Pubblichiamo un long form di Salvatore Iaconesi originariamente uscito sul terzo numero di Menelique (Fb, Twitter, Ig) su come costruire una scuola che permetta di affrontare le sfide globali del presente.
Cari studenti e care studentesse,
Come ogni anno, nella prima lezione, ci prendiamo del tempo per raccontarci come andrà il corso, perché è fatto così, come vorrei che fosse, e perché. Di solito il titolo e il programma dei corsi vengono concordati con un’istituzione: sia alle scuole primarie e secondarie, che all’università. Ciascuna scuola, istituto o università, per poter erogare quell’insegnamento, deve omologarsi a quel titolo e programma. Cioè: io non posso dire ‹apro una scuola media› e ci metto dentro anche un corso di ‹Opere architettoniche dei ragni›. Nonostante i ragni siano esseri meravigliosi e che i ragazzi, studiando l’opera dei ragni, potrebbero imparare tantissime cose meglio che all’università (dalla Matematica, all’Architettura, all’Ecologia, alla Tecnologia, alla Scienza dei materiali, su su, fino all’Educazione fisica); non si può. Ovvero, si può. Ma quella scuola non sarebbe omologata alle altre. Non sarebbe riconosciuta: non ci potrei mandare i ragazzi di quell’età, perché quelli devono andare alla scuola dell’obbligo. Oppure, se fosse un’università, il titolo conferito da questa università non varrebbe come una laurea ordinaria, perché quella università non sarebbe come le altre, non sarebbe omologata. Nessuno mi vieterebbe di iscrivermi a quella università, ma poi non potrei usare la laurea ottenuta: per trovare un lavoro, per partecipare a un concorso o per fare ricerca.
Sì, sì, lo so: tu sei quello che è andato all’università da Iaconesi, dove si studiano le opere d’architettura dei ragni. Tutto questo ha un senso, naturalmente.
UN PO’ DI STORIA
Ragioniamo storicamente. Fin dalla legge Casati del 1859 l’obiettivo dell’istruzione era di unificare la penisola. All’inizio del ‘900 erano gli albori dell’epoca industriale, continuata anche dopo la Seconda guerra mondiale, con la Costituzione, e negli anni successivi. Si dovevano preparare da un lato i lavoratori delle fabbriche e, dall’altro, la nuova classe dirigente. Era quello che prevedevano la legge Orlando, la Daneo-Credaro e poi la riforma Gentile, durante il Fascismo: si stabiliva un bivio scolastico in cui gli studenti che frequentavano le scuole tecniche e professionali non potevano continuare gli studi. Si doveva passare da territorio rurale sottosviluppato a superpotenza. Il modello dell’industria (simile a quello militare e d’ispirazione burocratico/amministrativo) la faceva da padrone: separazione delle competenze, specializzazione, linearizzazione della complessità e del tempo tramite il modello della linea di assemblaggio, efficienza, competizione. Milioni di persone videro un orologio per la prima volta nella loro vita: quello dei turni della fabbrica.
Con gli anni dai 50 ai 70 arrivano le grandi trasformazioni sociali: il lavoro e la scuola ne sono le maggiori espressioni. La disponibilità di manodopera migrante a basso costo nell’industria permette di abbassare i prezzi e di avviare i consumi. La TV e l’editoria trasformarono radicalmente la cultura della popolazione. Le contestazioni sociali iniziano dalle fabbriche e dal sistema educativo. Con le nuove culture, e con le sensibilità che le accompagnavano, le istituzioni totali non potevano essere più il modello per la propria vita: tanto la fabbrica quanto la scuola, la famiglia, la caserma, il carcere, l’ospedale psichiatrico.
Negli anni 60 le rivendicazioni riguardavano i diritti di base: al lavoro, alla casa, allo studio, alla salute. Nascono lo Statuto dei lavoratori e il diritto allo studio per tutte le classi sociali.
Se gli anni 60 si scandivano al ritmo dei diritti dei lavoratori, gli anni 70 si muovevano a quello del diritto a non lavorare, a coltivare se stessi nell’auto-rappresentazione, nell’arte, nella città.
