Il capitalismo è un polmone d’acciaio

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    Qualche settimana fa mi sono svegliato, come spesso accade, di mattina presto. Ancora nel dormiveglia ho iniziato a sentire tutto un parlamento di uccellini richiamarsi e organizzarsi per il nuovo giorno.

    Mi dicevo: sarà l’aurora di una giornata di bel tempo; e già pregustavo gli esercizi del mattino, il primo raggio di sole tra gli alberi, il profumo del caffè, la colazione. Ma mi dicevo anche: strano, le altre mattine non avevo fatto caso a tutto questo concerto.

    Allora, cercando a tastoni l’iPhone lasciato la sera prima in modalità “Aereo” sul comodino, mi sono reso conto che in realtà era ancora pieno inverno, ancora buio pesto alle sette meno un quarto, e che in effetti lo smartphone stesso era la vera sorgente di quel soundscape primaverile. Pigiata – con uno sforzo parossistico di fine motricità dell’indice – la scritta “Interrompi” (sadicamente più piccola delle altre), mi sono alzato, compreso e deluso. Il giorno prima, installato l’ultimo aggiornamento di iOS, mi ero ritrovato a giocare con la nuova funzione “Sonno”: avevo regolato una durata ideale, scelto una suoneria per la sveglia – quella degli uccellini appunto, che mi era sembrata una buona idea – poi me ne ero completamente dimenticato. Ed ecco che ora quegli uccellini virtuali mi avevano svegliato: esotici, registrati chissà dove; o alieni, creati dal nulla con un sintetizzatore da un ingegnere del suono hipster della Silicon Valley.

    Continuano a svegliarmi ogni mattina ancora adesso, perché al mio orecchio addormentato suonano comunque meglio degli altri jingle e musichette ed effetti. Anche se uso “Sonno” né più né meno che come una sveglia, quindi, ignorando le altre sofisticatissime parametrazioni e opzioni che avrà indubbiamente, il mio telefono si prende cura del mio sonno grazie all’omonima funzione.

    We scratch our eternal itch

    A twentieth century bitch

    And we are grateful for

    Our iron lung

    C’è una crescente appification non solo della sfera cognitiva, ma anche – comincia a essere evidente e scontato, il che vuol dire che siamo già a uno stato avanzato del processo  – della vita fisiologica. Non solo di quella più complessa – il regime alimentare, l’attività fisica, la gestazione –, ma anche di quella più elementare – la semplice deambulazione, la pressione arteriosa, il ritmo sonno-veglia (appunto) – giù giù fino alle funzioni vitali, il battito cardiaco e la respirazione. Il bisogno che qui sembra soddisfatto e al contempo suscitato è di replicare nel quotidiano, come se nulla fosse, il monitoraggio a cui è normalmente sottoposto un paziente in terapia intensiva. Stiamo parlando cioè di strumenti funzionali a stili di vita che richiedono una terapia intensiva permanente, ma discreta, portatile, con una bella interfaccia utente e un sacco di opzioni. Sopravvivenza e performance si confondono, perché davvero non è più chiaro se l’idea sia che tutto questo possa servire a tenere il ritmo e non soccombere, oppure a dotarsi di reali vantaggi competitivi. O a tutt’e due le cose, e insieme a nessuna, perché non potrebbe essere più evidente e tangibile (sul touchscreen) che si tratta di forme di estrazione di valore dalla vita più nuda. Il biocapitalismo in un’app.

