Il Turco meccanico fu inventato nel 1770 dal barone ungherese Kempelen per esaudire i desideri dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Era un manichino dal volto scuro, con una pipa in mano e vestito all’orientale, capace di giocare a scacchi e di battere persone comuni e personaggi celebri, da Benjamin Franklin a Napoleone.
Si trattava ovviamente di un’impostura – dietro l’automa si nascondeva un povero scacchista in carne ed ossa – ma tanto credibile da acquistare fama mondiale e duratura. A smascherare l’inganno, dopo ben settant’anni, fu Edgar Allan Poe con Il giocatore di scacchi di Maelzel.
Oggi sembra una storia incredibile, ma tanta ingenuità non deve stupire: si era all’inizio della Rivoluzione industriale, un periodo nel quale la fascinazione per il progresso tecnologico (oltre che per l’esotismo) era grande e con essa la convinzione che le macchine avrebbero sostituito l’azione umana in molti campi, a partire dal lavoro.
Con una singolare scelta di candore, Turco meccanico (Mechanical Turk) si chiama anche il servizio di crowdworking lanciato da Amazon nel 2005: una piattaforma attraverso cui aziende e privati commissionano ad una folla di turkers seduti davanti ai propri computer piccoli incarichi da svolgere on line. Proprio come per l’originale, i turchi sbrigano compiti che, contrariamente alle credenze comuni, le macchine non sanno fare – verificare errori di battitura, effettuare trascrizioni, inserire tag – in cambio di una modesta retribuzione (in media due dollari l’ora) o di crediti da spendere su Amazon.
Mechanical Turk è solo una tra le più note delle tante logistic companies che, prive di infrastrutture e lavoratori propri, si impongono oggi sul mercato come piattaforme on line di coordinamento tra domanda e offerta di beni e servizi, secondo un modello sperimentato agli inizi della rete (Webvan, Kozmo) ma che solo in tempi recenti ha assunto dimensioni davvero significative (Taskrabbit, Clickworkers, Crowdflower).
È l’irresistibile ascesa dell’on-demand economy o, per dirla con un sempre più diffuso neologismo, l’uberification dell’economia, che sta provocando una profonda trasformazione dell’organizzazione produttiva e del lavoro.
Lavoratori “alla spina” ha definito l’Economist la massa di forza lavoro indipendente e disponibile a richiesta, la quale si combina con il crescente desiderio di rapidità e convenienza cui le nuove tecnologie hanno abituato i consumatori. Non stiamo parlando solo di lavoretti per arrotondare: oltre che freelance di ogni genere (Freelancer, Elance-oDesk, Tongal), ad essere arruolabili on-demand sono oggi avvocati (AxiomLaw), consulenti (Eden McCallum) medici (Medicast, Heal) e top manager (Talent Group).
L’on demand economy sembra essere l’ultimo sviluppo della sharing economy, un’espressione sempre più spesso utilizzata per descrivere la “condivisione” del proprio tempo, oltre che dei propri beni. Che siano la stanza o il tempo liberi, ad essere offerte sul mercato sono capacità sottoutilizzate, secondo un processo di assimilazione del lavoro alle merci fatto palese dalla pubblicità dell’ultimo nato in casa Amazon, Home Services, in cui un lavoratore è consegnato a domicilio dentro un grande scatolone, come qualsiasi altro prodotto. I consumatori sono i sicuri vincitori di queste novità.
Grazie alle on-demand companies, lussi da ricchi diventano oggi alla portata di molti: l’assistente personale (Fancy Hands), il posteggiatore a richiesta (Luxe), il personal shopper (Instacart), il massaggiatore con lettino al seguito (Zeel), e ogni sorta di bene a domicilio, compresi marijuana (ma solo a scopi terapeutici, Eaze) e alcolici (Saucey). Basta individuare un settore nuovo, applicare la formula magica dell’on-demand economy ed ecco creata “The Uber of X”. Il bilancio per i lavoratori è meno netto.