Sorge il femminismo, che accompagna il fermento sui diritti umani e civili. Se gli anni 60 si scandivano al ritmo dei diritti dei lavoratori, gli anni 70 si muovevano a quello del diritto a non lavorare, a coltivare se stessi nell’auto-rappresentazione, nell’arte, nella città. Questo è anche il primo momento in cui si mette seriamente in dubbio il modello dell’istruzione, che diventa autoformazione, Do It Yourself di origine punk: le lezioni escono dai palazzi e entrano nella città, nelle piazze, nelle case e nell’intimità.
Subito dopo arriva il riflusso. Le piazze si svuotano. Gli attivisti muoiono di eroina o fanno carriera. Si torna a casa, davanti alla TV, alla pubblicità, al consumo. In Italia sono gli anni di Craxi e dell’avvio al potere di Berlusconi. Dai punk e il loro atteggiamento no-brand e do it yourself si arriva ai paninari, commerciali e tutti firmati. Il paninaro non è socialmente impegnato, marina la scuola e segue i consigli delle pubblicità. Allo stesso tempo, è il decennio del sintetizzatore: l’arte diventa per la prima volta tecnologica in maniera pop, dai Depeche Mode, ai Duran Duran, ai Pet Shop Boys. Entra in scena MTV. Nasce Max Headroom. È il decennio in cui prendono piede il walkman, il videoregistratore, i personal computer anche nelle case, soprattutto per i videogiochi. Anche gli eventi più eccezionali, come l’esplosione di Chernobyl e la caduta del muro di Berlino, si seguono in TV.
La scuola da un lato diventa un grande fenomeno di consumo e in cui si svolge la ‹competizione sociale›, dall’altra parte diventa un luogo più oscuro e arrabbiato, da cui emergeranno sia le disuguaglianze che caratterizzeranno gli anni 2000, sia la nuova stagione delle riforme, con l’arrivo delle richieste provenienti dalle occupazioni degli anni 90. In Italia sono gli anni di Tangentopoli, della Seconda repubblica. Si sviluppa internet.
Alle fine del decennio nasce Google. Sono gli anni del ritorno della grafica computerizzata al cinema, gli anni di Akira, Ghost in the Shell, del Grunge che inizia e finisce col suicidio di Kurt Cobain nel 1994. È l’inizio di un rap di nuova generazione, di Eminem, del gangsta, in cui vengono uccisi Tupac Shakur e Notorious B.I.G. Sono gli anni del crossover dei Red Hot Chilli Peppers, ma anche delle boy band e delle loro controparti femminili.
Grazie alla globalizzazione digitale, anche le nicchie culturali diventano mercati enormi: è l’inizio della coda lunga, di Amazon. Sono gli anni del Tamagotchi, in cui diventano popolari i termini come ‹virtuale›, ‹cliccare›, ‹navigare›, ‹connesso› e ‹online›. Si inizia a trasformare la dieta informazionale e comunicazionale delle persone, cominciando dai più giovani. La trasformazione è sempre più rapida e, di conseguenza, gli stili, le generazioni, le mode e le memorie cominciano a durare sempre di meno.
Nella scuola sono gli anni delle sperimentazioni, suggerite dall’informatica e dalla globalizzazione. Nel 1991 comincia la sperimentazione dei nuovi programmi Brocca, con i bienni unitari e i trienni dell’indirizzo specifico, e il ministero inizia a riconoscere alle singole scuole di poter seguire un proprio itinerario didattico.
La tecnologia sta cambiando la società, il lavoro e l’immaginario, e la scuola inizia a farci i conti.
La fine degli anni 90 è il momento del tentativo di autonomia della scuola, prima con Luigi Berlinguer e poi con Tullio De Mauro. La scuola prova a adattarsi ai frequenti mutamenti organici della società contemporanea e al proprio contesto territoriale. Nasce in questo periodo, guardando all’Europa, il principio della ‹formazione per tutta la vita›. La società e la tecnologia cambiano così rapidamente che non si può mai smettere di studiare e evolversi.
