L’homo digitalis immerso nell’enorme frastuono dello sciame

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    Lo sciame, si legge sul Sabatini Coletti, dizionario della lingua italiana, è per prima cosa un «insieme di api che migrano con una regina da un alveare troppo popoloso per costituire una nuova colonia», ma figuratamente anche una «moltitudine di persone o di cose, in movimento disordinato». Il fatto di essere una «moltitudine» non dice molto sull’oggetto; è infatti il disordine, l’attributo del suo movimento, a essere decisivo, l’elemento differenziale, ciò che distingue lo sciame dalle altre aggregazioni di persone o di cose, ciò che lo rende un oggetto vago e sfuggente.

    Lo sciame è la metafora che dà titolo a un libro del 2013 – ma uscito il 24 aprile in Italia per nottetempo, nella traduzione di Federica Buongiorno – di Byung-Chul Han, professore all’Universität der Künste di Berlino, classe 1959, nato a Seul, in Corea del Sud (dove ha studiato metallurgia), e trasferitosi in Germania negli anni Ottanta per dedicarsi alla filosofia, alla letteratura tedesca e alla teologia cattolica.

    Nello sciame. Visioni del digitale riprende, ripete e approfondisce alcuni temi già discussi da Han in alcuni suoi libri recenti. Eccetto Razionalità digitale, edito dalla start-up editoriale goWare in formato eBook, fanno tutti parte del catalogo nottetempo: La società della stanchezza (2012), che criticava – nel senso analitico kantiano di distinguere e giudicare – la trasformazione dell’uomo e della società a partire dai “nuovi” disturbi della psiche (depressione, sindrome da deficit di attenzione, disturbi borderline e sindrome da burnout); Eros in agonia (2013), che puntava allo stesso bersaglio ma dal versante sessuale, nel senso di una stereotipia e di un «addomesticamento» del desiderio; infine La società della trasparenza (2014), che allargava il discorso all’ambito comunicativo e dell’informazione.

    Con la consueta capacità di sintesi (nessuno dei libri citati supera le cento pagine), attraverso uno stile chiaro e apodittico, interrogando le parole, la loro origine e il loro significato (l’uso dell’argomento etimologico rimanda chiaramente a Heidegger, al quale Han ha dedicato diversi studi a partire dalla tesi di dottorato), Nello sciame si pone il compito di descrivere il nuovo tipo umano, l’homo digitalis, nella sua evo- (ma sorge il dubbio che si intenda una invo-) luzione, definendolo a partire dalla differenza dal suo antenato, il «Nessuno massmediatico».

    Se il Nessuno massmediatico è passivo (ascolta la radio, guarda la televisione) e non reclama attenzione, l’homo digitalis invece si espone (in Rete e in modo particolare sui social network) e ambisce all’attenzione, si staglia all’orizzonte digitale col suo «profilo» e «lavora senza posa all’ottimizzazione di sé. Invece di essere “Nessuno”, è insistentemente Qualcuno (…) e precisamente un Qualcuno anonimo».

    Il metodo della definizione per differenza è applicato in tutto il testo ed è di norma nello stile argomentativo di Han. Come l’homo digitalis si riconosce nel superamento del Nessuno massmediatico, così lo sciame digitale si distingue dalla «massa», dalla «folla» novecentesca per la mancanza di un’«anima» o di uno «spirito»: «Allo sciame digitale manca l’anima della folla o lo spirito della folla: gli individui che si uniscono in uno sciame non sviluppano un Noi. (…) Al contrario della folla, lo sciame digitale non è in sé coerente: non si esprime come una sola voce».

    Né con una sola né con tante singole voci: il medium digitale, «che separa il messaggio dal messaggero», è caratterizzato da una perdita della fiducia intesa come una «fede nel nome», esso insinua anzi il dubbio proprio sul nome, quando addirittura non incoraggia la comunicazione anonima. Al nome è vincolato il rispetto, mentre rispetto e anonimità si escludono a vicenda.

    La società in cui viviamo è del resto, scrive Han, «priva di rispetto reciproco». Manca il rispetto laddove viene meno la distanza. «La distanza è ciò che distingue il respectare dallo spectare»: il rispetto «presuppone uno sguardo distaccato», riguardoso; tipica dello spettacolo è invece una visione voyeuristica, «cui manca il riguardo distaccato».

