Rosetta è buona come il pane

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    Se penso a come il cibo ha attraversato la mia vita, e quanto ho capito di ciò che ero e della mia famiglia da quello che avevo mangiato nella mia infanzia, mi sorprendo ancora oggi. Da piccola passavo molti dei miei pomeriggi dai nonni materni, Nella e Augusto, lui, per tutti,“Gusto dl’Omo”. Entrambi contadini, avevano attraversato la carestia, l’alluvione del Po, il lavoro emigrante delle risaie in Piemonte, la lenta rinascita.

    Tutta quella storia era racchiusa nel gigantesco freezer che occupava parte del garage -sempre chiamato “friger” o “frigider”- in cui venivano stipate batterie di faraone spellate e tagliate a pezzi, parti di maiale, verdure. Quel blocco plastico e rumoroso rappresentava la fine della carestia: era uno di quei freezer che si aprono dall’alto, e che richiedono di piegarsi a mezzo busto per raccogliere i prodotti più in fondo. Ogni volta che dovevo recuperare qualcosa, io, ancora piccola, mi congelavo.

    I miei nonni vivevano quasi in modo autarchico. C’era l’orto, con patate, zucche, zucchine, melanzane, cavoli, radicchi, pomodori; c’era il granoturco e la farina gialla, per la polenta quotidiana; c’era il pollaio con galline, faraone, galli e uova; c’era l’uva del vigneto; c’erano i piccioni della caccia; i pesce-gatti, le alborelle, le tinche; c’era il maiale ucciso una volta l’anno, attorno all’inizio gennaio, di cui non si buttava via niente (e si congelava la gran parte).

    La mia merenda di bambina, soprattutto se malaticcia, era composta da polenta, burro e zucchero, e da acqua, vino e zucchero. A questa educazione alimentare che prevedeva varietà, grassi saturi, e soprattutto abbondanti quantità, si univa la visione rampante e consumistica dei miei genitori. Nella mia casa, sebbene abitassimo solo in tre, erano presenti tre frigoriferi, un freezer e due dispense. Mio padre sosteneva che fosse dovuto alla sua infanzia, mia nonna Egle aveva un negozio di generi alimentari, ed era convinto che avere sempre una infinita possibilità di scelta tra gli alimenti fosse fonte di felicità. Una volta mi capitò di contare in un cassetto quindici scatolette di tonno differenti, per qualità e varietà: dal piccante al trancio, dalla ventresca al tonno del Cantabrico, dalla versione al naturale a quella invece pinne gialle.

    Il tonno era solo uno degli elementi in sovrabbondanza; il corrispettivo del freezer dei miei nonni, per la generazione dei miei genitori, era rappresentato dal forno a microonde, pendant perfetto per la scongelazione e l’impiattamento. Così, sebbene potessimo mangiare quotidianamente cibo fresco, spesso acquistato dai vari produttori (si andava di volta in volta a casa delle persone che possedevano le fragole, i meloni, le zucche migliori), molte volte questi prodotti venivano congelati e poi direttamente scongelati al microonde e serviti.

    La smania del consumo, unita all’assenza e alla privazione, avevano prodotto un mix di spreco, pigrizia e abitudine difficilmente sradicabili. A questo, si aggiungeva l’affidamento alla marca, ritenuta una garanzia inconfutabile di qualità, e la sperimentazione di nuovi prodotti.

    Questo percorso accidentato, mi ha comunque permesso di scoprire -grazie alla curiosità enciclopedica che si riversava anche nella ricerca alimentare- pietanze difficili da digerire ma che fanno parte mia personale weltanschauung ai fornelli: come la salama da sugo (vescica di maiale ripiena di carne e vino lessata per sei ore e servita al cucchiaio), i turcineddhi (spiedini di interiora di agnello con alloro e pecorino cotti alla brace), il friggione (salsa di grasso di maiale, pomodori freschi e cipolle) e la pearà (crema di midollo, pane e abbondante pepe).

    Ma tutto questo sarà sempre sostenibile? Come siamo arrivati a crescere e ad alimentarci così? Sicuramente c’erano delle specifiche biografiche e delle anomalie locali, ma più in generale, negli anni ottanta, non c’era ancora una riflessione sul cibo come risorsa, in grado di tenere conto delle valenze politiche, ambientali e culturali che le scelte alimentari comportano. Mike Bongiorno promuoveva dadi, minestre liofilizzate, e tortellini “sfoglia velo” prodotti su larga scala da un bonario signore veronese; l’hamburger era uno status culturale ancorché sociale che caratterizzava diete e risvolti dei pantaloni.

    Anche le pizzerie di provincia, a poco a poco, avevano iniziato ad introdurre la rucola, a togliere il pomodoro per delle esotiche “pizze bianche”, le nostre comunioni e cresime (perché in Veneto allora eravamo tutti cattolici) si contraddistinguevano per la presenza fissa di voulevant, crespelle ai funghi, filetti con salse e torte profiterole.

