Le città sono la soluzione, il racconto di un viaggio

In occasione della presentazione di venerdì 15 ottobre alla Triennale di Milano del volume di Simone D’Antonio e di Paolo Testa, Le città sono la soluzione (Donzelli) pubblichiamo un estratto. All’incontro insieme agli autori parteciperanno, Alessandro Coppola, del Politecnico di Milano, Lucia Scopelliti, del Comune di Milano e Francesca Cognetti, del Politecnico di Milano, con la moderazione di Bertram Niessen, direttore scientifico di cheFare.

Le storie raccontate in questo volume sono solo una piccola parte delle tante che abbiamo incrociato lungo lo Stivale negli ultimi anni, capaci di rappresentare tanti esempi di quella che Charles Landry definisce «burocrazia creativa», un concetto che mescola due idee apparentemente agli antipodi ma in grado di diventare realtà nell’azione quotidiana di decine, centinaia di amministrazioni locali. 

L’istituzionalizzazione di forme innovative di partecipazione civica, come quella rappresentata dagli Urbact Local Group, e la loro trasformazione in spazi duraturi (e in qualche caso permanenti) di confronto con cittadini e soggetti del territorio interessati allo sviluppo di determinate tematiche, assume un ruolo importante nel promuovere quel ruolo di brokeraggio civico di idee, soluzioni e contatti giocato dalle amministrazioni locali in piccoli e grandi centri coinvolti in Urbact. 

Il processo di concertazione locale, assieme agli altri elementi che lo distinguono dal dibattito pubblico sulle opere infrastrutturali e dal resto delle forme di ascolto civico, non è stato mai percepito come un elemento di disturbo o di rallentamento tecnico-amministrativo, ma come una possibilità concreta di sperimentazione di nuove modalità di confronto con gli attori della città. 

Integrare in maniera stabile tali modelli nelle modalità di governo di una città appare ancora come una prospettiva ambiziosa e in alcuni casi lontana, ma non c’è dubbio che le sperimentazioni condotte nell’ambito delle reti Urbact abbiano contribuito a far emergere una nuova generazione di facilitatori del dialogo locale, di esperti e progettisti che stanno positivamente contaminando anche altri programmi e progetti con gli elementi più interessanti emersi dal confronto con le comunità nell’ultimo settennato. 

Questa propensione a un dialogo efficace e concreto, scollato dalle modalità con cui avviene la classica collaborazione con associazioni e organizzazioni di categoria presenti sul territorio ma focalizzata alla definizione di piani integrati o all’attuazione di pratiche ben precise, si è rivelato un elemento utile anche in vista di ulteriori progettualità finanziate da altri programmi europei, su tutti Urban Innovative Actions, ma senza escludere la programmazione mainstream. 

La definizione di meccanismi efficaci per definire nuovi progetti, anche particolarmente disruptive, ha reso in tanti territori la partecipazione a Urbact come parte delle soluzioni al problema della scarsa qualità della progettazione europea presentata da attori istituzionali italiani. Allo stesso tempo, il confronto con altre realtà europee e l’adozione di metodologie di indagine e di ascolto del territorio sempre più avanzate ha contribuito a valorizzare esperienze che gli stessi protagonisti difficilmente percepivano come buone pratiche meritevoli di attenzione, e che invece sono diventate cuore di iniziative di trasferimento e ulteriore sperimentazione in Europa. 

Anche per chi come noi dal livello centrale ha la possibilità continua di fare raffronti e valutazioni tra le varie esperienze urbane attive su scala italiana e internazionale, il confronto con tanti degli attori coinvolti dalle amministrazioni locali ha costituito un elemento sorprendente per comprendere quanta innovazione si nasconda nella quotidianità di piccoli e grandi centri. 

Un’innovazione spontanea spesso opera di un changemaker isolato o di un piccolo gruppo di persone dai background più insoliti, con protagonisti che svelano la pervasività delle reti della conoscenza e i legami anche inattesi e ricorsivi che presentano con esperienze d’eccellenza realizzata all’estero. 

