La promessa in campagna elettorale era senza dubbio suggestiva: garantire un reddito minimo a tutti coloro che ne hanno bisogno, in modo da contenere i continui ribassi salariali, dare uno stimolo deciso ai consumi, rilanciare la crescita, facendo leva su tutti quei settori della società colpiti pesantemente dalla crisi.
Da molti quella promessa è stata letta come un sogno possibile, un’opportunità da non perdere per tornare in carreggiata, e per questo motivo, specie al Sud dove le ripercussioni della crisi sono state più violente, il consenso è stato travolgente, una vera e propria valanga di voti.
In questo senso, è impossibile non affermare che la legittimazione del M5S non sia stata popolare.
Forte di questa consapevolezza, il capo politico del movimento ha fatto letteralmente di tutto per portare a casa il risultato: ogni qualvolta ce ne sia stato bisogno il reddito di cittadinanza è sempre stato posto come una pregiudiziale discriminante per la tenuta del governo gialloverde. O il reddito di cittadinanza o il voto.
Non stupisce, quindi, l’euforia manifestata da Di Maio sull’accordo raggiunto per portare il deficit al 2,4 per cento. Trovate le coperture economiche, quella notte il reddito di cittadinanza è diventato realtà. Le immagini delle bandiere pentastellate festanti sotto il balcone di palazzo Chigi hanno fatto il giro del mondo.
Esaurita la sbornia, però, è giunto il momento di trasformare quelle promesse in realtà. Aver trovato i fondi non basta, occorre anche dare corpo a quell’insieme di aspettative e desideri che tanta parte di elettorato ha espresso e continua ad esprimere tutt’ora.
Sul piatto ci sono 10 miliardi. È una delle poche certezze. Le altre vanno ricercate nel programma elettorale del M5S, nel programma di governo scritto assieme alla Lega, nelle tante dichiarazioni di Di Maio e Di Battista, e in quelle più recenti del viceministro all’Economia in quota pentastellata, Laura Castelli.
Purtroppo tutto lascia supporre che quelle promesse saranno in parte disattese.
Tuttavia in queste settimane è emerso anche un nuovo scenario, per certi versi imprevedibile: l’insieme delle misure presentate come reddito di cittadinanza sembrano destinate a modificare in maniera duratura l’assetto del nostro welfare. Potrebbero, addirittura, trasformarlo in un workfare, una condizione inedita, in linea con quel che è accaduto anche in altri Stati europei. Ma andiamo con ordine.
Cosa sarà il reddito di cittadinanza
Stando a quanto dichiarato dagli esponenti del governo, il reddito di cittadinanza sarà un reddito minimo a integrazione di quello personale fino a una data soglia, calcolata in 780 euro al mese.
Differentemente da quanto molti ritengono, la platea a cui è rivolto non sarà molto vasta, e la sua erogazione sarà sottoposta a vincoli stringenti.
Chi sono i beneficiari e perché non sono tanti quanto ci si aspetterebbe
Il cosiddetto reddito di cittadinanza non sarà una misura di tipo universalistico che andrà in maniera indiscriminata a tutti i disoccupati. Non andrà nemmeno alla platea totale dei poveri relativi e assoluti. Le coperture sono sufficienti a soddisfare solamente una parte dei poveri assoluti, selezionati in base all’ISEE.
Dai dettagli fin qui forniti dal governo, i beneficiari di questa misura di integrazione al reddito saranno:
- i poveri assoluti che posseggono un ISEE corrispondente a poco più di 9000 euro annui. Dovrebbero essere circa 3,4 milioni di persone. Il condizionale è d’obbligo perché molti di questi potrebbero possedere dei beni in grado di far loro superare quella soglia ISEE;
- i pensionati che attualmente percepiscono un assegno inferiore ai 500 euro mensili (circa 1,68 milioni di persone), sempre a patto che il loro ISEE non superi la soglia dei 9000 euro annui;
- gli stranieri a patto che siano residenti in Italia da almeno dieci anni.
Fatti i conti, la platea di chi prenderà realmente 780 euro è molto ristretta. Ai beneficiari di quella che è già stata ribattezzata pensione di cittadinanza andranno circa 280 euro al mese (la differenza tra la pensione minima percepita e la soglia di 780 euro), mentre ai beneficiari del reddito di cittadinanza andranno mediamente 350/400 euro al mese (la differenza tra il reddito che percepiscono attualmente e la soglia di 780 euro). I famosi 780 euro di cui tanto si è discusso saranno versati solo a chi non ha nulla.
Da notare come gran parte dei beneficiari del reddito di cittadinanza corrisponderanno con i beneficiari del Reddito di Inclusione (REI). Ciò segna – per lo meno nella definizione dei beneficiari – un tratto di continuità con quanto fatto dal precedente governo.