Con la gestione Moratti iniziano i problemi: l’autonomia deve essere anche finanziaria, e la scuola deve essere trattata come un’azienda. Si preparano i fenomeni che avverranno durante le rivoluzioni digitali. Gli anni 2000 iniziano con il crollo delle Torri Gemelle e finiscono con la crisi globale del 2008. Nasce l’iPhone. Guerre in Iraq, nei Balcani, in Tibet, in Georgia, a Gaza. Nuove malattie (mucca pazza, SARS, aviaria, suina), terremoti e calamità. Nel 2009 iniziano i moti rivoluzionari che usano strutturalmente internet. Che si parli di cinema, musicisti, imprese globali, operatori della comunicazione o di aziende tecnologiche, pochi attori si spartiscono la quasi totalità dei mercati globali. Tutto nasce, muore e si evolve in pochi anni.
La ricerca e l’istruzione devono uscire dall’aula e dal laboratorio e unirsi alle altre persone, nella società, nella città, nei territori, nell’ambiente, i cui soggetti, attori, persone, aziende, animali, piante, pesci, robot e intelligenze artificiali devono diventare partner della ricerca e dell’istruzione.
Nella sequenza Moratti, Fioroni e Gelmini la scuola si orienta verso il mondo del lavoro e verso la competizione basata sui ranking internazionali: si manifestano le prime limitazioni all’autonomia delle scuole e i primi tagli finanziari. Emerge il disequilibrio tra pubblico e privato, e nell’accesso alle opportunità.
Si arriva così al presente. Il pianeta e il suo ambiente occupano l’attenzione e le paure degli esseri umani. I disastri a Haiti, in Cile, nel Golfo del Messico, a Fukushima, le violente scosse sismiche del centro Italia, l’Ebola in Africa, gli incendi in Grecia. L’ascesa della Cina. La guerra in Siria e nella Striscia di Gaza, il colpo di stato in Egitto. Il terrorismo a Parigi, Tunisi, Kuwait City, Bruxelles, Orlando, Nizza, Monaco di Baviera, Istanbul, Londra, Manchester e Barcellona. La Brexit. Il 2020 si apre con la pandemia globale del COVID-19. La crisi finanziaria iniziata nel 2008 fa sentire il suo peso negli anni seguenti: è solo la prima e arriva con continuità al post pandemia del 2020.
I dati, la computazione e il cosiddetto governo algoritmico sconvolgono le democrazie del pianeta: causano la violazione dei diritti di miliardi di persone, perturbano l’infosfera pubblica con fenomeni di disinformazione, ma allo stesso tempo contribuiscono all’innovazione scientifica e alle possibilità per le persone di esprimersi e di godere dei propri diritti e delle proprie libertà.
È un importante passaggio generazionale. Non ci sono quasi più in vita persone che hanno avuto esperienza delle grandi guerre.
Sostanzialmente, i protagonisti dei grandi movimenti rivoluzionari del 68 e del 77 o sono morti o diventati boomer. Il rapidissimo cambiamento culturale grazie a tecnologie e social network crea un divario che sembra insanabile, in cui i più giovani hanno linguaggi e immaginari profondamente differenti anche solo da chi ha qualche anno in più. La loro dieta comunicativa, informazionale e relazionale cambia in continuazione.
Dopo la riforma Gelmini, in Italia arriva con Renzi la Buona Scuola, che continua nelle direzioni precedenti. Arriva la meritocrazia per docenti e studenti, a suon di parametri e ranking. Il dirigente scolastico diventa un principal di stampo anglosassone. A parte pochissime, ulteriori, mediocri modifiche, è la nostra contemporaneità.
LO SCOPO DI UN CORSO
Fermiamoci, care studentesse e studenti, respiriamo, e cerchiamo di capire. Comunque la analizziamo ci troviamo davanti a una scuola che fornisce pochi strumenti per avere a che fare con il nostro mondo contemporaneo: è individualista, meritocratica e competitiva.
