasta, chi spaesato, chi semplicemente al buio e in ritardo.

    Alle ore 20 inizia il primo momento comunitario in mensa che, come un rito, mette a conoscenza tutte e tutti della sacralità della natura e della montagna che va rispettata e non contaminata e delle poche regole comuni da osservare a impatto zero e ad alta sostenibilità ambientale (gira pochissima plastica ed ognuno porta con sé per tutta la residenza un piatto, due posate ed un bicchiere). Poi inizia il banchetto comune, il vero orologio di Simposio che scandisce il programma la mattina con la colazione (200 e passa cornetti sempre caldi, farciti e offerti dallo staff che ogni giorno scende in paese allalba), il pranzo con i panini e la sera con il vero pasto abbondante (non ci si tira mai indietro per un bis o addirittura un tris). I momenti in mensa si rivelano essere i momenti più comunitari dove i partecipanti intavolano discussioni e pensieri frutto delle giornate a Simposio.

    La prima sera termina con le performance musicali per iniziare a scaldare latmosfera e rodare i meccanismi relazionali: prima Dr Pira e dopo Ubik. Quello che succede la sera dopo cena è puro intrattenimento per chi vuole ballare e riscaldarsi davanti alla cassa, chi invece preferisce continuare il dibattito del proprio vicino commensale bevendo dei drink (tutto lalcol è offerto nei tre giorni) o chi osserva divertito come la gente interpreta la musica con movimenti personalissimi. Ognuno, a proprio modo, partecipa alla serata.

    Venerdì 8 luglio inizia ufficialmente il programma strutturato la mattina in 3 workshop e il pomeriggio in un ascolto collettivo di alcune testimonianze selezionate dagli organizzatori.

    I workshop sono declinati in 4 tematiche:

    –   Arte e tecnologia, con il collettivo Clusterduck a coordinare il workshop Hyperstitional Compass;

    –   Ecosistemi e Cura al centro del rituale Data Meditation di Nuovo Abitare in un primo formato inedito ed analogico;

    –   Organizzazione e politica, affrontato in modo estremamente serio” attraverso la filosofia e lattivismo politico nel laboratorio Moleculocracy a cura di Institute of Radical Imagination con Emanuele Braga;

    –   Rappresentazione e Potere con lesercizio di immaginazione politica di Propaganda Game curato da Scuola Open Source.

    Oltre a queste proposte, un sottogruppo del giovedì ha la possibilità di seguire un piccolo workshop di Dr. Pira dedicato non tanto alla tecnica del fumetto quanto allapproccio e al concetto di super relax.

    Arriva la pausa pranzo, tutti si dotano di panini, ci si piazza sotto lombra degli alberi e dei sassi o addirittura qualcuno azzarda una smorfia al sole sdraiandosi sul prato e ritrovandosi arrossato subito poco dopo.

    Alle 15 parte una maratona di incontri che attribuiscono a Simposio un primo invito Allarme!” aprendo uno spazio di testimonianza per raccontare mondi possibili e modi alternativi di progettazione. Si parla di pratiche inedite, frammenti di resilienza di corpi, esperimenti e tentativi di trasformazione del presente dalla tecnopolitica del collettivo Ippolita alle sperimentazioni del Disruption Network Lab, al Climate Art Project – FLUMEN di Andreco, al progetto speculativo transumanista Forehead Vulva Channeling Research di Sofia Braga, e poi le esperienze di Spazio Hydro a Biella, Giardino di Porto Burci a Vicenza, Fiuminarso in Calabria; Radio Safari e Kabul Magazine, lindagine tra architettura e territorio di Eterotopia, linvito al riciclo tecnologico di Refurbish Ninja, il Glitching out of Reality” di Valentina Tanni e un ricordo di Giacomo Verde, presente a Simposio 2019, del collettivo artistico Reodada / Dadaboom.

    La sensazione che rilascia la serie di testimonianze che si susseguono ogni 20 minuti nel lento scorrere delle lancette è di stimolo e di interesse verso nuove pratiche e nuovi linguaggi.

    Dopo la sbronza” da storie, lappuntamento fisso passa per la cena, come al solito molto generosa, e gli attesi live. Si inizia con la performance dei None Collective che mette in scena una sinestesia di luci, colori, suoni e movimenti che attirano lattenzione di tutti i simposiani sotto le stelle delle dolomiti. Successivamente si continua a tenere alto il suono in cassa, che riecheggia in tutta la valle, con lhard neomelodic di Nziria che alterna musica techno a Mariah Carey e a sinfonie neomelodiche.

    I simposiani non demordono dal freddo e rimangono fino alla fine delle performance per poi rifugiarsi nelle capanne a fine serata.

