Il «performare» si è infilato in una trama lessicale che va dai fondi finanziari alle nostre identità più intime, dalla competitività delle aziende ai laboratori della scienza. La «performance» ha travalicato lo scandalo della sua irruzione nella scena artistica a metà del secolo scorso, per essere sussunta da qualunque espressione con cui si è dispiegato il bio-capitalismo, fino alla sua versione necro. Allo stesso tempo è proprio la «performatività» la chiave per qualunque dispositivo di critica all’ordine delle cose. Non ci sono parole più ricorrenti di queste nel vocabolario del contemporaneo.
Per capire quale sia la forza di quei lemmi e la potenza della loro proiezione, ne abbiamo parlato con una delle osservatrici più attente della scena performativa, Annalisa Sacchi, docente di Estetica del teatro e Direttrice del Corso di Teatro e Arti performative all’Università IUAV di Venezia. Su questi temi, peraltro, ha inaugurato una collana editoriale, Performance +, il cui primo numero è uscito di recente, dal titolo Performance + Curatela, a cura di Piersandra Di Matteo.
Le pratiche di performance, tra tutte le espressioni artistiche, sembrano quelle più capaci di adattarsi alla nostra sensibilità contemporanea e di interpretarla. È così?
«La performance emerge come genere alla fine degli anni ’50 e gli inizi dei ’60 del Novecento, in estrema prossimità coi movimenti sociali, politici e culturali che di lì a poco travolgeranno Stati Uniti ed Europa. Quindi il segno che si imprime nella forma-performance è estremamente debitore dei tempi, così come era avvenuto con le avanguardie storiche a contatto con la Rivoluzione Russa e l’ascesa dei totalitarismi. Per sua stessa genesi, dunque, l’atto performativo è già tutto irrorato di politica, società, Storia.
Oggi poi, a differenza di altre espressioni artistiche, le pratiche della liveness sono condizionate dalla questione dell’epidemia perché i corpi sono vettori del virus. Corpo organico e corpo sociale così si intrecciano e le fenomenologie legate allo statuto dei corpi emergono in primissimo piano. Non a caso, con il lockdown, i primi luoghi a chiudere sono stati proprio i teatri. Teatro e contagio però, oltre questa contingenza, hanno una relazione antica e profonda. Sia Walter Benjamin che Roland Barthes hanno scritto pagine memorabili sul bisogno originario di una zona di decompressione tra palco e platea per stemperare la morte che abita la scena che è, per suo statuto, luogo di presenze ritornanti, di fantasmi. Artaud voleva un teatro del contagio, vagheggiava epidemie di peste…
Ci sono insomma dei contenuti che serpeggiano nell’ontologia della performance e altri evidentemente manifesti, che hanno a che fare con la presenza, il presente, e quindi il contemporaneo. C’è un altro motivo di interesse attorno a questo campo: accanto alla questione della performance, c’è il performativo. Noi sappiamo che, dalla linguistica di Austin alla strutturazione del genere in Judith Butler passando per Derrida, il performativo si è rivelato davvero uno strumento di lettura del mondo. Per questo la performance è ormai inclusa in ogni riflessione che riguarda il contemporaneo».
Potremmo aggiungere che, più di altre arti, quelle performative vivono l’agire di una complessità di ruoli e di capovolgimenti: penso a curatori che sono anche co-autori, spettatori che diventano protagonisti in itinere, lo spazio che si riscrive e non ospita solamente.
