“Il posto fisso per i giovani non c’è più da anni”, dichiara, appena entrato in carica, il primo ministro italiano Matteo Renzi nella sua prima visita ufficiale a Berlino. Sogno e ossessione, fonte di sicurezza e talvolta anche di frustrazione, il posto fisso è un mito dei nostri tempi, una gabbia per alcuni, una chimera per molti. Ma è davvero così?
Nell’iconografia popolare italiana, nessuno meglio del ragionier Ugo Fantozzi ha saputo rappresentare le contraddizioni dell’impiegato italiano, la figura che nel nostro Paese incarna il concetto di “posto fisso”. Figlio del boom economico degli anni ’60 in Italia, Fantozzi Rag. Ugo – come scritto sulla porta del suo ufficio – è la quintessenza della forma di lavoro che gli studi di settore a livello internazionale definiscono “standard”, quella dipendente a tempo indeterminato. Con la sua routine mattutina, frenetica e ineluttabile, Fantozzi porta sullo schermo cinematografico il vivere cadenzato secondo i tempi dell’ingranaggio industriale, con tutti i suoi stereotipi e le sue piccolezze che lo rendono oggetto di vessazione – e di simpatia naturale da parte dello spettatore.
Oggi tutto questo non sembra esserci – quasi – più. La disoccupazione, soprattutto giovanile, segna nuovi record. I NEET, giovani che non studiano né lavorano, rappresentano un fenomeno in crescita in tutta Europa. La miriade di forme contrattuali, presente soprattutto in Italia ha spezzettato il lavoro in mille diverse specifiche, mentre il concetto di flessibilità emerso negli anni ’80 come fattore di produttività è andato sempre più sovrapponendosi a quello di precarietà, per molteplici ragioni.
L’uscita dalla crisi economica sembra passare solo da ricette che svalutano il lavoro, in direzione della simbolica cancellazione di quell’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che per alcune categorie di lavoratori non esiste più da anni – o non è mai esistito. Il “rifiuto del lavoro”, che fu rivendicazione forte degli anni ’70 come ribellione all’alienazione e alla routine del lavoro fisso, fa oggi il paio con la dimensione simbolica del posto fisso come chimera del presente. Come si è arrivati a tutto questo?
Facciamo un passo indietro. Come racconta Karl Polanyi ne La Grande Trasformazione, la nascita del lavoro “standard” così come lo conosciamo oggi è in stretta relazione con l’industrializzazione e l’istituzione dell’economia di mercato. Polanyi sostiene che la nascita del “mercato del lavoro” sia stato l’ultimo fattore, in ordine di tempo, a determinare l’istituzionalizzazione dell’economia di mercato.
Il primo esempio di “mercato del lavoro” come lo conosciamo oggi si manifesta infatti attorno al 1834, nell’Inghilterra in piena Rivoluzione Industriale, congiuntamente al fenomeno dell’urbanesimo che porta gli individui a lasciare le campagne in favore della città, in cerca di un impiego. Non solo il lavoro nelle campagne, ma anche l’artigianato tessile, che allora veniva definito “cottage industry” in quanto si svolgeva da casa, dai cottage, lascia il posto alla fabbrica dove ci si reca ad orari fissi, in un luogo di lavoro “altro”, le cui pratiche e modalità organizzative sono istituzionalizzate dentro tempi e modi prestabiliti, confini ben delimitati e gerarchie rigide.
E così mentre il soggetto collettivo della classe operaia prende forma, affiora anche la crescente necessità di tutele per quei lavoratori che spesso lasciano tutto per andare a lavorare in città. Nascono i primi sindacati, le trade unions moderne, attorno al 1824, legalizzate successivamente solo nel 1871 dal Royal Commission Act on Trade Unions, e nello stesso periodo inizia a diffondersi il pensiero marxista e comunista come critica socio-economica delle relazioni di classe nella società di massa e del modo di produzione borghese (1848, Manifesto del Partito Comunista, Karl Marx e Friedrich Engels). Il termine fordismo a partire dagli anni ’30 descriverà questa modalità di organizzazione del lavoro che prende a modello la produzione nelle fabbriche Ford, basata sulla catena di montaggio, e che origina dalle teorie di Frederick Taylor sulla produzione standardizzata (dette anche Taylorismo) le quali sono di fatto le prime teorie del management contemporaneo.