Il nostro, invece, è un mondo complesso, in cui i problemi sono planetari. Per capirli (e quindi per poterci avere a che fare) non basta saper fare una cosa. Non c’è nulla più che si riesca a fare da soli. Questa è una condizione tragica. Ogni elemento del nostro sistema educativo ci insegna a fare proprio questo: a stare soli. Ci si iscrive come singoli, e come singoli si viene valutati. Veniamo preparati per formare dei curricula individuali, per svolgere dei lavori per cui abbiamo un contratto e delle responsabilità per una persona. C’è stato un errore. Una svolta sbagliata.
Se nascevi povero e in campagna, una volta, non c’era alcuna possibilità di mobilità. Col proseguire della storia, seppur in maniera imperfetta, queste possibilità sono aumentate, proprio tramite la scuola. E ha funzionato, in un certo senso. Prima il diritto allo studio e il diritto al lavoro. Poi, man mano che questi diventavano garantiti, si tentava con diritti e libertà sempre più avanzati: il diritto all’espressione, alla auto-rappresentazione, alla comunicazione, alla relazione, alla auto-determinazione, al non-lavoro. E tante di queste cose si sono ottenute, tanto che oggi non ci facciamo quasi caso. Ma il 77 non è finito bene. Le persone sono morte, hanno fatto carriera o non hanno più saputo avere a che fare con un mondo che stava cambiando: non ne avevano i linguaggi, le immagini, le tecnologie, gli stili. Gli anni 80 sono iniziati a essere di nuovo anni di modelli di successo individuale, misurabile quantitativamente o tramite lo status. Solo le tecnologie hanno potuto scuotere la situazione negli anni 90, ma lì abbiamo anche iniziato a perdere il passo: la tecnica tende a occupare progressivamente tutto il tempo e lo spazio disponibile.
Nel mondo globalizzato in cui viviamo, le questioni sono sempre complesse. Ciò vuol dire due cose. La prima: non possono avere soluzione. La seconda deriva dalla prima: non possiamo fare più le cose da soli.
‹What does technology want?› chiedeva Kevin Kelly. Ma era la domanda sbagliata, perché trattava la tecnologia come una risposta. Invece la tecnologia, proprio come l’arte, non è una soluzione, ma un modo di sentire e di conoscere. Nel mondo globalizzato in cui viviamo, le questioni sono sempre complesse. Ciò vuol dire due cose.
La prima: non possono avere soluzione. Almeno non in senso esclusivamente ingegneristico, basato sulla scomposizione in problemi più semplici. Scomponendo e separando posso affrontare parti delle questioni complesse, magari anche migliorando notevolmente la situazione. Ma non starei affrontando la questione complessa. Esiste un’app in grado di risolvere in cambiamento climatico? Ovviamente no. In questo senso le sfide globali che dobbiamo affrontare sono tragedie. E come le tragedie non hanno soluzione. La tragedia si affronta con l’agnizione: il riconoscimento dello stato di tragedia, e il cambiamento. Che è una cosa emozionale, spirituale, relazionale, non tecnica. In questo caso la tecnica (come l’arte) serve a sentire.
La seconda deriva dalla prima: non possiamo fare più le cose da soli. Non ci sono più cose che possono essere affrontate da un solo punto di vista, o tramite una sola disciplina. Nel mondo globale e iperconnesso, anche le cose più semplici pongono questioni che necessitano di essere affrontate da una moltitudine di approcci disciplinari differenti, perché si possono affrontare solo tramite cambi di stato. In questo caso la tecnica (come l’arte) serve a conoscere e a interconnettere la conoscenza e le persone.
Le due, insieme, hanno un corollario: che i luoghi e i contesti tradizionalmente dedicati alla ricerca e all’istruzione non sono più i soli luoghi dove si possa e si deve fare ricerca e istruzione. Quando, per poter ricercare e educare, occorre innanzitutto sentire, conoscere e interconnettere, non ci si può più permettere una scienza chiusa nel laboratorio, che estrae dati e informazioni da corpi, società e ambiente, li elabora su un vetrino e poi ci racconta la storia di quel che ha scoperto. Quando siamo in questa nostra condizione esistenziale dobbiamo accettare che il nostro singolo, piccolo, solitario punto di vista, separato da tutti gli altri, non è più minimamente sufficiente.