Quali sono vincoli e perché hanno a che fare col workfare
In cambio dei benefici, i percettori del reddito di cittadinanza dovranno:
- lavorare gratis per lo Stato 8 ore a settimana;
- non rifiutare più di 3 proposte di lavoro congrue (aggettivo scivolosissimo difficile da quantificare), che lo Stato si impegna a fare loro all’interno di un arco temporale di 2 o 3 anni (ancora la durata non è stata confermata);
- garantire un certo periodo (ancora non definito) di occupazione, naturalmente anteriore alla scadenza del contratto accettato.
La presenza di questi vincoli non è un dettaglio da poco, anzi. Per molti versi rappresentano l’aspetto genuinamente innovativo della proposta pentastellata.
Il REI non prevedeva alcuna prestazione lavorativa in cambio dei benefici economici, soltanto la stesura di un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa, formulato e redatto dai servizi sociali del Comune, assieme al Centro per l’impiego, i servizi sanitari, le scuole, e le Onlus. Era una misura tutto sommato simile ad altre forme di integrazione al reddito sviluppate in passato (e.g. il SIA). Per ottenere il beneficio bastava rientrare nei parametri reddituali. Non vigeva alcun altro obbligo.
La clausola delle tre proposte di lavoro cambia profondamente le modalità di erogazione di questo tipo di benefici. Di fatto farà transitare il nostro modello di welfare da un sistema assistenziale di tipo tradizionale a un vero e proprio workfare di tipo neoliberale, sul solco di quanto è già avvenuto in altri Stati europei.
Per i non addetti ai lavori, il termine workfare letteralmente significa: work for welfare, lavorare per avere un beneficio, descrive tutti quei sistemi di welfare all’interno dei quali la concessione di forme di integrazione al reddito sono vincolate a prestazioni lavorative.
Che il M5S guardi con favore a tali modelli è ormai palese. Le dichiarazioni di Di Maio, a tal proposito, sono state molto chiare:
“Non darò un solo euro a una persona che vorrà stare sul divano senza fare nulla ha ribadito. Con il reddito di cittadinanza facciamo un patto: vai nel centro per l’impiego, dove ti impegni per 8 ore a settimana nei lavori utili e intanto ti devi formare per un lavoro. Passi la giornata così, poi ti faccio tre proposte di lavoro. Se le rifiuti, perdi il reddito, se le accetti, perdi il reddito”.
È una trasformazione strutturale non da poco, una sorta di rivoluzione copernicana delle politiche di sostegno sperimentate nel nostro paese. Ed è anche una rivoluzione dai contorni ancora incerti.
Gli scenari possibili sono tanti e tutti molto nebulosi. Nessuno ha gli strumenti per poter valutare cos’accadrà nel prossimo futuro. È possibile però fare riferimento ad esperienze simili, specie se sono state prese ad esempio dall’attuale governo nella formulazione della propria proposta.
Workfare e libertà individuale
Uno dei rischi più diffusi in quasi tutti i sistemi di workfare sin qui implementati riguarda la libertà dei singoli: spesso sono violate in nome del sussidio statale.
Il fatto che lo Stato si impegni a proporre almeno tre lavori congrui impone dei vincoli molto stringenti ai beneficiari del reddito di cittadinanza. Potrebbe darsi, infatti, che almeno una delle tre proposte sia realmente congrua; in quel caso il circuito diventa virtuoso e il beneficiario della misura viene (re)inserito con successo nel mondo del lavoro.
Se, però, nessuna della proposte è ritenuta congrua dal beneficiario, superati i due dinieghi egli dovrà comunque accettare l’ultima mansione, pena l’esclusione del beneficio. Tale obbligo limita, di fatto, la sua libertà di scegliere un lavoro congruo, specie se è costretto dall’indigenza ad accettare. Purtroppo non finisce qui.
Per essere nelle condizioni di poter accettare almeno l’ultima proposta, egli dovrà essere sempre reperibile – dato che tale proposta potrebbe arrivare in qualunque momento, ed essere decisiva per il mantenimento del proprio reddito.
Come se non bastasse, la coazione ad accettare ridurrà enormemente il suo potere negoziale nei confronti del datore di lavoro che potrà dunque forzare la mano sia dal punto di vista salariale che dal punto di vista degli impegni orari.
Se tutto ciò dovesse verificarsi, il reddito di cittadinanza si trasformerebbe in un dispositivo disciplinare totalizzante.
In Germania esiste un modello molto simile a quanto proposto dai pentastellati, è il programma Hartz 4. Anche lì la condizione cardine per poter accedere al beneficio è direttamente collegata all’accettazione di qualunque lavoro venga proposto dalle agenzie del lavoro.
