Questo articolo è legato al percorso “Working on common ground” che si concluderà il 29 novembre alle ore 14.00 con una conferenza finale al Salone d’Onore di Triennale Milano. Per partecipare, occorre registrarsi qui. L’evento sarà disponibile anche in streaming a questo link.
Negli ultimi dieci anni nei mondi del design, dell’arte, della filosofia e delle scienze sociali sono letteralmente esplose le pratiche e gli sguardi che cercano di pensare e agire in modo nuovo il rapporto tra attori umani e non umani. Con questo termine ombrello – volutamente e inevitabilmente ampissimo e a maglie larghe – si intendono dei modi di guardare alle relazioni tra categorie diverse di entità che popolano il mondo (esseri umani, piante, animali, idee, manufatti, batteri, software, e così via) e che cercano di assumere prospettive diverse da quella antropocentrica, o almeno di integrarla con altre possibili.
Attorno e attraverso la distanza apparentemente incolmabile tra i due poli di “umano” e non “umano” si articola una mole crescente di domande.
Tra le basi del pensiero occidentale c’è la rigida separazione tra il soggetto (consapevolmente attivo, senziente, razionale, riflessivo) e l’oggetto (inconsapevole, non senziente, che esiste come elemento dato). Nella loro estrema diversità, gli approcci che indagano le relazioni tra umani e non umani mettono in discussione la nettezza di questa distinzione, sul piano filosofico (le ontologie), su quello sociale e antropologico (il senso comune e le cosmologie), su quello scientifico (le epistemologie) e su quello artistico (le estetiche).
Attorno e attraverso la distanza apparentemente incolmabile tra i due poli di “umano” e non “umano” si articola, quindi, una mole crescente di domande. È possibile costruire nuove alleanze con enti diversi da quelli umani per ridurre gli impatti del cambiamento climatico, delle pandemie e dell’inquinamento? Cosa sono davvero le intelligenze (e le culture) di altre specie, e cosa possiamo imparare da loro? E cosa possono insegnarci gli esseri viventi che si collocano in altri domini, come le piante, i funghi, i batteri o i virus? Fino a che punto è possibile provare ad uscire dalle prospettive antropocentriche che ci hanno proiettato in quello che sembra momento di più un viaggio a senso unico verso l’estinzione di massa? Quali ontologie, quali epistemologie e quali forme di azione possiamo sviluppare cercando di assumere punti di vista radicalmente diversi da quelli umani? Cosa possono insegnare i saperi tradizionali delle popolazioni indigene – solitamente di pertinenza dell’antropologia – o le pratiche dell’arte contemporanea a discipline come la biologia, l’ingegneria, il design o la filosofia?
Fuori dagli ambiti strettamente accademici – e da alcune nicchie di ricerca artistica e subculturale – si è iniziato a ragionare diffusamente su questi temi solo in tempi relativamente recenti, almeno in Italia. È cruciale, però, ricordare che quella che, agli osservatori più superficiali, può sembrare quasi una moda è in realtà il risultato di un lavoro svolto nel corso dei decenni precedenti da intellettuali che – in discipline molto diverse – hanno ripensato il posto dell’essere umano nel mondo, e le relazioni che questi intrattiene con le entità che popolano i domini del vivente e del non vivente.
Come il filosofo e sociologo francese Bruno Latour, che ci ha insegnato a considerare i fatti scientifici alla luce dei processi sociali attraverso i quali sono prodotti, aprendo la strada a metodologie che considerano la realtà come una costruzione prodotta da reti di attori diversi: esseri umani, piante, animali, idee, manufatti.
O come la filosofa (e zoologa) statunitense Donna Haraway, che ha decostruito il modo in cui guardiamo ad alcune delle dicotomie che fondano il sistema di pensiero occidentale. Binomi che tendiamo a considerare come ”dati di fatto” naturali quando sono invece costruzioni sociali: genere maschile e genere femminile; corpo naturale e protesi tecnologiche; umano e animale.
O, ancora, come l’antropologo francese Philippe Descola, che ha messo in evidenza come le nostre concezioni di “naturale” e “artificiale” siano il risultato di un’operazione di separazione arbitraria del continuum tra esseri umani e resto del mondo, operata in tempi relativamente recenti nei paesi occidentali e per la costruzione di gerarchie tra i viventi finalizzate allo sfruttamento dei non umani.
Una semplice elencazione potrebbe procedere per molte pagine, spaziando tra discipline, sguardi e paesi diversissimi: da Timothy Morton a Vincianne Despret, da Isabelle Stengers a Anna Tsing. Ma, fino a un certo punto, molti di questi approcci sono stati considerati da molti come bizzarrie teoriche che avevano generato nicchie accademiche o sottoculturali delimitate da epistemologie e terminologie tecniche di difficile comprensione, tra Actor-Network Theory e Ontologia Orientata gli Oggetti, attanti e fatticci, saperi indigeni e cyborg.