    La tecnica ha promosso insomma una metamorfosi della struttura della relazione, dunque della comunicazione. Questa metamorfosi è alla base di fenomeni come la shitstorm (letteralmente «tempesta di merda», o «tempesta di sterco» per i palati più fini), su cui Han nel particolare si sofferma, «termine inglese, ormai diffuso come anglicismo nella lingua tedesca» spiega Federica Buongiorno, «con cui si indica il fenomeno in rete (soprattutto nei blog e sui social network) di discussioni e critiche massive attorno a questioni di dominio pubblico, con l’uso di linguaggio fortemente connotato in senso negativo e talvolta violento».

    È sotto gli occhi di tutti, o di chi non vuol girarsi dall’altra parte, la doppia shitstorm, da “destra” e da “sinistra” (con tutte le virgolette del caso), scatenatasi dopo la notizia della morte per naufragio, nel Canale di Sicilia, di 700 emigranti: prima gli insulti sparsi contro gli emigranti e poi gli insulti, se possibile ancora più inquietanti, contro coloro che avevano insultato gli emigranti e concentrati sulle loro bacheche personali, di Facebook o Twitter (si legga al proposito questo articolo di Sergio Baratto).

    L’esito più evidente, il lato esibito di tutta questa faccenda è la rinuncia all’abitudine della riservatezza, una «virtù obsoleta» stando ai termini usati da Jonathan Franzen in «Imperial bedroom», un articolo uscito il 12 ottobre 1998 sul New Yorker e riconfluito nel 2002 nel volume How to be alone (Come stare soli. Lo scrittore, il lettore e la cultura di massa, traduzione di Silvia Pareschi, Einaudi 2003): «i commessi danno unilateralmente del tu ai clienti, i camerieri non ti portano da mangiare finché non entri in confidenza con loro, l’audiomessaggeria sottolinea la prima persona in: “Sono spiacente, ma non capisco il numero che ha digitato”, e i cyber entusiasti, con un termine improprio particolarmente grottesco, designano come “forum pubblici” i frammenti di silicio trattato con cui un “partecipante” al forum può comunicare mentre siede, non sbarbato e gambe incrociate, fra lenzuola aggrovigliate. Il mondo in rete come minaccia della privacy? Siamo di fronte all’orribile spettacolo di una privacy trionfante».

    Il dileguarsi della riservatezza, secondo Franzen, si esprime inoltre nel telelavoro che «porta la sala riunioni in camera da letto», e nel «moderno design soft per l’ufficio» che «porta la camera da letto in sala riunioni». Quello del lavoro è un campo cruciale anche per l’analisi di Han. Ce lo portiamo ovunque, anzi peggio: non possiamo più sfuggire, al lavoro: esso assorbe ogni pausa, persino il sonno.

    È un aspetto già descritto in La società della stanchezza: «in luogo del divieto, dell’obbligo o della legge, subentrano il progetto, l’iniziativa e la motivazione». «Al nuovo tipo umano, che è inerme in balia dell’eccesso di positività, manca ogni sovranità (…) è quell’“animal laborans” che sfrutta se stesso del tutto volontariamente, senza costrizioni esterne. Egli è al tempo stesso vittima e carnefice». «Il lamento dell’individuo (…), “niente è possibile”, è concepibile soltanto in una società che ritenga che “niente è impossibile”». «Il suo plurale collettivo, nell’affermazione “Yes we can”, esprime appunto il carattere di positività della società della prestazione».

    Anche in questo caso l’analisi è impeccabile, si mostra valida però soltanto per le professioni intellettuali: Han dimentica quell’enorme numero di lavoratori che in Occidente, e ancor di più nelle nazioni extra occidentali, prima di iniziare il turno depositano ancora il proprio smartphone nell’armadietto così come, al termine del turno, lasciano il lavoro fuori dalla porta di casa.