    Il cibo, i nostri consumi soffrivano di un’egemonia culturale, e se con la giusta distanza temporale riusciamo a valutarne le contraddizioni, spesso non ne leggiamo le stesse storture nel presente. Eppure, dal nulla, abbiamo iniziato a ritrovare sempre più di frequente colature di alici di Cetara, ad ordinare tartare di sola mucca fassona piemontese, a leggere la un tempo tipicissima burrata pugliese anche nelle cave di Belleville, a ingurgitare per la longevità bacche di goji e a consumare avocado, sempre e comunque.

    A prestare un’attenzione estetica, prima che etica, a come ci alimentiamo, ai sapori, alle filiere. Sebbene ci sia un cambiamento in corso, le informazioni che possediamo davvero su ciò che mangiamo, sulla provenienza, sulle sue traiettorie e su quali retoriche ne hanno condizionato la scelta sono ancora scarse. Eppure la produzione culturale sul tema del cibo è aumentata esponenzialmente, così come la ricerca e la cura rispetto all’alimento come prodotto, come merce.

    Basta viaggiare per capire come da una parte le scelte alimentari si stanno iniziando a somigliare (i mercati alimentari dei quartieri gentrificati di Città del Messico ricordavano molto Borough Market, ma lo stesso Mercato Metropolitano di Milano) dall’altra come la grande distribuzione racconti tanto dei luoghi, della sovrastruttura e della struttura (giusto a titolo di esempio, la vendita di uova in confezioni da 54 nei Monoprix di Tunisi spiega moltissimo la relazione tra cibo, capacità economica e possibilità di scelta).

    A distanza di due anni dall’Expo, che ha rappresentato molte delle contraddizioni alimentari del presente, pensiamo che sia importante una riflessione che metta in fila i differenti tasselli, e il legame tra narrazioni, produzioni, territori e consumi.

    Nello spettacolo teatrale “Virgilio Brucia” della compagnia Anagoor, la caduta di Troia viene rappresentata con una serie di filmati che raccontano di colture intensive, di allevamenti spregiudicati, di sfruttamenti di animali e cicli vitali. Consapevoli dell’allegoria sottesa, però riteniamo che parlare di cibo, oggi, sia sempre più politico, perché le terre hanno un limite, e il cambiamento climatico rende necessaria una riflessione programmatica che non sia solamente una pratica di gusto e di tradizione.

    Allo stesso modo, proprio per la centralità che il cibo svolge, la speculazione finanziaria che accompagna la sua produzione e distribuzione sia su scala globale che su quella locale influenzano i consumi così come trent’anni fa avevano inciso sugli acquisti dei miei genitori.

    Dalla grande distribuzione al cibo di qualità, dalle scelte legate alla provenienza alla gestione delle risorse dei territori, sono molte le sfide che questo tema apre, e le questioni non solo estetiche ma soprattutto etiche e politiche.

    Proprio perché Rosetta parte da una riflessione sulla cittadinanza sociale parlare di cibo diventa tema centrale perché i fattori geopolitici e le diseguaglianze possono essere analizzate partendo da ciò che consumiamo e da come scegliamo cosa consumare.

    Il dibattito cercherà di mettere in relazione approcci e prospettive differenti: dal racconto globale delle traiettorie degli alimenti proposto da Stefano Liberti, autore de “I signori del cibo” (Minimum Fax, 2016) si passerà alla decostruzione delle narrative sulla qualità grazie alle riflessioni di Wolf Bukowski (“La danza delle mozzarelle. Slow Food, Eataly, Coop e la loro narrazione”, ed. Alegre).

    Cercheremo poi di indagare relazione culturale e antropologica dei meccanismi e dei significati del cibo con l’antropologa culturale Amalia Rossi, e ragioneremo su come queste scelte incidono sul paesaggio antropomorfico e sulla relazione città-aree interne con Filippo Tantillo.

    Infine, cercheremo di capire come opera l’associazione Recup nella gestione dello spreco e l’economia del riuso. L’incontro si svolgerà a Rob de Matt, in via Annibale Butti 18, uno spazio che è progettazione sociale e alimentare, grazie alle riflessioni collettive che ci verranno proposte dal cuoco e ideatore Edoardo Todeschini.

    A moderare, ci sarà Matteo Brambilla, già civic facilitator per il progetto Food Policy del Comune di Milano) Saremo a Dergano, a pochi passi dalla vecchia fabbrica del Fernet Branca e da quella della cioccolata Zaini (per puro caso, la base dei budini di mio nonno), in una zona di cooperative sociali che avevano creato persino un forno cooperativo per sostenere le famiglie più in difficoltà. In un luogo in cui il cibo è stato politico, ci sembra importante ripartire con le domande e gli interrogativi. Vi aspettiamo il 5 Luglio, alle ore 19.

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