Nel frattempo la storia fa il suo corso, e due guerre mondiali inframmezzate dalla rivoluzione Russa trasformano la geopolitica internazionale. Il lungo periodo di pace che segue questi eventi permette alla nascente “società dei consumi” di affermarsi su larga scala come un sistema socio-economico che trova le sue fondamenta nel lavoro salariato e nella produzione industriale di beni che vengono venduti sul mercato. Ad alimentare questo processo sono i mass media, che attraverso la pubblicità stimolano la domanda di beni, decisiva per la salute del sistema.
In questo periodo, siamo negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, alla crescita economica si accompagnano alcune rivendicazioni e conquiste fondamentali per i lavoratori, immortalate in film come Made in Dagenham – in Italia tradotto (sic) discutibilmente con We Want Sex (Equality) – che racconta la lotta delle lavoratrici della Ford per paghe più giuste e equilibrate in termini di genere. Altri, come il capolavoro La Classe Operaia Va In Paradiso, sottolineano la condizione alienante del lavoratore dipendente, in particolare dell’operaio, e come in quel periodo vi fosse un crescente movimento di “rifiuto del lavoro”, che ha attraversato il ’68 ed il ’76, soprattutto in Italia.
Nello scontro ideologico fra capitale e lavoro si arriva rapidamente agli anni ’80, quando dentro a questo schema si inserisce la cosiddetta “rivoluzione manageriale”. Il sistema di separazione tra chi detiene il possesso dei mezzi di produzione – il capitalista – e chi non li detiene – l’operaio, il proletario – si frantuma nella crescita della centralità della figura del manager, che dei mezzi di produzione è gestore attraverso la struttura gerarchica dell’azienda. Mentre le teorie di Milton Friedman sul libero mercato si affermano attraverso campioni del neoliberismo d’Occidente come Margaret Thatcher e Ronald Reagan, e questi ultimi si adoperano con modalità più o meno brutali per ridurre l’importanza e il raggio d’azione delle trade unions, una nuova figura si affaccia sulla scena: è quello che Peter Drucker già nel 1942 aveva definito knowledge worker, il lavoratore della conoscenza.
Drucker sosteneva che nel futuro di lì a venire il management sarebbe diventato il centro della produzione del valore economico, grazie ad un crescente numero di lavoratori in grado di capitalizzare sulla base di skills come conoscenza ed informazione. Il lavoratore della conoscenza diviene centrale laddove la capacità di autorganizzazione si mescola alla liberalizzazione dell’agire economico e viene fagocitata dall’economia finanziaria, che negli anni ’80 assume un peso centrale nel sistema economico.
É la nascita della società postindustriale, ben descritta nell’omonimo libro da Daniel Bell, un altro pioniere, che nel 1973 riprende il filo dell’analisi di Drucker sottolineando la centralità del lavoro della conoscenza per lo sviluppo economico del futuro. Cosa succede dunque al lavoro, in questo periodo? Succede che si afferma l’economia finanziaria e le grandi aziende proliferano, mentre si espandono i lavori “in ufficio”. Il manager diventa così simbolicamente la rappresentazione del successo professionale in quello che di lì a poco verrà a essere chiamato post-fordismo, dove il successo economico si sovrappone alla dimensione simbolica e sociale di status e di lifestyle.
Anche qui sono la letteratura ed il cinema a venirci incontro con alcune meravigliose, crudeli ed esilaranti rappresentazioni. A livello internazionale, la figura più famosa in questo senso è probabilmente quella di Patrick Bateman, il protagonista di American Psycho, romanzo di Bret Easton Ellis e film cult. Bateman è una specie di Dr Jekyll e Mr Hyde della finanza,iconica rappresentazione dell’alienazione del lavoro postmoderno e della ossessione da riconoscimento sociale, di giorno manager rampante fissato con i brand, nel tempo libero assassino crudele e spietato, dipendente dal sesso. Particolare non di poco conto: ha 27 anni.
