Quali saranno le conseguenze di lungo termine del conflitto tra Russia e Ucraina? Come si ridefiniranno gli equilibri politici interni alla Comunità Europea, nel quadro di mutati equilibri geopolitici globali? L’esplosione del conflitto ha rapidamente polarizzato il dibattito in tutti i paesi europei, consolidando opposte visioni degli eventi in corso. cheFare e il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere dell’Università di Bergamo hanno deciso di sviluppare, nel quadro di un progetto di Terza Missione, un percorso editoriale che intende interrogare il nostro tempo, analizzando le sfide sociali e culturali che la guerra pone al continente europeo e al suo futuro. Autrici e autori con diversa formazione ed estrazione culturale ragioneranno di istituzioni comunitarie, di equilibri migratori, di geopolitica, di politiche energetiche, di crisi ambientale, di economia, di culture europee.
L’invasione del territorio ucraino da parte dell’esercito russo, il 24 Febbraio 2022, ha fatto il giro del mondo in maniera quasi istantanea. In brevissimo tempo sono circolate in rete informazioni su quali account seguire per rimanere informati e l’attenzione mediatica, politica e pubblica si è concentrata su quella parte di mondo: televisioni, quotidiani e magazine cartacei e online, account social di varia natura hanno fornito un racconto ricco, visivamente dettagliato, costante e immediato della guerra – un turbinio di video, testi e immagini velocemente diffusi, riappropriati e remixati in un archivio digitale in continua trasformazione. Una guerra “così vicina da tenerla letteralmente nelle nostre mani”, come ha efficacemente sintetizzato Giovanni Boccia Artieri.
Le forme del racconto mass mediatico sono state caratterizzate dall’urgenza, dal monitoraggio costante, come nel caso di eventi che si immaginano di breve durata – “breaking news”, “live blogs” – e da un tono emotivo intenso, che ha promosso letture fortemente polarizzate della situazione. Durante questi mesi si sono sviluppati veri e propri generi narrativi, come gli articoli che raccontano delle defezioni dei soldati russi, quelli che invece mettono al centro storie individuali che testimoniano dell’eroismo quotidiano della popolazione ucraina, o quelli che fanno regolarmente il punto militare sulla guerra.
Dopo poco, tuttavia, l’attenzione ha cominciato a scemare. Considerando l’Italia, per esempio, la figura 1 mostra chiaramente la progressiva diminuzione del peso delle notizie relative all’Ucraina – sostituite da altri poli di attenzione (come da esempio in figura 2).
1MediaCloud è una piattaforma open source sviluppata da un consorzio di università e istituzioni nordamericane che permette di esplorare digital news media, broadcast e stampa (anche organizzati per raccolte geografiche). https://mediacloud.org/
La dinamica di attenzione mostra un trend comune in molti paesi: considerando i mass media di lingua inglese a livello globale, per esempio si può notare lo stesso andamento, che evidenzia un picco di attenzione nei giorni dell’invasione seguito da una progressiva e costante diminuzione di attenzione.
Anche sui social media si registra una dinamica simile – le figure 4 e 5 mostrano l’andamento dei post relativi all’Ucraina nel caso di Facebook e di Instagram, rispettivamente (il riferimento è il termine “Ukraine” che cattura sia le conversazioni anglofone sia, spesso, quelle in altre lingue che usano anche termini o hashtag in inglese per connettersi a una conversazione globale).
Molte letture, in Italia come altrove in Europa, hanno sottolineato l’eccezionalità in termini di copertura mediatica e di accessibilità anche visiva delle informazioni intorno all’invasione dell’Ucraina e alcuni commentatori ne hanno parlato come della prima “Social media war”, nella misura in cui le narrazioni sui social sono fonti di informazione che corrono parallele a quelle fornite dal giornalismo ufficiale. Si tratta di letture interessanti, che però vanno inquadrate in una prospettiva più ampia.
In primo luogo, non è scontato che l’attenzione mediatica abbia stesso andamento o la stessa intensità in tutto il mondo – come mostrano le figure seguenti.
In secondo luogo, quella in Ucraina non è l’unica, né la prima guerra di cui sono disponibili immagini e notizie in tempo reale, né che vede i social media come protagonisti importanti della narrazione. Da molti media nordamericani quella Ucraina viene definita la prima guerra su TikTok, per l’eccezionale numero di visualizzazioni di contenuti relativi al conflitto su questo social, che diventa quello principale per raccontare il conflitto – anche se certamente non l’unico: oltre a Facebook e Instagram, è importante ricordare che larga parte delle comunicazioni si muove su Telegram e che anche piattaforme come TripAdvisor e GoogleMaps sono state utilizzate come canali informativi alternativi per diffondere notizie sulla guerra in Ucraina in lingua russa (per un brevissimo periodo).
