Sono uno scrittore. Ma sono anche un avvocato. Ho la sindrome di Tonio Kröger; sento di non appartenere fino in fondo ad alcun mondo. Diversamente da Tonio, però, non ho alcun desiderio in questo senso, anzi. Mi piace osservarli, questi mondi diversi, felicemente incompatibili, affascinanti, talentuosi, spesso pirandelliani, talvolta ridicoli. Soprattutto, il più delle volte, autoreferenziali, lobbistici. Pronti a difendersi, meno pronti a mettersi in discussione. È un male italiano. Bisognerebbe dare più soldi alla cultura! No, alla sanità! No, alla giustizia! E togliergli a chi? Agli altri, sempre.
I mondi che frequento, in genere, sono poco curiosi degli altri mondi. Anche quello letterario ha questo vizio. Non credo che gli scrittori dovrebbero confrontarsi di più tra di loro (mi pare che non facciano altro, continuando a farsi complimenti in faccia e a calunniarsi alle spalle), ma confrontarsi invece di più con quelli che non leggono i loro libri, con gli operai, gli autisti, i professori, le infermiere. Dire quello che pensano gli altri, non solo quello che pensano loro. Rappresentare (il legame che io vedo tra scrittura e avvocatura è proprio questo, si rappresenta qualcun altro). Essere centrali, nella società, per il fatto di saperla raccontare, immaginare. Eppure, lo scrittore è periferico, nella nostra società. Perché? Provo a semplificare.
La prima questione è il tempo che viviamo. La scrittura non è sempre stata primaria nelle società, nella generazione del senso delle società; lo è stata, forse, nel Settecento, certo nell’Ottocento. Il Novecento è più cinema e, poi, televisione.
Oggi viviamo forse il periodo storico in cui più si pratica l’esercizio di leggere e scrivere, ma Diocenescampieliberi; il medium che ci racconta, infatti, sono i social, lo spettacolo di sé stessi, la finta democrazia, tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio status di facebook con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La seconda questione è la società italiana, su questo aspetto più imbarbarita di altre, come la Francia o gli Stati Uniti (che hanno, peraltro, ben altri problemi ben peggiori dei nostri, ma non questo). Dalla centralità nel dibattito di un Ungaretti o un Montale (in giacca e cravatta), si è giunti – soprattutto in televisione – alla emarginazione dello scrittore. Alla ricerca del personaggio. La Merini era una poetessa ottima, ma non eccezionale, era ben meno di Luzi o Raboni. Certo, aveva la semplicità geniale di dire i sentimenti, la disperazione, la luce, ma era diventata la poetessa per eccellenza, la poetessa da teatro e tv, da grande pubblico, soprattutto per la sua tragica autobiografia perfetta. Incarnava l’idea di una poesia non centrale, ma eccentrica. Come tale; non rivoluzionaria, ma esotica. Non per tutti, non parte della vita ma, invece, parte dell’eccezione, della tragedia.
Davvero pensiamo che non valga per gli scrittori? Che per essere un vero scrittore non sia necessario, oggi, indossare una bandana o un basco? (Inciso: sarebbe curioso scrivere un pampleth su come si veste lo scrittore; se lo scrivessi io ci sarebbe una parte autobiografica su come passo dal mio dal guardaroba da avvocato a quello di scrittore, pur senza bandana e sempre in mocassini).
La terza questione è legata alle opinioni che esprimono gli scrittori. Siamo sicuri che non siano queste il vero problema? Siamo sicuri che gli scrittori di oggi non siano troppo buoni o troppi irreali, troppo comodi? È vero che nel nostro tempo il buon vecchio buonsenso è bandito, ma forse non è colpa nostra? Non siamo forse noi ad avere rinunciato all’epica, alla contraddizione? E questo lo dico solo perché sono fiducioso, perché appartengo a una generazione, quella degli scrittori trentenni, che mi pare molto promettente, ma forse ancora troppo timida; bravi ragazzi, belle teste, belle storie, poca trasgressione, con un’ambizione nuova, importante, impegnata di essere di nuovo importanti, utili per la società, ma forse senza (ancora) il coraggio che serve.