I pessimisti affermano che queste piattaforme, presentandosi come semplici marketplace, contrabbandino per “micro-imprenditori” veri e propri lavoratori dipendenti, e creino in questo modo un mercato del lavoro privo di regole. La possibilità stessa di essere pagati o di continuare a lavorare – si osserva – è spesso alla mercé di scelte insindacabili del committente e di sistemi di rating contro i quali non è possibile alcuna tutela. Video come quello di Bassam Tariq, pubblicato dal New Yorker qualche tempo fa, descrivono con crudezza cosa possa voler dire “turking for living”.
Gli ottimisti affermano, invece, che queste piattaforme offrono la possibilità di lavorare a chi preferisce la flessibilità sulla certezza, non è in grado di accedere al mercato tradizionale o cerca solo qualche soldo extra. E che, parallelamente alla scomparsa delle tutele tipiche del lavoro salariato e sindacalizzato, stiano sorgendo nuove forme di welfare altrettanto efficaci. Oltretutto – si aggiunge – le nuove forme economiche aiutano un mercato già da tempo in sofferenza e contribuiscono a colmare il gap tra vecchie e nuove generazioni, specialmente in posti come l’Europa dove il solco è più profondo.
Nel frattempo si moltiplicano pratiche e proposte ispirate dall’esigenza di redistribuire il valore prodotto tra capitale e lavoro e di contrastare la crescente esternalizzazione del rischio d’impresa sui lavoratori.
Si diffonde l’idea di trasformare il platform capitalism in platform cooperativism attraverso la gestione diretta del servizio o la contrattazione collettiva del lavoro. Per questo si guarda con interesse a modelli come La Zooz, che in Israele gestisce un servizio di ride sharing su base cooperativa, o Fairmondo in Germania, un sito di e-commerce orientato al sociale. Del resto – ragionava qualche tempo fa un articolo su The Nation dal titolo inequivoco, Socialize Uber – se buona parte del capitale impiegato da queste imprese è di proprietà dei lavoratori, perché non riconoscere loro anche i relativi profitti?
Al di là dei modelli organizzativi, si cerca di creare un ecosistema che favorisca la produzione di beni sociali e relazionali e sostenga pratiche improntate a reciprocità e mutualismo: micro-pagamenti per remunerare chi crea e condivide informazioni come proposto da Jaron Lanier, un modello di proprietà intellettuale che privilegi i commoners sui soggetti for profit (commons-based reciprocity licence), monete complementari (FairCoin) e infrastrutture di rete (Guifi.net).
La riflessione, pur se stimolante, è ancora agli inizi e gli sforzi sono rivolti innanzitutto alla creazione di canali di comunicazione. Contro l’isolamento in cui si ritrova una massa dispersa di persone si creano organizzazioni di categoria (Freelancers Union) e luoghi virtuali di dialogo (Turkopticon, Reddit). L’enorme successo dell’ashtag #talkpay, lanciato da Lauren Voswinkel su Model View Culture per il primo maggio, è solo l’ultimo dei casi che mostrano quanto sia sentita l’esigenza di un confronto sulle condizioni del lavoro e ancora pochi i luoghi per soddisfarla. Tutto è già scritto, dunque? Niente affatto.
Le dinamiche dell’on-demand economy sono ancora molto instabili ed il futuro delle sue imprese non per forza roseo. In assenza di investimenti ingenti per entrare sul mercato, la minaccia costante di nuovi concorrenti spinge ad operare con margini di profitto molto bassi e talvolta insostenibili nel lungo periodo; e sul piano organizzativo mancano strumenti paragonabili a quelli dell’impresa gerarchica per la formazione e specializzazione dei lavoratori.
Sotto il profilo giuridico, poi, è facile prevedere ostacoli di tipo regolativo, soprattutto in tema di inquadramento del lavoro, ma è sul versante dell’innovazione tecnologica che si gioca una partita decisiva. “Organizzazioni esponenziali” (ExO) sono state definite le imprese, come Uber o Airbnb, capaci di crescere ad un ritmo dieci volte superiore rispetto alle modalità lineari delle imprese tradizionali, grazie all’uso di tecniche organizzative che sfruttano tanto il cambiamento tecnologico quanto una gestione innovativa della forza lavoro. Ed è proprio sull’incerta linea di confine di questa “nuova divisione del lavoro” tra staff on demand e lavoro automatizzato che si giocherà molto del futuro di lavoratori e imprese.