In un noto documentario, tale modello viene descritto da chi è costretto a subirlo come “un vero e proprio inferno”.
Una delle sue storture più evidenti è stata spesso oggetto di critiche feroci: la creazione di un esercito di “prigionieri del lavoro”, persone che ciclicamente vengono impiegate in lavori dequalificanti con brevi contratti a termine, per poi tornare a usufruire del reddito di cittadinanza, per poi di nuovo tornare a dover accettare lavori dequalificanti e così via all’infinito.
Al momento, non ci sono ragioni per ritenere impossibile che ciò non avvenga anche in Italia. Non tutti sono nelle condizioni di poter lavorare A rendere tutto più complicato è la composizione di coloro che per semplicità etichettiamo come “poveri assoluti”. Non esiste un povero assoluto standard, né delle caratteristiche peculiari che permettono di definire con chiarezza cos’è un povero assoluto. È una figura molto frastagliata all’interno del quale convivono disoccupati, precari, famiglie numerose, donne o anziani soli, stranieri, clochard e tanto altro ancora.
Tra questi, al di là di quanto erroneamente si ritiene, non tutti sono nelle condizioni di poter lavorare. Alcuni hanno qualifiche talmente basse e/o talmente specialistiche da rendere difficile (se non impossibile) la loro ricollocazione in un mercato del lavoro sempre più competitivo, profondamente mutato rispetto al passato.
Per loro, i centri d’impiego (tutti ancora da riorganizzare) possono fare davvero poco. Servono tempo, percorsi formativi seri, un minimo di stabilità economica, un orizzonte temporale ampio, per poter “tornare in carreggiata”.
Discorso analogo per le donne solo con pesanti carichi famigliari (figli, parenti che necessitano di cure, etc.): senza servizi accessibili e di qualità (come asili nidi o prestazioni assistenziali a domicilio) difficilmente potranno accedere a misure di workfare.
Lo slogan “Attivarsi per cercare lavoro” funziona solo per una certa fascia di persone, per lo più giovani, senza figli, con un grado discreto di scolarizzazione, gli stessi profili che hanno meno probabilità di finire in povertà.
Per tutti gli altri, ammesso che ottengano il reddito di cittadinanza, c’è un’elevata probabilità che tale beneficio venga perso dopo il terzo rifiuto consecutivo. Ciò allontana parecchio dalla promessa di “abolire la povertà” coniata da Di Maio.
È prevedibile che prenda forma e si consolidi, invece, un’ulteriore segmentazione dei poveri su base geografica; da una parte i poveri assoluti appartenenti a regioni virtuose all’interno delle quali i servizi erogati consentiranno loro di usufruire del beneficio; dall’altra i poveri assoluti appartenenti a regioni meno virtuose e che, per tale ragione, saranno costretti a rifiutare.
Workfare e salari
Come ogni sistema di workfare che si rispetti, anche il reddito di cittadinanza inciderà in maniera significativa sui salari. Bisognerà capire se al rialzo o al ribasso.
Se fosse una misura universalistica sarebbe lecito prevedere un effetto rialzo: chi lavorerebbe per 500 euro al mese, sapendo di poterne guadagnare 780 anche senza lavorare? Con ogni probabilità nessuno. Ciò di fatto porterebbe i salari minimi a 780 euro. Sotto quella soglia, sarebbe inutile aspettarsi che qualcuno offra le proprie prestazioni.
Tuttavia, come detto sopra, non siamo in presenza di una misura universalistica:il reddito di cittadinanza non è rivolto a tutti, ma solo a pochi, e soltanto in ossequio alla regola del tetto massimo dei tre rifiuti. Ciò modifica parecchio le previsioni.
Proviamo per un attimo a metterci nei panni di un datore di lavoro che propone paghe da 500 euro. Con l’introduzione del reddito di cittadinanza i suoi dipendenti si dividerebbero in due gruppi: quelli che potranno scegliere se abbandonare o meno il posto di lavoro (perché appartenenti alla platea del reddito di cittadinanza) e quelli che dovranno continuare a lavorare per 500 euro al mese.
Tra quelli che potranno scegliere:
- un gruppo continuerà a lavorare per 500 euro al mese, accontentandosi dei 280 euro di integrazione proposti dallo Stato;
- un gruppo abbandonerà. I suoi componennti accederanno ai 780 euro, ma saranno vincolati a dover accettare qualunque lavoro verrà successivamente proposto loro.
Naturalmente potranno essere fortunati, e ritrovarsi a lavorare in un posto migliore dopo un breve periodo di disoccupazione; ma nulla vieta che potrebbero essere sfortunati (o anche parecchio sfortunati) e ritrovarsi a dover lavorare a condizioni molto peggiori per paghe ancora più basse (in modo da non perdere i 780 euro complessivi).
