Come le smart city possono diventare il nostro peggiore incubo
Benvenuti a Songdo, Corea del Sud: una tecno-utopia sotto forma di metropoli in cui tutti gli edifici sono forniti di accesso computerizzato e controllo automatico del clima. In cui le strade, i rifiuti, la rete elettrica e l’acquedotto sono dotati di sensori che raccolgono dati, a loro volta analizzati dal cervello elettronico – lo U-city operation center – che gestisce la città e ha il compito di tracciare tutto ciò che qui avviene.
Ogni fermata del bus, ogni semaforo, ogni palazzo è dotato di schermi, dal quale ottenere informazioni dettagliate e aggiornate in tempo reale sull’andamento della metropoli. Songdo, un progetto nato nel 2006, avrebbe dovuto essere una sorta di vetrina luccicante della città del futuro, da completare entro il 2022. Peccato che, nel frattempo, il sogno che viveva nei rendering e nei modelli 3D si sia trasformato in un incubo.
Un incubo prima di tutto logistico: le tempistiche per il completamento continuano a slittare, il budget per la realizzazione viene sforato in continuazione (si sono già spesi oltre 35 miliardi di dollari) e dei 65mila abitanti previsti ne sono per ora arrivati solo 40mila; con il risultato che chi vive in questa città avverte un continuo senso di spaesamento (un abitante l’ha paragonata a Chernobyl, per dire). Una desolazione che, in un periodo in cui anche la Corea del Sud è alle prese col Coronavirus, diventa impressionante.
Ogni fermata del bus, ogni semaforo, ogni palazzo è dotato di schermi
Se non bastasse, nell’ideazione di una smart city così attentamente pianificata e digitalizzata, i costruttori si sono dimenticati che le città dovrebbero anche avere un’anima: “Definirei Songdo non tanto una città quanto una gigantesca operazione di sviluppo immobiliare”, raccontava qualche tempo fa Carlo Ratti, architetto e docente al MIT di Boston. “Songdo è un luogo sterile, dove ogni aspetto della vita sembra programmato”.
Tutti i movimenti dei cittadini sono in effetti monitorati attraverso sensori sparsi in ogni dove, che raccolgono dati di qualunque tipo senza che si abbia una chiara idea di chi li utilizzi e cosa ne faccia. Altro che utopia, Songdo rischia di passare alla storia come un monito, di cosa può avvenire quando si dà troppa corda alle presentazioni fatte da immobiliaristi e addetti al marketing dei colossi digitali.
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Un monito da tenere ben presente visto che, per esempio, il primo ministro indiano ha promesso di costruire almeno “100 smart city” in tutta l’India, che lo stesso sta (inevitabilmente) avvenendo in Cina e che anche in Occidente si lavora per trasformare in smart city città come Londra, New York, San Francisco, Barcellona e anche Milano.
Ma che cosa significa davvero smart city? Prima di tutto, come spesso avviene in questi casi, dietro il termine si cela un famigerato storytelling: se queste città sono intelligenti, significa che le metropoli in cui viviamo oggi non lo sono. E c’è forse qualcuno che vuole vivere in una città stupida? Il sogno venduto è quindi quello di una smart city efficiente, sicura, funzionale; perfino ecologica grazie ai minori consumi garantiti da un uso razionale delle risorse, dalle colonnine per le auto elettriche, dal car sharing e dal trattamento avveniristico dei rifiuti.
La vera cifra distintiva è però un’altra: l’utilizzo dei big data. “La smart city promette di rafforzare la pianificazione urbana trasformandola nello snodo cruciale di dati raccolti in tempo reale su ogni aspetto del funzionamento delle città (e dei suoi abitanti), ottimizzando l’infrastruttura urbana attraverso sensori piazzati ovunque e tutti connessi a un computer centrale”, racconta su Real Life Jathan Sadowski, ricercatore all’università di Sidney e autore di Too Smart.
Chi raccoglie questi dati? Chi li analizza e li sfrutta per fornire servizi sempre più efficienti? Non certo il municipio, che non possiede gli strumenti e le competenze per svolgere un lavoro dal tasso tecnologico incredibilmente elevato. A fare tutto ciò sono invece i colossi digitali: i pionieri come IBM e Cisco, le startup come Sidewalk Labs e i fornitori di servizi come Amazon e Google. Sono le aziende private che hanno nella raccolta dati il loro modello di business quelle che “stanno costruendo la narrativa – rivolta simultaneamente a urbanisti, politici e cittadini – sulla crisi della città tradizionale, i cambiamenti necessari e i benefici che si avranno lasciando che siano le grandi aziende a prendere le redini”.