La ricerca e l’istruzione devono uscire dall’aula e dal laboratorio e unirsi alle altre persone, nella società, nella città, nei territori, nell’ambiente, i cui soggetti, attori, persone, aziende, animali, piante, pesci, robot e intelligenze artificiali devono diventare partner della ricerca e dell’istruzione. È la condizione dell’ubiquità, come direbbe il nostro amico e maestro Massimo Canevacci. E per questa condizione servono nuove cosmologie e nuovi rituali, come dicono Massimo di Felice e Yuk Hui, per riposizionarsi: non più l’essere umano, l’individuo, al centro del tutto, ma la consapevolezza (e la conseguente presa di responsabilità) di essere perennemente in transito tra la nostra individualità e parte di una rete che include umani, non umani, agenti computazionali, attori con personalità giuridica, ambiente. La scuola e l’università come sono strutturate adesso serviranno forse (è tutto da dimostrare) a darci un qualche titolo per trovare un’occupazione. Ma sono veramente di dubbia utilità per quanto riguarda la possibilità di avere a che fare con il mondo in cui ci troviamo. E questo, cari studenti, è un bel problema.
IL PROGRAMMA
Questo corso, che inizia oggi, lo dobbiamo fare. E non possiamo farlo come ci pare. Dobbiamo pur sempre iniziare da quel che c’è.
Non possiamo correre il rischio di perdere il nostro prezioso tempo vitale andando appresso a qualche ideologia utopistica e fricchettona, per poi accorgerci che no, non si poteva fare. O che, come tutte le utopie, sono anch’esse separate dal mondo. Sono anche quelle chiuse nel loro ‹laboratorio›. Perché il mondo è zozzo, complicato, e ospita simultaneamente tantissime persone diverse, con i loro conflitti, le loro dignità, le loro necessità di esprimersi. E tante piante, animali, ambienti, e le loro dignità, espressioni, diritti e libertà. E, da un po’ di tempo, tanti altri esseri non umani, e le loro dignità, espressioni, diritti e libertà. E bisogna averci a che fare. Non si può risolvere tutto dicendo ‹ok, andiamo su Marte, ricominciamo con l’utopia X, e mangiamoci la mozzarella sintetica e il basilico stampato 3D›, come abbiamo imparato dagli amici di RuralHack e da Alex Giordano. Perché neanche quella sarebbe una soluzione. Addirittura Hollywood ci sta preparando da anni su cosa vorrebbe dire una soluzione del genere: miliardi di persone che soffrono e pochi ‹eletti› costretti a fare il tapis-roulant in orbita per l’eternità. Caro Elon Musk: non ci freghi.
Non c’è un piano B. Ma da qualche parte inizieremo. E quindi, cominciamo. Visto tutto quello che abbiamo detto, questo corso non è meritocratico. Non, almeno, per come si intende il termine meritocratico, ovvero in senso individualistico: ‹sono io che ho il merito, che valgo di più›. Non ci interessa. Vorrei che questo corso potesse avere un titolo da scegliere tutti insieme. Purtroppo, per adesso, non possiamo. Se fosse possibile sarebbe bellissimo, perché io potrei aiutarvi a capire le vere implicazioni di quel che staremmo chiedendo a questo titolo del corso. Diventerebbe un progetto, un design concettuale filosofico, come suggerisce Luciano Floridi. E capiremmo anche a chi dovremmo chiedere aiuto, a quali discipline, a quali persone, a quali aziende e a quali istituzioni. Per esempio, se all’inizio dell’anno o del percorso pluriennale potessimo scegliere insieme, e venisse fuori il titolo ‹Corso sulla felicità›, o qualsiasi altra cosa, sarebbe bellissimo. Potremmo iniziare dal capire cosa vuol dire ‹felicità›: potremmo farci aiutare dalla psicologia, dall’economia, dalla sociologia, dall’arte, dal design, dalla letteratura, dalla filosofia, e così via.