«La curatela nelle arti performative è stata praticata, storicizzata e concettualizzata con grande ritardo rispetto alle arti visive. È successo per molte ragioni, non ultimo il fatto che esse implicano un sistema di finanziamento pubblico che le differenzia profondamente rispetto alle forme artistiche direttamente affacciate sul mercato. Oggi finalmente c’è una riflessione molto avanzata che parte in Italia soprattutto all’interno dei festival, in particolare grazie al lavoro fatto da alcune curatrici come Silvia Bottiroli, Francesca Corona, Piersandra Di Matteo. I festival sono sempre stati la punta più avanzata del sistema di produzione, promozione e ricerca, hanno avuto un ruolo essenziale nel definire lo statuto e le possibilità della visione per il pubblico. Un punto centrale è che i festival convocano, in uno spazio-tempo concentrato, uno spettro ampio di possibilità che riguardano la spettatorialità. Ci sono sempre più lavori che stanno incentivando un regime di spettatorialità emancipata, addirittura emancipata dalla presenza del performer, ma che mantengono un fortissimo ascendente teatrale, quasi brechtiano: penso in particolare a Nachlass dei Rimini Protokoll che è un dispositivo che lo spettatore accende e dal quale viene inghiottito. Il potere seduttivo che ha la performance in questo momento dipende anche dal fatto che convoca tutti questi piani».
C’è un altro elemento ancora che ci attrae e ci fa temere la performance: ci interroga la sua dimensione effimera, la quasi impossibilità a registrarla e archiviarla, chissà forse ci ricorda le nostre paure, legate a una sempre più difficile relazione con la memoria, la perdita dei dati, la nostra possibile deriva nell’Alzheimer.
«Mi sono occupata a lungo della relazione tra performance, archivio e memoria. Il primo riferimento per me è Peggy Phelan, che nel 1995 scrive un saggio dal titolo The ontology of performance. Representation without reproduction e in sintesi afferma che l’unica vita della performance è nel presente. La performance non può essere registrata, documentata, né far parte del dispositivo delle riproduzioni: quando lo fa, diventa altro. Non solo: quando lo fa, tradisce e svilisce la promessa della sua stessa ontologia. Peggy Phelan scrive questo testo alla fine del secolo scorso, quando la pervasività degli strumenti di registrazione era assai meno intensa di oggi.
Potremmo dire addirittura che la forza della performance consiste nel suo essere più veloce dell’archivio, così da sfuggire alle logiche della monumentalizzazione e della museificazione e uscire dal sistema di scambio. La forza della performance segue un destino biologico: passa. E nell’accettare questo essere transitorio, effimero, noi accettiamo qualcosa che è molto più della performance: è l’esistenza. È questo che ci seduce e ci respinge.
Herbert Blau, un altro teorico statunitense, sostiene che la performance sia una lunga iniziazione del corpo al mistero della sua scomparsa, e aggiunge: «Nella performance, come in amore, il soggetto è la sparizione». Ecco, io credo che in questo modo capiamo perché sia così importante il fatto che il suo archivio più potente sia a sua volta effimero, perché abita il corpo, la memoria privata, l’affetto dello spettatore che la incontra.
Per tornare alla questione della curatela, ricordiamoci che Renato Nicolini inizia il suo mandato da assessore alla cultura di Roma nel 1976 nel pieno degli anni di piombo, nella stagione più acuta della tensione. E per fessurare la paura di abitare le strade, di vivere le piazze, inaugura quella che verrà chiamata la stagione dell’effimero. Per me esiste una strategia comune: Nicolini pianta l’effimero nel cuore di quella città monumentale, eterna, iper-istituzionale che è Roma, la fa vibrare nella fragranza creativa, affermativa e plurale che sarà l’Estate Romana, fa tornare la gente in strada di notte, fa ricordare cos’è vivere. Se pensiamo al momento che stiamo attraversando, è davvero una lezione importante».
La performance ha travalicato i perimetri delle istituzioni d’arte, permettendosi di agire ovunque. Eppure, gran parte dei musei sembra tener stretto il proprio status e resiste a reinventarsi. A Venezia, persino un luogo che vibrava di contemporaneo, come Palazzo Fortuny, lo stanno trasformando in casa-museo, con un gesto platealmente reazionario. Lei crede che la performance possa avere il potere di riscrivere questi luoghi, di rifondarli?
