Cosa significa, nella vita quotidiana, fare esperienza della prima pandemia della società dataficata?
Le forme di datafication della società durante la pandemia non sono tutte uguali e variano da paese a paese. Le preoccupazioni maggiori sulla datafication dei cittadini erano per la diffusione delle app di tracciamento e notifica dei contagi e per i rischi connessi con la privacy dei cittadini. Le persone si sono abituate passivamente alla sorveglianza da parte di aziende private multinazionali (Capitalismo della Sorveglianza, Zuboff 2019) ma hanno molti dubbi ad accettare il monitoraggio da parte del ministero della salute del proprio paese.
In Italia, come in molti altri paesi, sono nate molte polemiche attorno alla app di tracciamento. Alla fine la app – Immuni – è stata rilasciata il 2 giugno e in 8 giorni è stata scaricata da due milioni di cittadini italiani. Sembrerebbe una storia di successo, ma le cose sono più complicate. Gli esperti hanno sottolineato che ci sarà bisogno di almeno 30 milioni di download per far sì che la app sia utile ai fini del tracciamento dei contagi e ci sono molti dubbi sulla possibilità di raggiungere questi numeri, anche perché molti modelli di smartphone non la supportano (come ad esempio tutti i modelli precedenti all’Iphone 6s).
Il dibattito sulla app Immuni in Italia ha fatto emergere l’esistenza di due fronti contrapposti: i tecno-soluzionisti e gli apocalittici.
Da una parte coloro che credono ingenuamente di poter risolvere il problema del controllo dei contagi da Covid semplicemente facendo installare una app sui cellulari dei cittadini, dall’altra coloro che rifiutano qualsiasi forma di sorveglianza, salvo poi accettare senza discussioni quella di Facebook o Google.
Ma l’importanza dei dati durante la pandemia non è emersa solo in coincidenza del dibattito su Immuni.
Tutta la narrazione pubblica del periodo di lockdown è stata attraversata dalla retorica del dataismo, della fiducia cieca e incondizionata nei dati.
Ogni sera, alle 18.30, per due mesi, il capo della Protezione Civile Italiana andava in televisione a “dare i numeri” della pandemia: nuovi guariti, nuovi contagi, nuovi tamponi, nuovi ospedalizzati, nuovi morti rispetto al giorno precedente. Nonostante la dubbia affidabilità di quei dati (i morti, si scoprì in seguito, erano molti di più; i contagi erano dieci volte tanto, e le Regioni non fornivano dati in maniera omogenea), questa conferenza stampa si è da subito trasformata in un rito collettivo, un appuntamento da non perdere, come le conversazioni al caminetto del presidente Roosevelt alla radio, un vero e proprio “evento mediale” (Dayan & Katz 1992): la (macabra) Cerimonia della Pandemia. A questa cerimonia nazionale si affiancavano, in ordine sparso, altre micro-cerimonie mediali su base locale o municipale: sto parlando delle dirette su Facebook, You Tube e Instagram di decine di sindaci italiani, che, ispirandosi alla macabra cerimonia nazionale, ogni sera “intrattenevano” i propri concittadini raccontavano loro lo stato della diffusione del virus nel proprio comune, sempre attraverso i dati. E sempre i dati sono stati utilizzati per convincere i cittadini a restare a casa per “abbassare la curva”.
Ma se ci fermassimo qui, finiremmo per vedere soltanto una parte della storia, quella in cui i dati sono stati usati per costruire una narrazione pubblica accettata passivamente dai cittadini. Non è così, o per lo meno, non è stato per tutti così.
Fin dai primi giorni della pandemia e del lockdown, gruppi organizzati di cittadini si sono confrontati con i dati disponibili cercando di analizzarli insieme, trarre conclusioni differenti dalla narrazione ufficiale, o produrre nuovi dati.
Moltissime persone hanno aperto fogli Excel in cui scaricarsi i dati della Protezione Civile (messi a disposizione come Open Data) per provare a interpretarli autonomamente. Molti altri hanno creato gruppi Facebook per discutere questi dati, negoziandone il significato o contestualizzandolo rispetto ai dati assoluti. Qualcuno si è rivolto all’amico matematico, qualcun altro ha rispolverato le proprie vecchie conoscenze di statistica, altri invece hanno semplicemente letto con avidità le analisi condivise su questi neonati gruppi Facebook.