Quando però gli incendi stagionali hanno iniziato a intensificarsi in giro per il mondo, quando è divenuto bruscamente evidente che le temperature si stavano innalzando, quando il clima ha iniziato a cambiare sotto gli occhi di tutti, le domande complesse poste da questi campi di studi hanno iniziato a sembrare sempre meno esotiche e sempre più stringenti.
Nelle biennali di design e d’arte, nei musei e nei centri studi hanno iniziato a circolare i lavori di designer, artisti, ricercatori e teorici che hanno cercato di fare proprio, elaborare, discutere ed attualizzare questo patrimonio. Intendiamoci, non che prima non si parlasse di cambiamento climatico, o della necessità di rivedere i rapporti tra esseri umani ed ecosistemi. È una tensione che si è fatta crescente almeno dagli anni ’70 – dalla nascita dei partiti dei Verdi in diversi paesi d’Europa e da quella dei primi movimenti ecologisti – e sulla quale hanno preso posizione artisti e intellettuali di rilievo internazionale, da Edmund Berger a Michel Foucault. Qui si tratta però di qualcosa di diverso: di un tentativo di elaborare modi radicalmente diversi di pensare, sentire e agire. Un vero e proprio salto di paradigma che mette in discussione alcuni assiomi su come è fatto il mondo – su come è fatta la realtà – che credevamo inscalfibili.
Una storia possibile delle trasformazioni culturali che stanno muovendo dalla visione antropocentrica ad una maggiormente improntata alle relazioni tra umani e non umani è tutta da scrivere. Ad ogni modo, il concetto che ha fatto da grimaldello per un passaggio dalla vita di nicchia ad una maggiore visibilità di questi campi è stato probabilmente quello di Antropocene: l’idea secondo la quale stiamo vivendo in un’epoca in cui le trasformazioni di ordine climatico, ambientale ed ecologico prodotte dall’essere umano sono divenute talmente pervasive da assurgere allo stato di era geologica a sé stante.
In molti casi si è trattato di approfondimenti su sperimentazioni iniziate molto tempo prima. Come in molti paesi del Nord Europa, contesti nei quali la contaminazione tra arte, scienza e tecnologia è stata sviluppata programmaticamente come forma di ricerca e di produzione interdisciplinare in luoghi come il V2 – Institute for the Unstable Media di Rotterdam o l’Haus der Kulturen der WElt di Berlino. In altri casi, si è trattato di pratiche e ricerche che hanno seguito la moda del momento, patinando di temi ed estetiche vagamente “green” o naturali materiale assolutamente tradizionale.
Tutti impegnati, in un modo o nell’altro, nello sforzo titanico di forgiare modi radicalmente nuovi di stare nel mondo.
In Italia, è fuor di dubbio che stiamo assistendo ad un’esplosione di attenzione in ambito culturale, anche se tardiva. È evidente innanzitutto dall’effervescenza in ambito editoriale. Sono state tradotte – o ritradotte – opere importanti che non avevano ricevuto la giusta attenzione. Nuove case editrici di successo si sono sviluppate anche seguendo queste traiettorie, come la romana Not Nero, che ha definito nuovi campi estetici e politici all’intersezione tra pratiche radicali, sottoculture e filosofia. Case editrici prestigiose hanno aperto collane dedicate, come la meravigliosa Animalia di Adelphi. E alcuni autori gli importanti hanno iniziato ad essere conosciuti anche ben oltre la stretta cerchia degli addetti ai lavori, come Stefano Mancuso, Leonardo Caffo o Emanuele Coccia. Nelle università, gli argomenti e le bibliografie di tesi laurea, tesi di dottorato e assegni di ricerca hanno iniziato ad orientarsi sempre più in questo senso. Per chi ha l’occasione di confrontarsi con ricercatori e studenti in discipline diverse, è evidente che si tratta di una trasformazione radicale che va ben oltre una moda momentanea: riferimenti intellettuali apparentemente eterodossi attraversano i lavori delle accademie di belle arti e dei politecnici, delle facoltà di filosofia e di quelle di microbiologia, in quella che sembra essere una riorganizzazione generale delle domande sul senso del mondo.
La sperimentazione interdisciplinare nei linguaggi e nelle estetiche ha iniziato a raggiungere pubblici sempre meno ristretti e più eterogenei. In questo ha giocato un ruolo importante la XXII Esposizione Internazionale della Triennale di Milano, Broken Nature: Design Takes on Human Survival, curata da Paola Antonelli. La pandemia ha impresso un’ulteriore accelerazione a questa traiettoria, perché ha mostrato con brutale evidenza come non sia più possibile guardare con gli occhi di ieri alle relazioni enormemente complesse che si strutturano su scala globale tra umani, animali, piante, virus, batteri, economie, società, sistemi simbolici, tecnologie.