    Commentando Vilém Flusser, Han profetizza il tramonto dell’homo faber a favore dell’homo ludens, colui che lavora non più con le mani, ma con le dita. «L’uomo del futuro, “che gioca con le dita, senza mani”, l’homo digitalis non agisce. L’“atrofia delle mani” lo rende incapace di agire. Tanto la manipolazione quanto la lavorazione presuppongono una resistenza: anche l’azione deve superare una resistenza. Essa contrappone l’Altro, il Nuovo, a ciò che è dominante: in essa è insita una negazione. Il suo pro è contemporaneamente un contro. L’odierna società positiva, invece, rifugge ovunque tutte le forme oppositive e così elimina le azioni. In essa dominano unicamente diversi stati dell’Uguale».

    «Digitale» deriva da «digitus», dal «dito» che «conta»: oggi – scrive Han – tutto è contabile, sottomesso alla logica dell’«addittivo». Viene meno il tempo del racconto, l’attesa si brucia nell’ansia della presenza e il ricordo sfuma e si deforma sotto la mole di informazioni con cui i media – ma soprattutto la Rete – sovraccaricano la nostra percezione. Al «raccontare» si sostituisce così il «contare», alle storie gli elenchi (e si pensi ai format del duo Fazio-Saviano: Vieni via con me, del 2010, su Raitre, e Quello che (non) ho su La7, nel 2012), alla teoria l’analisi dei Big Data (secondo una previsione ormai classica, ma non abbastanza verosimile da potersi avverare).

    Han introduce l’argomento della «fine della teoria» citando l’omonimo articolo di Chris Anderson uscito il 16 luglio 2008 su Wired. Lo stralcio si conclude con queste parole: «Con una quantità sufficiente di dati, i numeri parlano da soli». Eppure la linguistica, la sociologia, la tassonomia, l’ontologia, la psicologia – ovvero le discipline elencate da Anderson – non sembrano ancora in grado di affrancarsi dai modelli teorici. È la politica la disciplina che vive invece già da tempo, e silenziosamente, o per meglio dire tanto rumorosamente da farsi schermo col chiasso retorico che produce, nell’assenza di teoria.

    Per convenienza o per decadenza, la politica rinuncia a progettare, a preparare la società al futuro; sceglie di modellarsi sul desiderio di un pubblico, servendosi dei sondaggi come l’economia si serve delle ricerche di mercato. Il suo linguaggio, assecondando il suo mutamento, passa dall’imitazione alla produzione scientifica di quelle strategie di marketing un tempo appannaggio del commercio. Anche in politica, la comunicazione tende insomma a invadere per gran parte il campo dell’azione, secondo un movimento che porta la sostanza a disgregarsi dietro la forma.

    L’ultimo capitolo di Nello sciame, intitolato «Psicopolitica», anticipa il movimento dell’ultima raccolta di saggi di Han, inedita in Italia, Psychopolitik: Neoliberalismus und die neuen Machttechniken (S. Fischer Verlag, 2014; nottetempo, che ne ha affidato come per i precedenti la traduzione a Federica Buongiorno, lo proporrà nel 2016). Scrive il filosofo: «La possibilità di ricavare modelli comportamentali delle masse dai Big Data annuncia l’inizio di una psicopolitica digitale».

    Da una parte la connessione alla Rete moltiplica la mole di dati sui singoli utenti e a disposizione dei singoli utenti, con un effetto bulimico su di essi, che toglie significato e utilità alla «fiducia come pratica sociale»; dall’altra l’analisi di quei dati «rende visibili modelli di comportamento collettivi dei quali, come singoli, non siamo mai consci». Lo psico-potere ha così accesso a una speciale forma di inconscio collettivo: l’«inconscio-digitale». Esso «sorveglia, controlla e influenza gli uomini non dall’esterno, ma dall’interno».

    Lo scenario descritto da Byung-Chul Han appare a questo punto distopico, se non addirittura apocalittico, ma nonostante tutto terribilmente credibile. A renderlo tale non è il potere persuasivo della sua argomentazione né il suo tono, sobrio e misurato fino all’ultimo. La preoccupante credibilità del discorso muove dal dubbio che senza regole, condivise o meno che siano, l’«enorme frastuono» che Michel Butor attribuiva ai nuovi mezzi di comunicazione, seppur «degni di ammirazione», possa realmente sfuggire al controllo non solo dei controllati, ma anche dei presunti controllori.

     

    Foto di Markus Spiske su Unsplash

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