Il problema è capire chi ci guadagna a vivere in una città ricoperta di sensori per la raccolta dati
Il problema, quindi, è capire chi ci guadagna a vivere in una città ricoperta di sensori per la raccolta dati elaborati da un cervellone informatico. Per i cittadini, la vita potrebbe effettivamente diventare un po’ più semplice: i cassonetti avvisano quando sono pieni permettendo di pianificare gli interventi dei camion per la raccolta rifiuti, i semafori si adeguano all’andamento del traffico per renderlo più scorrevole, i sensori segnalano se ci sono perdite nell’acquedotto. Tutte innovazioni utili.
“Uno sguardo più attento all’insieme delle tecnologie e delle politiche associate con le smart city suggerisce però un obiettivo ben diverso”, prosegue Sadowski. “Queste tecnologie trattano la città come un campo di battaglia, riutilizzando sistemi informatici originariamente creati per scopi di difesa. Sensori, videocamere e altri sistemi di controllo raccolgono intelligence in maniera quasi militare”.
È esattamente quanto sta avvenendo in Italia, dove parlare di smart city è ormai quasi sinonimo di sorveglianza. L’esempio più evidente è quello di Dario Nardella, sindaco di Firenze che sul finire di dicembre ha entusiasticamente dichiarato che nella sua città era appena stata installata la telecamera numero mille, aggiungendo inoltre: “Ora avanti con la sperimentazione della control room attraverso il nuovo software, modello Tel Aviv, che rileva azioni sospette pur rispettando la privacy dei cittadini”. Ovviamente, non si sono fornite troppe spiegazioni su come sia possibile conciliare sistemi di questi tipo con la privacy dei cittadini.
Il primo cittadino di Firenze non è comunque l’unico a essersi fatto decisamente prendere la mano dalla sorveglianza resa possibile dalle nuove tecnologie smart. Il sindaco Chiara Appendino ha per esempio dichiarato che Torino “sarà la prima città in Italia a sperimentare i droni per servizi di tutela del territorio”. Grazie ai droni, come ha spiegato l’assessore all’Innovazione di Torino Marco Pironti, “se un cittadino va a correre al mattino al Parco Valentino, sa che c’è qualcuno attraverso quel drone che lo protegge”. Già, ma lo protegge da che cosa?
A meno che non si decida di armarli, i droni non possono ovviamente impedire i crimini. Anche solo affinché riprendano un’aggressione nel momento stesso in cui avviene, è necessario che i droni siano in azione nel preciso momento e nel luogo esatto in cui il reato sta accadendo. Per far sì che abbiano una qualche utilità, le opzioni sono quindi due: concentrare i droni in un luogo specifico come può essere il parco del Valentino (come se i criminali non potessero spostarsi semplicemente altrove) o disseminare la città di migliaia di droni, con costi insostenibili e un impatto psicologico ancora tutto da valutare.
La sensazione, quindi, è che la maggior parte di questi sistemi non vengano impiegati per i cittadini, ma sui cittadini, dispiegando in maniera quasi strisciante strumenti che promettono sicurezza ma garantiscono solo sorveglianza. Un esempio ancora più sottile di quella che Sadowski chiama la captured city è Ring, il citofono smart di Amazon che viene venduto non solo ai condomini che lo vogliono utilizzare, ma anche alle forze dell’ordine delle città che si occupano poi di diffonderlo – spesso attraverso le associazioni di quartiere – agli abitanti. Ring è in grado di riprendere costantemente cosa avviene davanti alle nostre abitazioni (e anche al loro interno) e di condividere queste informazioni con i vicini che utilizzano l’applicazione Neighbors by Ring; informazioni a cui hanno accesso anche Amazon e le forze dell’ordine che hanno stretto una partnership con Amazon.
La sensazione è che la maggior parte di questi sistemi non vengano impiegati per i cittadini, ma sui cittadini
Promette sicurezza, ma Ring è in realtà uno strumento per la sorveglianza che decidiamo volontariamente di mettere nelle nostre stesse case; fornendo alla polizia e a un colosso come Amazon un buco della serratura privilegiato dal quale osservare la nostra quotidianità. Sposando la logica del “chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere” diventa accettabile che la sorveglianza arrivi all’interno delle nostre stesse abitazioni (e pazienza se i video del nostro salotto o degli amici che citofonano a casa nostra finiscono su Facebook).