Potremmo invitare delle persone in classe, da ognuna di queste discipline, e uscire noi dalla classe per organizzare incontri nel nostro quartiere, o in un’azienda, o in altri posti. Ma, per adesso, non possiamo sceglierci il titolo che vogliamo. Poco male: per un po’ di tempo useremo quelli che ci sono, e nel frattempo ci impegneremo tutti quanti per cercare di far passare questa idea di una riforma necessaria di quello che vuol dire ‹scuola›. Dico ‹poco male› anche perché i titoli che ci sono, seppur un po’ generici e astratti, sono molto belli! Certo ‹Geografia› è molto più astratto di ‹Conoscere com’è fatto il mondo e cosa ci fanno le persone›, ma praticamente è la stessa cosa! Come ‹Letteratura Italiana› può diventare ‹Storia di come le persone hanno espresso le proprie emozioni e raccontato le proprie storie nel corso dei secoli in Italia›, o tante altre cose. E questo vale per tutte le altre discipline.
Quindi, per prima cosa, prenderemo il nostro corso, col suo titolo, e decideremo cosa lo vogliamo far diventare. Non vi preoccupate, ci sono io qui, sto qui per questo: per non far diventare il corso l’ennesima cosa da fare di cui non mi interessa nulla.
Il corso deve essere una cosa che è importante per noi, per le nostre culture, così che ciascuno di noi possa capire come possiamo usare questa ‹Letteratura›, o questa ‹Tecnologia›, o questa ‹Educazione Fisica›, o questa ‹Storia›, e tutte queste altre materie, per impossessarsene, in modo che diventino nostre in modo che ci interessino, con un senso. Ognuno di noi deve poterle usare per scegliere come rappresentare sé stesso nel mondo, e per capire come gli altri si rappresentano, così da poter capire il mondo e viverci con un senso. Questo è il mio ruolo, il vostro prof: non certo di stare qui davanti a voi per narcisismo, o per ficcarvi in testa qualche oscura nozione che vi dimenticherete entro pochi mesi. Io sono qui per voi, non per esaminarvi e farvi sentire in difficoltà e in imbarazzo. Sono qui per aiutarvi a vivere meglio, con il senso che voi volete, e con un maggiore accesso alle opportunità della vita, per quanto posso. E per quanto, invece, non posso, sono qui per aiutarvi (anzi, per aiutarci) a chiedere aiuto a qualcun altro, che sia un esperto che potremmo chiamare in classe, qualche persona del nostro quartiere, qualche imprenditore, qualche artista, o che so io: ci sono un sacco di persone che ci possono dare una mano.
Ah, c’è la questione del programma. Perché, attualmente, ci sono dei programmi da garantire. Sì, mi rendo conto che non è ottimale: se fossimo più liberi potremmo fare meglio. Anche perché non abbiamo ancora definito un tempo di questo corso.
Quanto dura il corso? Questa è una domanda strana, se ci pensate. Sì, la ‹scuola›, come entità burocratica e amministrativa, prevede che il corso duri un certo tempo, un certo numero di ore.
E poi?
Abbiamo già visto che questo non è più sufficiente: in questo mondo globalizzato e iperconnesso che abitiamo, le cose cambiano molto in fretta. Se ci limitiamo alle poche ore in cui il ministero ci dice che ci dobbiamo vedere sarà tutto inutile e avrà poco senso, perché presto non servirà più a nulla! Anche la Letteratura, la Geografia, la Filosofia e tutte le altre discipline cambiano e si evolvono in maniera rapidissima. Non ha senso prenderle in considerazione come se fossero materia inerte, statica, morta. A parte che nessuno di voi potrebbe mai amarle e decidere di usarle, in questo modo. Come posso usare un gatto morto, rigido, che puzza e si decompone per rappresentarmi nel mondo?