L’espressione ‘TikTok War’, introdotta dal New Yorker, si aggiunge alla prima guerra su internet (generalmente considerata quella in Yugoslavia) e alle YouTube (per esempio l’invasione dell’Iraq da parte degli USA e il conflitto siriano), Twitter e Facebook wars (le primavere arabe, il conflitto Israelo-Palestinese, i conflitti nel Kurdistan e in Iraq). Su Guerre di Rete, Andrea Nepori ricorda come il presidente ucraino Zelensky e il presidente USA Biden abbiano subito identificato il potenziale bellico di TikTok, chiamando a raccolta influencer (nel caso di Biden) o invitando le persone comuni (nel caso di Zelensky) a diffondere informazioni e a raccontare il conflitto. Altri definiscono quella in Ucraina come la prima guerra di ‘splinternet’, facendo riferimento al controllo che alcune entità statali, come la Russia e la Cina, esercitano sullo spazio digitale connesso ai loro server – quindi i racconti digitali sono profondamente diversi.
In generale, tra le molte, mi sembra importante qui mettere a fuoco tre dinamiche comunicative particolarmente interessanti. La prima riguarda la comunicazione di guerra di Russia e Ucraina, a partire dal linguaggio usato per raccontarla. Il presidente Putin parla di una “operazione speciale” al fine di “denazificare” l’Ucraina e di liberarne i territori – un’azione militare legittima, quindi, nel quadro di un’immagine della Russia come generosa e attenta ad aiutare le popolazioni vicine e della strumentalizzazione di alcuni momenti chiave della storia russa, anche recente. L’informazione interna è capillarmente controllata e alle accuse mosse dalla comunità internazionale e dai giornalisti ucraini in relazione, per esempio, alla strage di Bucha, il regime risponde con accuse di fake news e di propaganda. La cosiddetta “legge sulle fake news” del 4 marzo 2022 impone uno specifico linguaggio per parlare dell’invasione dell’Ucraina e introduce pene severissime – con la conseguenza di limitare moltissimo l’azione di alcune piattaforme (inclusa TikTok). In seguito alla legge, alcuni quotidiani indipendenti, come Novaya Gazeta, sono stati costretti a chiudere. Anche l’accesso ai social come Facebook e Instagram è bloccato, anche se molti cittadini vi accedono tramite VPN. Contemporaneamente, la guerra d’informazione si combatte anche attraverso la ‘cyberwar’ (attacchi e sabotaggi informatici). Il presidente ucraino Zelensky, invece, adotta uno stile comunicativo che mette al centro la “resistenza” all’invasore – famosi sono gli outfit militari e le fotografie che lo ritraggono nel suo ufficio e iconiche restano alcune immagini e post, come il video che segue i primi bombardamenti in cui il presidente ripete “We are still here”. Allo stesso tempo, consapevole dell’importanza della comunicazione nel contesto di un conflitto, il presidente ucraino ha mobilitato gli “esperti” e le élite culturali, dentro e fuori dal paese, e tutti i cittadini perché si attivassero nella Infowar – cioè nella guerra d’informazione– in particolare sui social. La narrazione di guerra racconta di una resistenza eroica che difende non solo il territorio ucraino ma, più in generale, i valori democratici.
Il presidente ucraino segue e interagisce con le narrazioni che arrivano “dal basso” e, naturalmente, cerca di mantenere alta l’attenzione sul conflitto, di attivare solidarietà e di responsabilizzare Europa e Stati Uniti anche attraverso i discorsi ai parlamenti. In questo senso, interessante è il caso di Vogue, che ha fatto una storia di copertina su Zelenksy e la moglie – vedendosi accusare di glamourizzazione del conflitto. E in effetti si tratta di immagini che hanno un impatto straniante e che tuttavia hanno fatto il giro del mondo. In questo senso, la guerra si gioca sul piano comunicativo in termini di linguaggio, simboli, narrazioni – come la Z da parte russa o le molte immagini dei contadini ucraini sui carri armati russi.
In questa direzione, invito a consultare Warlore, una pubblicazione di Undermedia che esplora la dimensione estetica del conflitto, l’iconografia diffusa, la guerra dei meme e alcune icone culturali in campo ucraino e russo, restituendone la complessità con un ricco lavoro di raccolta e analisi. Accanto alla strategia comunicativa del leader, la guerra di informazione è condivisa e diffusa tra la popolazione e molti sono gli strumenti che circolano sul web – per esempio, fin dai primi giorni di guerra sono stati condivise da parte di giornalisti e voci pubbliche in ucraina e altrove brevi schede riassuntive con le espressioni più adatte per raccontare “l’invasione” o “la guerra” contro l’Ucraina – e non “la crisi” ucraina, o il “conflitto ucraino” – o per descrivere i “territori occupati” e non le “zone separatiste”. Si invita, cioè, a porre attenzione al lessico, al linguaggio e alla grammatica usate per raccontare cosa sta succedendo.
