Non ci resta che archiviare. Da qui alla fine dei tempi

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    All’elenco degli oggetti in via di estinzione non si è ancora aggiunto il «segnalibro». Sulla piattaforma Pinterest ci sono intere pagine dedicate a foto di segnalibri ricavati nelle forme, nei materiali e nei colori più diversi. Se facciamo tanto di entrare in una cartoleria, o di consultare qualche sito di e-commerce, troveremo un’offerta di segnalibri perfino eccessiva e probabilmente prodotta in manifatture della più disparata provenienza.

    Ma che cos’è il segnalibro? Uno strumento con una lunga tradizione artigiana alle spalle e probabilmente collezionato in tutto il mondo da diversi amatori. Alla metà del diciannovesimo secolo per la prima volta viene prodotto industrialmente nella città di Coventry, in Inghilterra.

    Questa semplice curiosità è sufficiente a rievocare una pagina formidabile di W.G. Sebald, nel romanzo Gli anelli di Saturno, in cui viene descritto l’ambiguo spettacolo delle fabbriche inglesi, all’epoca della rivoluzione industriale, illuminate di notte e gremite di lavoratrici chine sul telaio. In quello stesso secolo l’invenzione del romanzo raggiungeva nelle case della borghesia la definitiva consacrazione; e forse proprio allora l’azione di chiudere un tomo, non dopo avervi infilato tra una pagina e l’altra un segnalibro, diventava il gesto culturale che abbiamo visto tante volte ritratto in film, fotografie e dipinti. Anche la foglia di un albero, com’è noto, può fare da segnalibro. E con un po’ di fortuna, potrà capitare di scoprirne una in un vecchio volume scontato trovato su una bancarella. Ma «segnalibro» è una parola che, nella sua versione inglese, cioè «bookmark», è entrata con una veste nuova nelle nostre vite, più o meno a partire dagli anni ’90. «Bookmark», infatti, è il termine che indica la funzione dei browser di navigazione internet con la quale, appunto, infiliamo un segnalibro virtuale in rete, con lo scopo di memorizzare una pagina e tornare prima o poi a consultarla.

    Ecco come Tim Berners-Lee, coinventore del World Wide Web, descriveva questo nuovo strumento in una newsletter diffusa nel maggio 1993: «[…] è utile non solo per evitare di tornare su cose vecchie quando se ne cercano di nuove, ma anche per ripercorrere le tue tracce in un territorio inesplorato. L’elenco dei bookmark, denominato “hotlist”, viene salvato tra una sessione e l’altra come un elenco personale di pagine ritenute di nostro interesse […] Marc Andreessen, l’autore, ha fatto un ottimo lavoro». Marc Andreessen è il nome dell’allora ventiduenne programmatore informatico che sviluppò Mosaic, il primo browser internet, all’interno del quale era fin da subito comparsa la funzione bookmark, implementata successivamente dai vari Explorer, Safari, Chrome e Firefox.

    Se il vecchio segnalibro di stoffa scandiva l’esperienza immersiva della lettura, la sospendeva e così facendo alimentava il piacere inconfondibile e specifico del testo, diventandone un complice, la sua controparte informatica, invece, somiglia più a un mero strumento di archiviazione personale. Con il bookmark non sospendiamo la trama di un libro o di un saggio, creando dentro di noi l’attesa per il momento in cui vi torneremo (un effetto simile alla tecnica del «cliffhanger», con la quale gli sceneggiatori di una serie tv interrompono la puntata rimandando il colpo di scena alla successiva), ma più spesso archiviamo un indirizzo in vista di un utilizzo pratico futuro (il sito di Trenitalia o della nostra banca).

    Tuttavia spesso ricorriamo al bookmark come a un post-it che ci rammenta di leggere quel determinato articolo «longform», quel saggio breve o quell’intervista che, nel flusso delle notifiche e della timeline di Facebook, ha catturato per un istante la nostra attenzione rapace. In questo caso il bookmark, diversamente dal segnalibro che operava nel contesto di fruizione lenta proprio della carta e del vecchio romanzo, si trasforma in uno strumento (spesso ansiogeno, diciamolo) che ogni giorno accresce l’elenco dei testi che vorremmo leggere.

    La cultura e il sapere, in questo modo, non sono più il luogo della profondità feconda e dell’immersione, ma formano uno spazio accelerato dalla dimensione senza fine dell’offerta combinata con la voracità del consumo. Viene così in mente un meme molto divertente circolato tempo fa in rete. Si tratta di un mostriciattolo che minacciosamente ci guarda dal monitor e grida: «Goooood morning….looooongfooorm!!!». Come dire: un nuovo giorno è iniziato nel mondo del consumo e dell’offerta culturale infinita. A noi non resta che archiviare. Da qui alla fine dei tempi.


    Questo pezzo è uscito sul primo numero di Archivio

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