C’è evidentemente qualcosa che non va in questa idea del ‹programma da garantire›. E cercheremo di cambiare anche quello, tutti insieme. Ma, nel frattempo, dobbiamo fare qualcosa. Cambieremo l’impostazione. Non garantiremo un ‹programma›, ma garantiremo un ‹metodo› e un ‹senso per il comune› (un senso di comunità), tramite cui il ‹programma› sarà garantito. Imparare un metodo o un approccio è più difficile rispetto all’imparare un programma, delle nozioni. E, poi, il metodo ti rimane. Se sai il ‹programma›, pochi mesi dopo non lo saprai più. Se sai il ‹metodo›, il programma (e tutte le altre cose che ti serviranno) lo potrai ricomporre in un attimo.
LA VALUTAZIONE
È molto ingenuo pensare che il ‹programma› lo debba sapere tutto io. Abbiamo già visto il come e il perché del fatto che nel mondo globalizzato e iperconnesso che abitiamo ogni questione sia complessa, e tocchi innumerevoli discipline. Sapere ‹tutto il programma› vorrebbe dire essere un tuttologo, il che non suona molto bene. E collaborare, non vuol dire avere tanti tuttologi dentro una stanza che parlano tutti insieme.
Quello sembrerebbe un incubo! Collaborare vuol dire avere almeno una cosa che si ama, di cui si sia disposti a prendersi la responsabilità, e metterla in mezzo: ‹posso farla io›. E poi vuol dire rinunciare a un pezzettino della propria identità per accettarne altre: io mi fido della tua capacità di prenderti cura di un pezzetto, e tu ti fidi della mia. E per poter comunicare, o conosciamo l’uno la lingua, la cultura e l’immaginario dell’altro, o ci serve ancora almeno un altro soggetto. È il senso del comune, della comunità che collabora, della comunità che porta avanti delle pratiche. Noi, quindi, impareremo un metodo, e lo applicheremo al programma. Questo metodo inizia dal qui, dall’adesso. Inizia da noi, e dalle nostre necessità e aspettative. Che sia Geografia, Letteratura, Storia, Tecnologia o altro, inizia da un design, da un progetto.
Un progetto non deve per forza essere qualcosa di strettamente utile: può anche essere qualcosa di esistenziale, di emozionale, di curioso. Per esempio, se il corso fosse di Letteratura, il design potrebbe riguardare ‹come la letteratura ha espresso la paura nella storia›, o qualsiasi altra cosa, e potrebbe sia prendere la forma di una ricerca, ma anche di una visualizzazione di dati, di un’opera d’arte, di un gadget, o di qualcos’altro. In ogni caso, noi tutti (io, il prof, e voi, gli studenti) saremmo costretti a fare tante cose:
1) chiederci cos’è la paura;
2) chiederci come è cambiato questo concetto nel tempo, nei contesti, nella geografia…;
3) chiederci qual è stato, nelle varie epoche, il ruolo della Letteratura, e come poteva trovarsi a esprimere emozioni;
4) studiare dei casi, parlarne, metterli su una timeline, su una mappa, confrontarli, parlare con qualcuno per chiedere approfondimenti;
5) scegliere un punto di vista (magari a gruppi) e svilupparlo: nella scrittura, nella comunicazione, nell’infografica, nell’arte, nel design o in qualcos’altro.
Come vedete partiremmo da noi, da dove siamo adesso, e ci estenderemmo in ogni direzione del tempo, dello spazio, dei concetti e della comunicazione. Il ‹programma› sarebbe garantito. E noi tutti avremmo esperienza di come affrontare una cosa insieme, collaborando, tutti: sia nella nostra individualità che nella nostra capacità di assumerci responsabilità e di prenderci cura degli altri, nella collettività. A un certo punto ci sarebbe la necessità di fare delle valutazioni. Compiti in classe? Interrogazioni? Test? Esame finale? Scritto? Orale? Pratico? Di comunicazione? Da quello che abbiamo detto finora, tutte queste modalità sono problematiche. Chi dovrei valutare? Chiedendogli cosa? Si potrebbe fare uno strano gioco, per esempio: un esame in cui si deve copiare.