La differenza in termini di visibilità e accessibilità rispetto ad altre situazioni di conflitto è certamente da inquadrarsi in chiave di visibilità politica
Una strategia in cui anche le immagini giocano un ruolo centrale. Il mostrare corpi morti, inclusi quelli di bambini, non è un tabù – le immagini circolano e vengono rilanciate costantemente. In parallelo alla decostruzione delle narrazioni, e come forma di sostegno, in Europa alcuni canali comunicativi sono stati chiusi per diffusione di fake news – per esempio, Sputnik e Russia Today.
Alla guerra di informazione prendono parte soggetti pubblici ma anche soggetti privati – TikTok in particolare è ricco di video che raccontano la guerra in tempo reale – video seri, che mostrano corpi straziati e rovine, ma anche video divertenti, video resistenti, video con una colonna sonora. Ed è questo un secondo elemento che mi sembra particolarmente rilevante sottolineare. Le persone che vivono quotidianamente la guerra – civili, soldati – la raccontano costantemente sui social, instaurando un meccanismo di identificazione e vicinanza che non si muove solo sul piano dell’empatia per le vittime, ma che mobilita anche un senso di connessione, di appartenenza a un medesimo universo culturale, fatto di riferimenti condivisi, pop e musicali, per esempio. Alcuni commentatori mettono in luce che questa forma di racconto non è esente da ambiguità – e tuttavia resta importantissimo.
La differenza in termini di visibilità e accessibilità rispetto ad altre situazioni di conflitto, incluse le primavere arabe, è certamente da inquadrarsi anche in chiave di visibilità politica. In questa direzione, l’Economist per esempio afferma che non si tratta della prima guerra sui social ma certamente della più virale. D’altra parte, queste forme di disintermediazione e reintermediazione della comunicazione mettono in luce la complessità delle dinamiche informative, in un quadro in cui proliferano fake news e disinformazione ma nel quale non sempre gli utenti hanno gli strumenti per identificarle. E infatti numerosi sono i rapporti di ricerca e analisi e i progetti di contrasto alla disinformazione e alle fake news sulla guerra che hanno visto la luce recentemente o che hanno re-diretto la propria attenzione sul conflitto in Ucraina.
Infine, pensando alle dinamiche di visibilità e di invisibilità, certamente si tratta di una guerra che è stata (ed è tuttora, anche se in misura minore) al centro degli sguardi, che ha catalizzato quasi istantaneamente e per un certo lasso di tempo l’attenzione nel cosiddetto “global North”. Molti post sui social (e articoli di commento) anche in Italia hanno sottolineato la “vicinanza” del conflitto ucraino come motivo centrale della visibilità. Certamente si tratta di una vicinanza simbolica, più che geografica, e in molti hanno sottolineato gli aspetti eurocentrici e razzializzanti di tale narrazione, che in effetti ha messo spesso al centro lo status “europeo” della popolazione ucraina. Più che chiedersi se effettivamente l’Ucraina sia “più vicina” all’Europa rispetto, per esempio, alla Siria o all’Armenia, credo sarebbe importante assumere il fatto che la visibilità sia una categoria politica e analizzare invece le implicazioni delle narrazioni emerse intorno alla guerra – tra cui, per esempio, la tendenza a leggere le scelte di Putin in una cornice patologizzante, più che politica – e i tabù discorsivi – interessante sarebbe per esempio capire come e perché il discorso pacifista, anche quando accompagnato a un pragmatismo che non nega l’invio di armi all’Ucraina, non trovi spazi di legittimità nel discorso più mainstream.
L’invasione in corso in Ucraina ha messo in luce il complesso mosaico che emerge dalla frammentazione della comunicazione online
In ogni caso l’invasione in corso in Ucraina ha messo in luce una serie di interessanti dinamiche comunicative e, insieme, il complesso mosaico che emerge dalla frammentazione della comunicazione online. Anche, ha messo in luce le tensioni e le frammentazioni delle società europee e della società europea. In un primo momento, l’Unione Europea ha risposto con voce comune, inquadrando l’invasione come un attacco alla democrazia – oltre che a uno stato sovrano. In breve tempo, però, hanno cominciato ad apparire spinte centrifughe, legate soprattutto alla volontà di difendere interessi “nazionali” – il che mette in luce la necessità di riflettere su cosa sia la UE per gli stati aderenti, quale sia la dimensione politico-valoriale che rappresenta e come sia possibile sciogliere il nodo della democrazia interna. Anche sul piano dell’opinione pubblica, l’invasione è un test importante per la democrazia. Da un lato perché apre la sfida di discutere di temi come “nazione” e “identità” in un quadro che non sia quello del populismo nazionalista. Dall’altro, perché mantenere aperta la possibilità di discutere e dialogare è quello che caratterizza una democrazia. Di fronte a una guerra nel Nord del Mondo, la società europea ha un’altra occasione di interrogarsi sulla sua identità – che sia in grado di rispondere, al momento sembra molto dubbio.