Da una parte, quindi, c’è la questione cruciale di chi utilizza i dati raccolti all’interno delle smart city e che ne uso fa. Dall’altra c’è il fatto che – attraverso la graduale normalizzazione della sorveglianza – si rischia di fare la fine della Cina, dove oggi è necessario sottoporsi al riconoscimento facciale anche per fare un abbonamento telefonico e dove chi attraversa la strada al di fuori delle strisce pedonali si ritrova il volto, con tanto di nome e cognome, proiettato sui maxischermi.
La raccolta dati della smart city, che nei depliant degli addetti al marketing ha lo scopo di rendere più efficienti i semafori e la raccolta dei rifiuti, si trasforma quasi naturalmente nel controllo degli abitanti. E questo non avviene solo in Cina: “Non bisogna fare altro che guardare al centro nervoso tecnologico che la IBM ha costruito a Rio de Janeiro per vedere come questa visione da 1984 abbia già preso spaventosamente forma”, si legge sul Guardian. “Ciò che era nato come uno strumento per prevedere la pioggia e reagire alle inondazioni si è trasformato in un pannello di controllo ultrapreciso che monitora tutta la metropoli. Questo centro operazioni consente di sorvegliare ogni angolo della città”.
Una città, insomma, in cui scomparire diventa impossibile: “Se possiedi uno smartphone, e i sensori sono piazzati nei posti giusti, è già stato dimostrato che è possibile seguire ovunque i singoli individui”, prosegue il Guardian. “E non c’è nulla che impedisca di visualizzare i movimenti in stile SimCity, osservando un avatar che si muove lungo la città, magari controllando nel frattempo i suoi profili social. Una volta che si ottiene una visualizzazione simile a un videogioco è davvero facile vedere dove uno vive, dove lavora, dove si trova con gli amici per bere”.
Vogliamo davvero un luogo in cui gli abitanti diventano dei pixel in movimento?
E così, le smart city pubblicizzate come verdi, tecnologiche, sostenibili e a misura d’uomo si trasformano in uno strumento in cui un ruolo sproporzionato lo gioca la raccolta dei dati, forniti direttamente dai cittadini ma monetizzati da aziende private. La città del futuro che vogliamo è davvero un luogo in cui gli abitanti diventano dei pixel in movimento, visualizzati su una mappa digitale, che si recano al lavoro, fanno acquisti e tornano a casa in un ambiente rigidamente organizzato? In cui tutto è programmato, sorvegliato e analizzato? Come ha segnalato l’architetto Rem Koolhaas “promuovendo la sicurezza, la città è diventata meno avventurosa e più prevedibile. (…) Dov’è la possibilità della trasgressione?”. La situazione non potrà che peggiorare se davvero si realizzerà un’altra grande promessa delle smart city: le auto autonome.
La tecnologia dell’intelligenza artificiale, almeno per il futuro in vista, può gestire solamente delle self-driving car che si muovono in spazi in cui le incognite sono relativamente ridotte, come le autostrade. A oggi, è impossibile per loro districarsi tra vicoli, pedoni che attraversano ovunque, biciclette, auto in doppia fila, tram, motorini e quant’altro. Se davvero si vuole che le auto autonome circolino per le metropoli, c’è un solo modo: intervenire pesantemente sulla pianificazione urbana.
Lo ha ammesso lo stesso Andrew Ng, uno dei pionieri dell’intelligenza artificiale, spiegando che per aiutare le auto autonome a muoversi in città sarà necessario modificare una parte delle infrastrutture, ma soprattutto il comportamento dei pedoni e degli altri utenti della strada, in modo che le loro azioni siano facilmente interpretabili dagli algoritmi alla guida dei veicoli. E così, ha segnalato l’esperto del settore Christian Wolmar, “gli spazi aperti che le città vogliono incoraggiare potrebbero sparire, lasciando il posto alle barricate. E la circolazione dei pedoni andrà controllata con un autoritarismo degno di Singapore”.
Invece di vivere in città intelligenti, il rischio è di rinchiuderci di nostra spontanea volontà in compound recintati, sorvegliati e ultra razionali. Non esattamente la realtà che viene propagandata nei rendering.