«Ritengo che per le istituzioni dell’arte il ruolo del settore pubblico sia essenziale. Le istituzioni non sono corpi astratti, ma sono composte e agite dalle intelligenze e dalle volontà che le abitano. Bisogna ricordarsi che sono trasformabili, scrostare l’idea che siano necessariamente strumenti della conservazione. In questo senso è vero che la performance gode della possibilità di abitare qualunque spazio, ma ciò non dovrebbe essere una sorta di alibi per dire che il contemporaneo si fa altrove e non nei grandi musei o nei teatri nazionali. Credo sia importante per tutte le espressioni d’arte avere cittadinanza nei luoghi che vivono dei contributi pubblici e hanno dotazioni importanti in termini di strutture, infrastrutture e pubblico.
Le arti performative non sono destinate per loro vocazione alla marginalità e all’elitarismo, reclamano invece lo spazio pubblico, devono poterlo rendere elastico, attraversare, occupare, produrre una alter-istituzionalità, una possibilità istituente. Ciò non significa far tabula rasa della tradizione, ma non è accettabile che il contemporaneo diserti quei luoghi perché non invitato ad abitarli. E questo purtroppo avviene spesso.
Molto dipende dai singoli curatori e direttori: alcuni sono molto attenti, ma il panorama in generale è piuttosto desolante. Non possiamo non vedere la mappa delle direzioni teatrali dei Nazionali, ad esempio, guidati quasi esclusivamente da uomini, in molti casi in una fase finale della loro carriera. Questo produce un’uniformità, in termini generazionali e di genere, che non corrisponde a quanto si muove sulla scena e tra il pubblico. Quando nel 1999 la Schaubühne, uno dei teatri più importanti d’Europa, assegnò la direzione artistica collettiva a quattro trentenni, Thomas Ostermeier, Sasha Waltz, Jens Hillje e Jochen Sandig, investiva in figure che hanno avuto così lo spazio, le economie, il tempo e l’agibilità per diventare protagoniste della scena internazionale. In Italia, oggi, questo sembra impossibile, ma dobbiamo ricordarci che Giorgio Strehler aveva 26 anni quando fondò, insieme a Paolo Grassi che ne aveva 28, il Piccolo Teatro, il primo teatro pubblico italiano, grazie all’appoggio delle Istituzioni. Serve una potente immaginazione politica, un supporto collettivo, largo, investimenti importanti, visioni e fiducia perché artisti e curatori possano realizzare il loro potenziale».
A proposito di luoghi pubblici, lei cita spesso l’esperienza del Teatro Valle, come una sorta di spettro per le istituzioni italiane. Là abbiamo visto irrompere una soggettività nuova: rispetto alle occupazioni degli anni ‘90, qui sono le stesse maestranze a diventare soggetto civico. Dunque: quanto ha segnato l’esperienza del Teatro Valle? Non pensa che avremmo bisogno di un protagonismo civico capace di prendere parola e protagonismo dentro ai nostri teatri e musei?
«Vivevo negli Stati Uniti all’epoca dell’occupazione del Valle. L’ho frequentato ogni volta che sono tornata a Roma, ma non è un’esperienza che ho vissuto in prima persona. Una delle questioni straordinarie del Valle è la reazione contro il Valle: ha suscitato una tale valanga di passioni tristi, per usare Spinoza, che ci dà la misura di quanto sia stato importante. Capiamo cioè quanto sia stata sovversiva l’immaginazione istituente del Valle a partire dalle reazioni scomposte, le interrogazioni parlamentari, i muri che molte istituzioni hanno issato a propria difesa, contro un tentativo di articolare una dimensione orizzontale, democratica, partecipata che teneva al centro l’idea di bene comune. Sì, credo sia stato un tentativo diverso rispetto alle occupazioni che abbiamo vissuto negli anni novanta, perché nel caso del Valle l’obiettivo era in prima istanza la cura, da parte dei lavoratori e delle lavoratrici culturali, di un luogo che in quel momento veniva colpevolmente trascurato, marginalizzato e lasciato in uno stato di incuria dalle istituzioni pubbliche che ne erano responsabili. È stato un luogo di sperimentazione costituente che aveva l’ambizione di coniugare autonomia, cooperazione sociale e invenzione giuridica attraverso un “ottimismo delle pratiche” che cambiano il mondo rifacendolo. Ha formulato una possibilità così radicale da risultare intollerabile».