“Abito all’American Gardens Building, sull’81a West, 11o piano. Mi chiamo Patrick Bateman, ho 27 anni. Credo fortemente nella cura della persona, in una dieta bilanciata, nel rigoroso e quotidiano esercizio fisico. La mattina noto in genere un certo gonfiore intorno agli occhi, mi applico un impacco di ghiaccio e passo agli esercizi di stretching; ne conosco un migliaio. Tolto l’impacco di ghiaccio, mi detergo con una lozione che pulisce i pori in profondità. Per la doccia uso un gel detergente ai principi attivi. Quindi un sapone al miele e mandorle. E per il viso un gel esfoliante. Applico quindi una maschera facciale alle erbe che lascio agire per 10 minuti mentre proseguo nella mia routine. Uso sempre una lozione dopobarba con poco o niente alcol, dato che l’alcol secca la pelle e fa apparire più vecchi. Quindi una lozione emolliente, un balsamo antirughe per il contorno degli occhi e infine una lozione protettiva idratante. C’è una vaga idea di Patrick Bateman, una sorta di astrazione. In realtà non sono io, ma una pura entità, qualcosa di illusorio. Anche se so mascherare la freddezza del mio sguardo, e tu puoi anche stringermi la mano e sentire la mia pelle a contatto con la tua, e persino arrivare a credere che i nostri stili di vita sono perfettamente comparabili… la verità è che io non sono lì.” (Patrick Bateman, American Psycho, 2000)
In Italia la dimensione aziendale e manageriale nell’iconografia popolare si rifà alla cosiddetta Milano da bere, dove la crescita dell’industria dei media, della pubblicità e della comunicazione si accompagna alla dimensione di arrivismo del ceto medio borghese, che trova riconoscimento simbolico nel rituale dell’aperitivo e nel consumo smodato. Emblema di questa rappresentazione è il film Yuppies, esilarante commedia dove i protagonisti vivono nell’illusorio mito di Gianni Agnelli e Silvio Berlusconi. La figura dello yuppie, acronimo e crasi di young professional, di cui Bateman è rappresentazione tragica, è contraddistinta dall’emulazione dello stile di vita americano e dall’ostentazione simbolica dell’ascesa sociale attraverso oggetti di consumo, come orologi costosi e abiti firmati.
“Qui nessuno lavora più, tutti fanno qualcosa di artistico.” (Cheyenne, This Must Be The Place, 2011)
In questo periodo germogliano i semi che porteranno al lavoro come è oggi, nella contemporaneità. Il primo è il contraddittorio rapporto con la tecnologia, che sempre più attraverso il computer va ad occupare un ruolo centrale nelle pratiche lavorative. Mentre negli anni ’70 le macchine erano viste come strumenti in grado di alleviare la fatica del lavoratore, ora sempre più spesso vengono a rappresentare ciò che “toglie” il lavoro che precedentemente veniva eseguito dall’essere umano – il quale, a causa dell’utilizzo delle macchine, diventa superfluo. Nel contempo, le politiche del lavoro vanno sempre più in direzione della flessibilità, altro concetto simbolico che ha ormai superato i suoi stessi confini esondando inesorabilmente verso la precarietà. Le tutele decrescenti del posto di lavoro si accompagnano ad una pluralità di contratti a termine, atipici e di collaborazione sino a varie forme di lavoro gratuito, che di fatto trasformano il posto fisso da solida realtà ad autentica chimera.
Arriviamo così all’inizio del XXI secolo, quando i concetti di flessibilità e managerialismo, tecnologia, lavoro e lifestyle collassando tutti uno sull’altro dentro l’idea di classe creativa. Portata all’attenzione del grande pubblico da Richard Florida, l’idea di classe creativa va a rappresentare quel variegato ensemble di professionisti della comunicazione che condividono uno stile di vita che mette insieme le logiche della flessibilità precaria, con il riconoscimento sociale dato da uno stile di vita cool, che sull’altare di lavori altamente soddisfacenti da un punto di vista simbolico e di status spesso nascondono, o fanno finta di non vedere, le condizioni altamente precarie della loro esistenza.
La rivendicazione di un lavoro pagato prima dei trent’anni nelle professioni della conoscenza è spesso vista come un’assurdità, ed anche dileggiata con espressioni come “intanto sei giovane, devi fare esperienza” o “per questo progetto non c’è budget, ma può darti visibilità”, come rivendicato dalla campagna #coglioneNO sul mondo creativo. Una generazione perduta che il sogno del posto fisso l’ha riposto nel cassetto da tempo, anzi cui forse non interessa nemmeno più.