Allo stesso tempo, nel confronto quotidiano con amministrazioni nazionali, esperti e comuni di tutta Europa, riusciamo ad avere il polso del modo in cui vengono percepite le città italiane all’estero, ovvero degli straordinari laboratori di innovazione che da Nord a Sud riescono, pur in un quadro di limitatezza di risorse, a realizzare risultati insperati grazie alla passione e all’entusiasmo di amministratori, innovatori e singoli cittadini che fanno sfoggio di resilienza (prima ancora che questa parola andasse di moda) e mettono in pratica azioni che vanno oltre l’eccezionalità dell’ordinario, o al contrario l’ordinarietà dell’eccezionale. 

Tutto quello che raccontiamo in questo volume, avvenuto in buona parte prima dell’inizio dell’emergenza pandemica, offre elementi utili per comprendere dove stanno andando le nostre città e come le amministrazioni pubbliche possono accompagnare il necessario processo di rilancio. 

In primo luogo, molte delle iniziative raccolte in questo testo evidenziano una modalità nuova di relazione con il settore privato, che va però ingaggiato ancora di più nella co-progettazione degli interventi per poter far sì che i processi partecipativi di innovazione riescano a creare non soltanto valore pubblico ma anche concrete opportunità di crescita di servizi per i residenti e, più in generale, di attrattività del contesto urbano. 

In molti casi, la partecipazione alle forme di coinvolgimento civico ha consentito al privato e al privato sociale di confrontarsi efficacemente con altre realtà del territorio, stabilire nuovi collaborazioni e guardare a nuovi mercati esteri (anche in virtù dei rapporti stabiliti con le altre città europee partner delle reti): ciò testimonia quanto una parte decisiva dei programmi di cooperazione urbana e di relazione city-to-city sia costituita dalla presentazione di filiere e distretti locali, non riducibili solo a grandi player e nomi-simbolo, ma soprattutto di quel tessuto di piccole, medie e micro-imprese che rappresentano sempre di più parte del brand territoriale. 

Allo stesso tempo, favorire un maggiore ingaggio di questi soggetti che spesso sono portatori di una cultura pratica e operativa capace anche di smontare e ricondurre in concreto i grandi obiettivi dei piani integrati, un esercizio rischioso ma necessario, può risultare decisivo per includere la dimensione della prossimità in nuove forme di ripensamento dei territori urbani. 

Grandi formule come la Città del quarto d’ora, abilmente coniata da Carlos Moreno e fatta propria dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo, rappresentano nel concreto ciò che tante città impegnate in Urbact tentano di mettere in pratica da anni, proprio a partire da un coinvolgimento attivo dei soggetti del territorio e favorendo una riscoperta di quartieri urbani sia centrali che periferici. Non si può prescindere da un approccio place-based se si vuole ripensare davvero il futuro delle nostre città, e l’azione di rete che ha sempre un atterraggio su posti specifici delle nostre città ne è un esempio. 

Un altro elemento che salta agli occhi di chi osserva i processi avviati grazie a Urbact è la maturità raggiunta da molte delle esperienze urbane realizzate dalle città italiane, frutto in tanti casi di percorsi strutturati e consolidati nel tempo su temi specifici ed efficacemente trasformati in politiche locali e strategie capaci di incidere sulla partecipazione a diversi programmi europei, nonché nell’utilizzo sapiente delle risorse delle Politiche di coesione. 

Dall’attenzione al rapporto tra tecnologia e ingaggio civico a Siracusa fino alle strategie emergenti di Prato sull’economia circolare (concretizzatesi nel corso dell’ultimo anno nella contemporanea partecipazione a una rete Urbact, a una partnership tematica dell’Agenda urbana europea e alla vittoria del quarto bando Urban Innovative Actions con il progetto Urban Jungle) sono tanti i temi che segnalano la non-episodicità della partecipazione ai programmi europei e suggeriscono un investimento di sistema per valorizzare su scala regionale e nazionale tali esperienze, e favorirne la replicabilità in altri comuni. 

La prospettiva di creare delle reti nazionali di trasferimento delle esperienze sviluppate dalle città italiane attraverso Urbact rappresenta un elemento realistico su cui sviluppare nei prossimi anni nuove forme di collaborazione tra diversi livelli di governo, con un effetto-moltiplicatore in termini di innovazione di governance e miglioramento delle capacità di progettazione di un numero sempre più ampio di comuni: fattore decisivo anche per poter utilizzare al meglio i fondi provenienti dall’Europa per il rilancio post-crisi. 