Lei parlava dei festival: su quali nuove frontiere si stanno posizionando? E quanto rimarranno segnati da questa impossibile prossimità imposta dalla pandemia?
«Se la performance, per la centralità che assegna al corpo, è il linguaggio artistico su cui più impatta l’epidemia, i festival sono le istituzioni più esposte. È significativo il carattere prefigurativo che è stato assegnato, a posteriori, alla Biennale Architettura di Venezia che, prima dell’emergenza pandemica, si era data quel titolo, How we will live together? con una lungimiranza in qualche modo scontata, perché sapevamo e sappiamo di vivere sul limite del collasso.
In questo senso la capacità dimostrata dai festival cinematografici di riorganizzarsi, grazie alle piattaforme e alla iper-digitalizzazione, è una forma di distrazione dal problema. Questo non è avvenuto per i festival musicali, teatrali, di danza e performance, ovvero per quegli eventi dove più si articola la connessione tra i corpi, perché non è in nessun caso possibile demandare alla fruizione personale nella nostra comfort zone casalinga.
I festival vivono di relazioni e sono proprio le relazioni la loro forza propulsiva. Nei festival sei subito messo a contatto con la temperatura del collettivo, con questioni che ci riguardano tutti: a che punto siamo? potremo ancora vivere insieme? come rendere tollerabile l’esistenza nel tempo del “distanziamento sociale”? Sono questioni che, ed esempio nello straordinario cinquantenario del Festival di Santarcangelo, curato da Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande di Motus, e titolato Futuro fantastico, sono state messe al centro stesso dell’evento, coinvolgendo artisti, ricercatori, lavoratori culturali, pubblico, cittadini. Al di là infatti di quello che i vari festival stanno articolando in termini di messa in sicurezza, tutti sanno che in questo momento il mandato è di ricostruire un modo di fruizione dal vivo della bellezza che sia abitabile in comune. Noi andiamo ai festival perché siamo attratti, come le falene dalla luce, dall’incontro collettivo con la bellezza, e la commozione che questo incontro produce viene straordinariamente potenziata nello spazio delle relazioni attivato dalla scena».
Qual è dunque l’idea e il senso del contemporaneo per questo mondo di arti performative?
«Ho difficoltà a dare una definizione univoca di contemporaneo. Penso che ci siano delle linee di tensione e di forza particolarmente magnetizzate a certe altezze cronologiche. Ci sono luoghi dove più vengono galvanizzate le energie, e che configurano linguaggi e forme che riconosciamo di volta in volta come “contemporaneo”. Sulla scena, mi pare che oggi una questione centrale sia non solo e non tanto la possibilità di trasgredire il regime della rappresentazione, ma l’implicazione o il tocco del reale.
Penso in particolare ai lavori di Romeo Castellucci, di Milo Rau, a quelli de El Conde de Torrefiel e ultimamente penso soprattutto a Manuela Infante. Tutti loro hanno la capacità di catturare in scena delle zone di mondo molto calde. Nelle Metamorfosi di Manuela Infante, ad esempio, troviamo una forma di prefigurazione del caso devastante di Sarah Everard all’interno di un dispositivo drammaturgico che porta a evidenza il carattere ricorsivo della violenza utilizzando Ovidio: questo, per me, è il contemporaneo».
Immagine di copertina: Romeo Castellucci, Il Terzo Reich – ph. ©Lorenza Daverio