Da questo punto di vista, potremmo dire che il lockdown ha rappresentato un periodo di apprendimento collettivo sul ruolo dei dati nella società ed ha accelerato l’emergere o il diffondersi di pratiche di attivismo intorno ai dati, di giornalismo fatto con i dati e di open science.
Sul lato del data journalism, il giornale locale L’Eco di Bergamo ha fatto un importante lavoro di inchiesta, raccogliendo dati in maniera indipendente ed eleborando quelli già disponibili, che ha dimostrato che il numero dei morti in provincia di Bergamo, una città tra le più colpite in Italia dal Covid-19, era quasi il doppio di quello ufficiale.
Sul lato dell’open science e della citizen science, uno dei gruppi più attivi sulla rielaborazione, interpretazione e condivisione di dati sull’evoluzione della pandemia in Italia è stato il gruppo Facebook Dataninja, una community di nerd, giornalisti, cittadini, ricercatori, creata nel 2012 da un gruppo di giornalisti italiani interessati all’uso dei dati nell’informazione. Questa comunità che conta più di 3.000 membri, per due mesi ha prodotto una grande quantità di dati, grafici, tabelle “home made”, rappresentando uno sforzo collettivo per provare a dare senso a ciò che stava accadendo.
Oltre a gruppi e collettivi come quelli di Datanija, le bacheche Facebook si sono riempite di post fatti da singoli utenti che condividevano i loro calcoli, i loro grafici, le loro analisi di dati.
Sempre sul lato dell’open science, all’interno della comunità dei medici invece sono emersi altri progetti interessanti legati ai dati, come il Movimento Giotto a Modena, creato da un’associazione di giovani medici di famiglia italiani con lo scopo di costruire insieme un registro elettronico (un foglio Excel condiviso) dove raccogliere in un unico luogo tutti i pazienti sospetti Covid-19 ma non aventi criteri tali da essere candidabili a tampone e ad essere presi in carico dal Servizio di Igiene e Sanità Pubblica. Questa esigenza è stata sentita da diversi medici e mediche di famiglia, che, simultaneamente e senza confrontarsi tra loro, hanno creato strumenti “a bassa tecnologia” (fogli Excel o Word) molto simili, per tenere sotto controllo la situazione. Erano le prime settimane di emergenza e la situazione sul territorio era molto caotica.
Il progetto si è sviluppato in tre fasi principali:
- Prima fase: consultazione tra colleghi di varie regioni italiane (grazie alla rete del Movimento Giotto, associazione di giovani medici) per definire una prima versione del registro
- Seconda fase: un gruppo di circa 20 coppie tra medici in formazione in Medicina Generale ha provato lo strumento per una settimana e alla fine di questa, in seguito a reciproco confronto su punti di forza e criticità, hanno costruito la versione definitiva del registro;
- Terza fase: diffusione del registro a tutti i Medici di famiglia, grazie alla collaborazione dei responsabili delle Cure Primarie di Modena, e a colleghi di tutta Italia grazie alla rete dei medici del Movimento Giotto che hanno contribuito alla realizzazione.
Sul lato invece dell’attivismo dei dati, la ong Action Aid, fin dal 12 marzo, ha attivato una mappatura nazionale di tutte le iniziative solidali spontanee (come i volontari per fare la spesa agli anziani nelle varie città) e istituzionali, quelle di supporto psicologico, raccolta fondi, debunking di fake news e divulgazione di dati scientifici. L’idea (ed anche buona parte del progetto) è arrivata dello stesso team che aveva sviluppato il progetto TerremotoCentroItalia.
Il progetto consiste in una mappa interattiva in cui chiunque poteva segnalare e inserire iniziative solidali sul territorio italiano. Qui sotto potete leggere alcune delle iniziative inserite nella mappa:
“Cittadini e associazioni in rete COMBATTIAMO L’EMERGENZA! SE HAI BISOGNO, USCIAMO NOI PER TE
Spesa a domicilio in via S. Donato #Torino
Gruppo di ragazze residenti in palazzo a Torino Offerta di spesa a domicilio per persone over 70 residenti in palazzina ubicata in via S. Donato a Torino
A #LaSpezia i volontari Arci consegnano la spesa
Arci Canaletto
Grazie alla disponibilità di tanti volontari del quartiere portiamo la spesa agli anziani e a tutti coloro che è meglio che non escano di casa nemmeno per comprare i generi di prima necessità. Organizziamo una rete di volontari che con tutte le cautele aiuti chi è solo”
A Bologna invece, Kilowatt, una cooperativa di lavoro composta da diverse anime che operano nei settori dell’innovazione sociale, dell’economia circolare, della comunicazione e della rigenerazione ha dato vita al progetto “Passa il tempo, passa la bufera” , un esperimento di etnografia domestica a distanza, per stimolare un rituale di auto-osservazione collettiva.