A cheFare stavamo ragionando da tempo su come queste trasformazioni fossero andate ben oltre la riflessione teorica ed avessero iniziato a guidare le pratiche e le strategie di alcune organizzazioni della cultura indipendente, di artisti e attivisti, delle istituzioni culturali più lungimiranti. Negli ultimi anni abbiamo incontrato patti di fiume e contratti di foresta; progetti scientifici per la convivenza tra umani e lupi; progetti nelle arti visive e performative che indagano l’interazione tra i corsi d’acqua e i gruppi sociali che abitano lungo le loro rive, o sulle estetiche possibili del rapporto con le pietre; collettivi che cercano nuovi modi di leggere e vivere il suolo e le piante nelle aree industriali abbandonate; musei di scienze naturali che si pongono domande di ordine filosofico, e dipartimenti di filosofia che cercano nuovi dialoghi con le scienze “dure”; progetti di citizen science che cercano sguardi nuovi sui quartieri marginali delle città; nuovi centri culturali che si interrogano su come superare l’antropocentrismo nelle loro attività quotidiane; gruppi di appassionati di fantascienza che provano a costruire immaginari oltre la retorica del collasso; comunità energetiche che si interrogano sulle nuove estetiche possibili per pensare il paesaggio di fronte al cambiamento climatico. Tutti impegnati, in un modo o nell’altro, nello sforzo titanico di forgiare modi radicalmente nuovi di stare nel mondo.
Per questo, quando siamo stati contattati dall’Ambasciata olandese in Italia per iniziare un percorso di costruzione di reti e divulgazione dei contenuti della mostra “Have we met?” curata dall’Het Nieuwe Instituut di Rotterdam all’interno della XXIII Esposizione Internazionale della Triennale di Milano, Unknown Unknowns, abbiamo colto l’occasione per provare a tracciare alcune connessioni tra “bolle” che si percepiscono molto spesso come separate e che noi vediamo invece come parte di una grande trasformazione culturale.
La mostra prende come riferimento il modello organizzativo Zoöp, sviluppato dall’istituto. Zoöp è l’abbreviazione di Zoöperation, una crasi di cooperation e zoë (in greco “vita”). Il modello Zoöp aiuta le organizzazioni a capire come collaborare con gli ecosistemi a cui partecipano e come diventare organismi simbiotici che contribuiscono alla rigenerazione ecologica. Esplorando una serie di strumenti collaborativi sviluppati da professionisti dei settori dell’arte, del design, dell’agricoltura delle data science e delle scienze marine, “Have we met?” sonda una base da cui partire per organizzare il terreno comune di una società multi-specie.
Il programma Working on Common Ground – ideato e realizzato in collaborazione tra cheFare e l’Het Nieuwe Instituut – amplia le prospettive della mostra indagando le sensibilità, le tattiche organizzative e le strategie legali e politiche necessarie per promuovere le comunità multi-specie focalizzandosi anche sulla possibilità di Zoöperations nel contesto italiano e sul ruolo del design nel loro sviluppo.
Abbiamo organizzato due workshop, supportati dall’Ambasciata olandese, che si sono svolti il 20 settembre a Chiaravalle presso Terzo Paesaggio e il 18 ottobre presso l’Orto Botanico di Brera. Hanno partecipato 20 organizzazioni da 8 città e 5 regioni, diversissime per storia, traiettorie e caratteristiche organizzative: Alle Ortiche, Associazione Cure Creativity for Urban and Rural Empowerment, Base, Cascinet, Climate Art Project/Future ecologist, Corpi idrici, UMM | Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord, Hydro, Imbarchino, Institute of Radical Immagination, Kilowatt, Kin, Linee Culture, Muse, Parco Studio, PAV Parco Arte Vivente, Terrapreta, Terzo Paesaggio, We Make. Con loro – oltre a noi di cheFare – hanno lavorato i due curatori di HNI Klaas Kuitenbrouwer ed Ellen Zoete e gli artisti, designer e attivisti Eliane Bakker, Jonmar van Vlijmen, Marlies Vermeulen e Debra Solomon, in laboratori di cartografia speculativa, visualizzazioni guidate e riflessione critica.
Il 29 novembre si terrà presso la Triennale di Milano la conferenza conclusiva del percorso con 8 relatrici e relatori tra Olanda e Italia che stanno guidando il dibattito internazionale sulle relazioni tra umani e non umani. Sarà un momento importante per poter mettere a confronto sguardi e prospettive di chi sta cercando di operare un salto di paradigma fondamentale. Sarà anche l’occasione per provare a immaginare traiettorie, alleanze e strategie in un’ottica internazionale, verso nuove cooperazioni.
Foto cover: Cristiano Corte