Nel senso che abbiamo fatto tutta questa cosa meravigliosa. Abbiamo trovato un modo, tutti insieme, di trasformare una cosa astratta e lontana in una vicina, che siamo contenti di fare, e che possiamo usare per rappresentare noi stessi, per contribuire al senso della nostra vita. E siamo riusciti a farla collaborando, che è la cosa più difficile possibile. Una nozione, per trovarla, mi basta andare su Wikipedia. Non ci vuole molto. Ma collaborare! È difficilissimo! Devo relazionarmi con una persona. E devo imparare a prendermi cura di questa persona, proprio come questa si sta prendendo cura di me.
È una grandissima responsabilità, perché siamo riusciti a creare un accordo in cui ognuno di noi ha un ruolo e l’altro si può appoggiare su questo nostro ruolo, si può fidare e sapere che noi ci saremo. Non quella cosa leggera e senza impegno che avviene col crowd di solito: c’è bisogno di fiducia e responsabilità nella collaborazione, perché ti devi abbandonare al fatto che ci sei per qualcuno, qualcuno ci sarà per te, e che questa sia comunicata, compresa e sentita.
C’è bisogno di fiducia e responsabilità nella collaborazione, perché ti devi abbandonare al fatto che ci sei per qualcuno, qualcuno ci sarà per te, e che questa sia comunicata, compresa e sentita.
È una cosa difficilissima! Molto più che cercare una cosa su Wikipedia! È questa cosa che cambierà le carte in tavola nel nostro mondo globalizzato e iperconnesso. E quindi è su questo che dovremmo investire, è questo che ha valore, non se ho preso 8 in Matematica. O, meglio, 8 in Matematica lo prendo solo se sono stato capace di due cose: esprimermi e comunicare; chi sono, cosa sono, quali sono i miei desideri e le mie aspirazioni, e cosa sono sinceramente in grado e desideroso di fare, per me e per altri; in che modo e in che contesto ti puoi fidare di me; come porto valore, contribuendo sia alla ‹cosa da fare›, sia vestendo la mia diversità, essendo me stesso, ispirando, non accettando che qualcuno mi dica che devo essere differente da come sono, e che quello che sono non può portare valore alla ‹cosa da fare›.
Collaborare, ovvero stabilire una mia posizione nella questione della ‹cosa da fare›, un mio ruolo su cui altri si possano appoggiare, foss’anche un parere, o assicurarsi che ci sia da mangiare per tutti, o che nessuno si senta a disagio o in imbarazzo o in difficoltà. C’è molto, ogni volta, da fare. Non possiamo cedere all’ingenuità di credere che la Matematica consista solo nel dimostrare un teorema o nel risolvere un problemino; questi teoremi e problemini non stanno nel vuoto, ma in mezzo a delle persone, in mezzo all’ambiente, in mezzo alla società, alle relazioni.
Non posso essere contento che io ho preso 8 perché ho risolto il problemino e Mario ha preso 4 perché non lo ha risolto. Non può funzionare il mondo così! È una condanna sia per Mario che per me, perché non siamo evidentemente stati in grado di trovare un modo per Mario di generare valore per tutti noi. Chi se ne frega del problemino: c’è un maxi-mega-problemone, e è questo. Quindi se Mario non ha portato senso e valore, pigliamo 4 tutti quanti. Non è meraviglioso? Se non siamo riusciti a copiare (insomma, a collaborare, durante il compito, la ‹cosa da fare›) dovremmo prendere tutti quanti un voto pessimo. E questo è un metodo e un senso del comune, e sono per sempre.
RICEVIMENTO
Ecco, cari studenti e studentesse. Stiamo per iniziare un processo che dura per sempre. Io faccio questo discorso all’inizio di ogni corso. E, se ci avete fatto caso, non c’è un discorso che faccio alla fine, perché il processo non finisce mai. Nel nostro meraviglioso mondo globalizzato e iperconnesso riusciremo a vivere e sopravvivere con dignità solo se saremo in grado di fare questa cosa, e di farla da adesso e per sempre, sempre in modi nuovi, che ci soddisfano.
Io sono qui per voi.