Allo stesso tempo, rilanciare un nuovo rapporto con il settore privato e con il privato sociale, nonché con il mondo delle fondazioni bancarie e di impresa, può contribuire a dare concretezza a tante piccole e grandi progettualità di qualità che emergono sui territori in scale e dimensioni diverse, spesso bisognevoli solo di una spinta accelerativa minima per produrre un impatto tangibile sui territori, e il miglioramento della qualità della vita degli abitanti. 

Infine, non è possibile ignorare anche gli aspetti più controversi. Non c’è dubbio che la partecipazione ai programmi europei possa rivelarsi per molti comuni non risolutiva o qualcosa di molto più vicino a un esercizio di stile, un’azione di blue-washing che rinsalda nominalmente i legami con l’Europa e l’amicizia con altre realtà urbane europee senza però affrontare nel concreto i problemi, o senza riuscire minimamente a intaccare le barriere all’innovazione che resistono nelle amministrazioni (in primo luogo nella cosiddetta separazione per silos di tematiche e competenze).

A questo si aggiunge un senso di esclusione sempre più forte da parte di territori piccoli e medi che spesso non dispongono delle competenze minime per partecipare a tali programmi (come banalmente la disponibilità di funzionari o collaboratori capaci di parlare in inglese e partecipare attivamente alle attività di scambio), quasi come in una persistente «fear of missing out» («paura di essere tagliati fuori») su scala europea. Non c’è dubbio che l’azione capillare di comunicazione e coinvolgimento realizzata negli ultimi anni a diversi livelli sia riuscita a favorire l’ingresso di numerose realtà nuove in Urbact (comuni di piccole dimensioni come Falerna e Capizzi, piccoli capoluoghi come Isernia, Pordenone o comuni medi come Rosignano Marittimo e Cento) ma tanto ancora resta da fare per consentire a tutti di sperimentare gli strumenti partecipativi e di scambio su scala europea. 

Far comprendere che la partecipazione a tali programmi non rappresenta soltanto una medaglia da appuntare sul gonfalone della propria città o un nuovo genere di gemellaggi, magari collettivi e più tematicamente stimolanti, ma anche come un attivatore di ulteriori risorse, soluzioni e contatti che possono risultare utili se davvero si sceglie di mettersi in discussione e guardare all’Europa da un’angolatura diversa è la sfida che va condivisa dal basso con tutti i livelli istituzionali, contribuendo a innovare anche le modalità con cui si sviluppa il confronto con le regioni e la partecipazione ai programmi di cooperazione territoriale europea. 

Questo viaggio ha spinto anche noi a guardare l’Europa da un’angolatura diversa, a scoprire (pur nella diversità di temi ed esperienze affrontate) che le amministrazioni locali affrontano un po’ ovunque problemi simili, schiacciate come sono tra competenze e risorse sempre più inadeguate per affrontare la complessità multidimensionale delle sfide del presente, e dall’altro lato speranze e ambizioni di cittadini e comunità locali sempre più forti rivolte nei loro confronti. 

La creatività con cui tante amministrazioni locali italiane sono riuscite a fare rete su scala locale, la capacità anche umana di intessere rapporti con attori e innovatori che riescono poi a cambiare in maniera decisiva le regole del gioco, sono elementi che tutti in Europa guardano con ammirazione, e ci portano sul fronte della cooperazione urbana a giocare un ruolo forse più significativo ancora rispetto a quello delle istituzioni regionali e nazionali. 

Questa capacità di metterci l’anima (e la faccia) che tanti amministratori e funzionari locali hanno saputo raccontare negli scambi con le altre città europee fa di loro una piccola élite molto più diffusa di quanto si immagini, un patrimonio di competenze di cui spesso non siamo consapevoli ma che grazie a questo piccolo programma europeo siamo riusciti a mettere in luce, dimostrando che il cambiamento è possibile davvero solo se si parte da politiche che pongono al centro le persone e le comunità locali. 

 

 


Le immagini dell’articolo e di copertina sono state gentilmente concesse da Emiliano Ponzi che ringraziamo e fanno parte della serie Chronicles from the red zone con cui Ponzi ha descritto il periodo di lockdown per il Washington Post.