    Ci sono, manco a dirlo, anche le app per la mindfulness. Le più note sono Headspace, che conta ormai oltre cinque milioni di utenti, e Buddhify. Queste due spiccano per design, interfaccia e concezione in un’offerta molto ampia che va da semplici timer per meditazione dove le opzioni si limitano a una scelta più o meno interessante di parametri e suoni di campana a raccolte espandibili di meditazioni guidate a tema. Se Headspace punta su una proposta di programmi di meditazione, da quello di dieci minuti al giorno per neofiti a tabelle di marcia più avanzate, Buddhify si caratterizza invece per un’attenzione alla situazione, proponendo un accesso diretto a meditazioni a tema per vivere con consapevolezza viaggi, stress, emozioni difficili, insonnia ecc., ma anche pause pranzo e passeggiate nella natura. Però le differenze non sono poi sostanziali, e soprattutto com’è ovvio in entrambe è molto forte l’elemento social.

    Una recente tendenza interessante consiste poi nel combinare le app per la mindfulness con i device di fitness tracking e activity tracking usati con le app per lo sport o con quelle per il monitoraggio delle funzioni biologiche. Per esempio, sull’Apple Watch con watchOS3 è stata introdotta la nuova app Breathe, che altro non è se non un’animazione ipnotica di un fiore-mandala stilizzato azzurrino che si apre e si chiude, si apre e si chiude, si apre e si chiude per un tempo e a un ritmo regolabili. L’idea è rilassarsi stando a fissarla e provando a seguire la cadenza col respiro, sempre che nel frattempo non arrivi una telefonata o una notifica, nel qual caso la sessione è annullata e lo sforzo meditativo vanificato.

    Di gran lunga più sofisticato è il sensore Spire – Mindfulness and activity tracker, un oggetto di design che permette di monitorare e visualizzare sullo smartphone il proprio pattern di respirazione, offrendo poi una quantità di opzioni che vanno da semplici istruzioni sulla regolazione del respiro a una selezione di meditazioni guidate di maestri di diverse tradizioni.

    Ma chiediamoci: perché per sviluppare la consapevolezza del respiro, eventualmente per regolarlo, e in generale per meditare, dovremmo aver bisogno di un’app e di un device? Stiamo parlando, può essere utile ricordarlo, di tecniche millenarie le cui origini in oriente risalgono alle più antiche tradizioni yogiche e che anche in occidente hanno lasciato tracce nella filosofia arcaica. Nessuno yogi, nessun Buddha, nessun sapiente ha mai avuto bisogno di un’app.

    Il loro insegnamento è che non abbiamo bisogno di essere più bravi, più brillanti, più capaci, più aggiornati e in generale migliori degli altri, cosa che invece il nostro ambiente ci ordina di fare ogni giorno, ma che si tratta di scrostare via i condizionamenti che non ci fanno vedere come stanno davvero le cose. Di scoprire che per essere felici non abbiamo bisogno di nulla che già non abbiamo, che andavamo già bene così come siamo veramente. Questa consapevolezza si traduce in un sentimento profondo – che è anche pratico e politico, ma è privo di dogmi, teorie, perfino di una vera e propria etica – di immedesimazione e collaborazione con gli altri.

    Intendiamoci, non si tratta di essere reazionari, antitecnologici per partito preso, tutt’altro, ma di fare attenzione alla dimensione sociale del fenomeno. Se anche in questo campo un’app può tornare in qualche modo utile ai contemporanei che siamo, ben venga. Ma se aspiriamo a coltivare la consapevolezza, è utile prima di tutto cercare di essere consapevoli delle condizioni e delle implicazioni della colonizzazione – e ora anche dell’appification – della vita organica, cognitiva e spirituale da parte del sistema economico vigente.

    Per quanto “stilosa” sia la forma in cui si manifesta concretamente come oggetto o frammento di codice, il capitalismo è un macchinario che ci induce perfino a respirare al ritmo che detta lui, per di più facendoci credere che sia una nostra scelta libera e ispirata. La colonizzazione neoliberista si spinge a voler neutralizzare la più intima possibilità di autonomia. Non può riuscirci fino in fondo, ma può distrarci a lungo, quindi è meglio fare attenzione. Il capitalismo è un polmone d’acciaio. Le tecniche del respiro sono pratiche di liberazione.

    Note