Kilowatt ha raccolto dati di tipo qualitativo, tramite una serie di questionari online con domande a risposta aperta, rinnovati una volta a settimana per cinque settimane. Le persone che hanno risposto (circa 500) hanno fornito resoconti molto dettagliati della propria vita durante il lockdown, del cambiamento dei propri stati d’animo e delle loro nuove occupazioni domestiche. I dati raccolti sono stati poi tradotti in info-grafiche e diari collettivi (vedi immagini allegate), che hanno restituito un ritratto collettivo del clima domestico durante la pandemia.
Lo scopo di Kilowatt era provare a tenere il polso di quello che sta accadendo nelle nostre case e nelle nostre vite, accompagnandoci a una nuova normalità, uscendo dalle logiche della statistica e usando gli strumenti dell’etnografia”.
Ho parlato via e-mail con due degli ideatori del progetto, Anna Romani e Gaspare Caliri. Mi hanno detto che le risposte all’ultimo questionario hanno chiaramente confermato, allo stesso tempo, sia il bisogno degli altri che il bisogno di solitudine, come due sentimenti indivisibili e necessari durante l’isolamento. Hanno anche notato il timore degli intervistati che nulla cambierà: “c’è il timore che nulla cambi, lo si sente dire spesso, ma specialmente in relazione non solo a questioni macro, ma anche alla gestione individuale delle proprie giornate, dopo aver scoperto la fattura speciale del tempo lento, liberato, tempo da perdere, tempo per l’ozio, tempo per sé, per le persone care… Gaspare Caliri dice che: “siamo consapevoli che lo strumento di bordo (o sono remi?) che abbiamo confezionato con maggiore cura e attenzione è un rilevatore dei cosiddetti warm data, direbbe il Bateson Institute, ossia quei dati relazionali che danno senso (intelligibilità) a un sistema complesso e possibilità di apprendimento collettivo: quei dati dove la cosa importante è la connessione, non il punto.”
In altre parole, l’etnografia domestica è stata impiegata come una “tecnologia del sé” (Foucault 1988): l’attività di prendersi cura di sé durante il lockdown è passata attraverso la generazione individuale e l’analisi collettiva di dati qualitativi (i diari).
Questi esempi che ho riportato qui sono soltanto la superficie di un processo di domesticazione dei dati all’interno della vita quotidiana durante la pandemia e sono significativi perché mostrano, almeno da parte di alcune formazioni sociali, la capacità e la volontà di esercitare agency nei confronti dei dati prodotti dalle istituzioni e narrati dai media. Questi esempi manifestano il bisogno di negoziare, appropriarsi, rielaborare, a volte anche in chiave oppositiva, i dati che arrivano dall’alto e produrne, in alcuni casi, di nuovi.
Il processo collettivo di conoscenza di questo nuovo virus si è fondato molto sui dati disponibili e sulla loro interpretazione. Ma quello che ho voluto mostrare qui è che molte iniziative private e collettive provenienti dalla società civile hanno sottratto, almeno in parte, il monopolio della produzione, analisi e verifica dei dati da parte delle istituzioni. Inoltre, questi esempi forniscono anche la prova che non tutte le formazioni sociali hanno aderito alla fede cieca nei dati e nella tecnologia come soluzione alla crisi del Covid.
Il post originale è stato pubblicato sul blog del progetto di ricerca Big Data From the South, nella sezione “Covid-19 from the margins”. Il Big Data from the South Initiative è un progetto di ricerca avviato da Stefania Milan ed Emiliano Treré ed è pensato come uno spazio per lo scambio teorico ed empirico sulle sfide della datafication e della raccolta massiccia di dati che si svolgono nella pluralità di Sud che abitano il nostro mondo sempre più complesso