    Sabato è la giornata conclusiva, sveglia presto per la colazione di gruppo in mensa e poi via allultimazione dei lavori di workshop per presentare tutto nel pomeriggio per il vero Simposio. Dalle 15 parte la parata tra manifesti onirici, appelli, affermazioni, persone mascherate, un gruppo compatto che scende per le vie dellEx villaggio Eni attirando lattenzione della gente al di fuori di Simposio che segue divertito con lo sguardo. La discesa dura quasi unora sotto il sole ed un piacevole venticello che accompagna la parata fino alla colonia dellEni, vera cattedrale del SIMPOSIO.

    Allinterno della cornice degli oltre 30.000 metri quadri della colonia ci si perde tra le stanze, i bagni ed i corridoi lasciati al loro stato originario con laggiunta di opere site specific, curate dal progetto Dolomiti Contemporanee, che convivono perfettamente nel quadro architettonico.

    Alle 16:57 parte il Simposio inaugurato da una performance teatrale accompagnata dallinedita composizione di Omega Mai risultato della fusione di Mai Mai Mai e la Squadra Omega. I suoni richiamano i simposiani in giro per la struttura e li preparano al vero banchetto filosofico. Il Simposio inizia alle 18:00 con le restituzioni dei workshop: un alternarsi di pensieri elaborati nei 3 giorni di Borca di Cadore, processi avviati in un contesto che cerca di scardinare il realismo e momenti leggeri di partiti utopici che non si discostano troppo dal futuro prossimo. Dopo aver scaldato le coscienze ed i pensieri si passa al vero dibattito che si concentra sulla prima domanda pescata dallurna – oggetto che custodisce stimoli e riflessioni dei simposiani – e ruota sul concetto di fare e di non fare”. Gli interventi dei partecipanti si alternano e si concentrano sul concetto prezioso del tempo in tutte le sue misure di produzione, improduzione e libertà. Il risultato è un coro comune verso il prendersi cura delle pause e dellagire evitando isterismi capitalistici.

    Dopo le 20 si ritorna in gruppo verso la mensa per la cena e lo spettacolo dellultima sera. La scaletta è più lunga degli ultimi giorni, c’è voglia di celebrare una comunità (forse) appena nata e di alleggerirsi dai pensieri pesanti verso una danza corale. La scelta degli artisti è perfetta, si parte con la delicatezza orientale di Eva Geist si arriva al duo dei Mombao che evocano tradizioni e cori impossibili catalizzando lattenzione dei simposiani che uniti in un cerchio stretto che circonda i due musicisti, nascondono le rigide temperature della notte. Dalle percussioni e cori a cappella si passa poi verso la casetta con suoni più dritti di Sense Fracture che salutano i partecipanti che hanno ancora voglia di ballare.

    La domenica mattina è il giorno dei saluti, delle promesse a non perdersi di vista” e al mantenere il luogo sacro di Simposio un nuovo rito per tutte e per tutti. Chi può, poi continua il Simposio con lultima performance in chiesa con il live di ACRE.

    La sensazione che si ha quando si lascia Simposio è di averne avuto davvero bisogno sia per la forma che per i contenuti e la gente incontrata. C’è chi si congeda da Simposio parlando di un festival dedicato allecologia della mente, chi di disinquinamento, chi di produzione di pensiero collettivo.

    Simposio va oltre questo programma e racconto incalzato di momenti che si sovrappongono e si dissolvono. È un momento di sospensione, foriero di nuovi venti. Un osservatorio di pensieri e riflessioni che genera coscienze. È un pretesto e così dovrebbe rimanere, un pocome quando dici: Ehi, dobbiamo parlare” ma in realtà è solo un pretesto per vedersi ancora. Al termine dei quattro giorni si è creata una comunità che poco distingue relatori, ospiti, organizzatori e fruitori della residenza. Simposio è unesperienza che ha bisogno di essere vissuta per essere capita.

    Non so ancora se il mondo è cambiato e ancor meno capisco cosa voglia dire tornare alla normalità. E infine, se l’apocalisse fosse davvero arrivata sarei qui a scriverne? Tuttavia non escluderei comunque l’ipotesi, vista la paura che con fatica mi sto togliendo di dosso piano piano solo ora. Le prospettive come si usa dire non sembrano delle migliori, ma averne paura complicherebbe sensibilmente le cose. Se è la fine del mondo che devo vivere o che mi tocca vivere, non posso far altro che viverla come un inizio che come tale ha bisogno di risposte e soluzioni che in questo angolo di mondo in parte ho trovato sotto forma di pensieri e soprattutto di persone che hanno voglia di conoscere, cercare e creare e per farlo sono pronte a confrontarsi, a sbagliare, a divertirsi e a stare insieme giorno e notte. Carlo Maria Cipolla che fu uno storico e un economista diceva che all’ombra dei campanili, si producono cose belle che piacciono al mondo. Qui – in questo angolino a milleduecento metri di altezza – abbiamo trovato la nostra ombra e anche cose belle per il mondo. Ne avevamo tutti bisogno.

     

    Immagini: fotografie di Marilù Manta

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