Oggi gli effetti della crisi hanno ulteriormente complicato un quadro già di per sé problematico e frammentato. I dati più recenti per l’Italia mostrano un calo del 30% delle assunzioni a tempo indeterminato dal 2008 a oggi. Il “posto fisso”, probabilmente, è già superato dalla realtà, oltre il mito, oltre la narrativa che lo connota. Nuove professioni emergono dalla Rete e nella Rete, con tempi e modi di lavoro diversi, basate sulle reti sociali, caratterizzate da una iperconnessione 24/7 e da una separazione della prestazione lavorativa dal luogo in cui la stessa avviene. Ciò cui stiamo assistendo somiglia ad una vera e propria trasformazione strutturale del lavoro che porta in primo piano la figura dei freelance, che secondo un recente rapporto europeo rappresentano ormai il 15% del totale della forza lavoro europea (un lavoratore su sette), con un trend di crescita da almeno dieci anni. Non solo: il 45% dei cittadini lavoratori europei dichiara che ad un lavoro dipendente preferirebbe un lavoro indipendente, in quanto in grado di dare maggiore libertà, indipendenza e autosufficienza.
Spesso, però, questo non è possibile. E proprio nelle professioni della conoscenza, due mondi si scontrano: da un lato i “garantiti”, i dipendenti, che pagano una proporzione abnorme di tasse direttamente trattenute da una busta paga. E dall’altro i “non garantiti”, che una busta paga non l’hanno perché precari o perché non la vogliono avere. Liberi professionisti, lavoratori indipendenti, in gran parte nel settore della comunicazione e dei servizi, i freelance rappresentano una forma di lavoro in rapida ascesa eppure restano ancora oggi il vero buco nero della politica economica dell’Italia contemporanea.
Vessati da più governi, stigmatizzati come evasori per definizione, restano sullo sfondo di politiche del lavoro ancorate a un paio di decenni fa, che sottovalutano se non addirittura ignorano un settore che è in espansione non solo per congiunture cicliche dell’economia post-crisi, ma per ragioni più direttamente strutturali, figlie di una trasformazione socio-economica che va in direzione di micro-imprenditorialità e auto-imprenditorialità. E così proliferano le startup e i coworking spaces, i liberi professionisti e i freelance, in particolare sotto i trent’anni, che associandosi tra loro provano a riprendersi il futuro imponendo nel contempo una rinnovata attenzione all’impatto sociale dell’agire economico, e una ventata di innovazione.
Il “nuovo lavoro” è già qui, e il posto fisso non sembra contemplato, dentro all’idea che il lavoro non si cerca: si crea. Proprio come nella cottage industry, prima della rivoluzione industriale. I giovani, in questo senso, rappresentano un vero “mito nel mito”. La “gavetta”, in seguito alle politiche di flessibilità degli scorsi decenni, per loro sembra essersi dilatata all’infinito – un’eterna attesa per un’occasione che sembra non arrivare mai. Non solo: secondo uno studio recente, realizzato dalla Bentley University (Massachussets) e in procinto di pubblicazione, si calcola che i Millennials, coloro che sono nati negli anni ’80 e ’90 e che entro il 2025 saranno la maggioranza della forza lavoro, sono caratterizzati da skills e da una modalità organizzativa del lavoro che è differente rispetto al passato, con una maggiore tendenza all’indipendenza e all’autorganizzazione.
Non amano strutture gerarchiche arbitrarie, orari fissi né l’obbligo di adempiere il proprio compito seguendo uno specifico processo stabilito, quando possono ottenere lo stesso risultato in modo più efficace. Così la transizione strutturale che cavalca l’onda della tecnologia diventa quasi scontro generazionale, mentre la politica non capisce o sembra avere altro a cui pensare. E il futuro, nel frattempo, è già presente.
“Io, Pina, ho una caratteristica: loro non lo sanno, ma io sono indistruttibile, e sai perché? Perché sono il più grande “perditore” di tutti i tempi. Ho perso sempre tutto: due guerre mondiali, un impero coloniale, otto – dico otto! – campionati mondiali di calcio consecutivi, capacità d’acquisto della lira, fiducia in chi mi governa… e la testa, per un mostr… per una donna come te” (Ugo Fantozzi, Fantozzi contro tutti, 1980)
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