Dal punto del vista del datore di lavoro cambia poco, dovrà solo scegliere se: rimpiazzare quei lavoratori con altri lavoratori che non possono accedere al reddito di cittadinanza; o entrare in contatto con un centro d’impiego e aspettare tutti quei lavoratori che, costretti dalla regola dei tre rifiuti, non potranno più dir loro di no. In ogni caso non dovrà ritoccare al rialzo il salario, non occorre. Potrà anzi permettersi di diminuirli, forte della consapevolezza che lo Stato andrà comunque a integrarli, portandoli a 780 euro mensili, ovvero alla soglia minima di sopravvivenza.
Tra l’altro, quando il sistema andrà a regime, e sarà chiaro che parte di quei famosi “lavori che nessuno vuole fare” andranno a ingrossare le file dei lavori proposti dai centri d’impiego, la platea di chi sarà disposto ad abbandonare il proprio posto di lavoro si ridurrà al lumicino. Ciò aiuterà non poco tutti quei datori di lavoro che intenderanno abbassare ulteriormente il proprio costo del lavoro.
Se dovessero andare così le cose, l’effetto finale più scontato, dunque, sarebbe quello di un dumping al ribasso del costo dei salari, non il contrario.
La riforma dei centri d’impiego
Per poter mettere in pratica il reddito di cittadinanza, il governo dovrebbe usare 10 miliardi: 7 finanziati con debito pubblico e 3 finanziati mediante la trasformazione di REI, NASPI e Dis. Coll (tutte misure di welfare) in reddito di cittadinanza.
Di questi 10 miliardi, 9 dovrebbero andare al reddito di cittadinanza, 1 a riformare i centro d’impiego. Basterà 1 miliardo a operare questa trasformazione strutturale? È molto probabile che la risposta sia negativa.
La situazione attuale dei centri d’impiego è disperata. Secondo le stime collocano solo il 4% delle persone che fanno richiesta. I motivi sono tanti e variegati. Volendo riassumerli potremmo dire che: soffrono di carenza di personale, di carenza di attrezzature e di carenza di competenze. Parliamo di poco più di 8 mila operatori, solo il 26 per cento dei quali ha conseguito un titolo universitario (il 17 per cento al Sud), il 56 per cento si ferma al diploma superiore e un 13 per cento addirittura alla licenza media. La loro platea andrà integrata in maniera decisa, mediante un concorso ad hoc che necessiterà di tempo e denaro, due variabili molto critiche.
Gli operatori, però, da soli non bastano. Sono del tutto assenti figure chiave: orientatori e psicologi, personale amministrativo, consulenti aziendali e giuristi, tutte professioni molto costose, eppure necessarie per garantire la piena riuscita del reddito di cittadinanza. Anche per loro andrebbero banditi dei concorsi ad hoc, ossia altro tempo e altro denaro.
Servirà tempo e denaro anche per garantire la formazione del personale già esistente, per affittare o acquistare i nuove sedi, per acquistare materiale informatico (hardware e software), per rinnovarlo se obsoleto.
Servirà infine del budget per riuscire a far aumentare le aziende che si avvalgono di tale servizio che, al momento, è poco appetibile. Insomma quella dei centri per l’impiego è una riforma che necessita di un orizzonte temporale di lungo termine.
Dato che 1 miliardo è poco per realizzare tutto questo (in Germania, l’Hartz impiega centomila persone, non ottomila), è plausibile che si opti per un sistema misto pubblico/privato utilizzando le tante agenzie interinali già presenti sul territorio, con tutti i rischi che questa scelta inevitabilmente potrebbe comportare.
Il sogno infranto
Il sistema sin qui descritto è molto lontano da quanto promesso in campagna elettorale. Il sogno di una misura universalistica, capace di abolire povertà assoluta e relativa e di estendere i consumi è destinato a infrangersi.
Siamo in presenza, piuttosto, di un sistema molto simile al programma tedesco Hertz 4 attuato mediante un sistema misto di collocamento pubblico/privato.
Al momento è difficile prevedere se gli effetti della sua introduzione saranno positivi (rilancio dei consumi di prima necessità, piena occupazione dei poveri assoluti) o negativi (dumping al ribasso dei salari, iniezioni di quote di lavoro non retribuito, peggioramento generale del potere negoziale di alcune fasce di lavoratori). Di sicuro trasformerà il nostro modello di welfare in un workfare di stampo liberista, con buona pace di quanti, specie a sinistra, lo ritengono un meccanismo di redistribuzione del reddito.
Immagine di copertina: ph. Ethan Hoover da Unsplash