Cantare il low-tech ma senza tornare al medioevo

Il fisico Sergio Giudici mi racconta di un suo docente universitario che amava ripetere: “ogni volta che c’è un guasto, controlla, nell’ordine, uno: meccanica, due: elettricità, tre: elettronica e quattro: informatica.” In una società in cui hi-tech è la parola chiave, sinonimo di sviluppo, e in cui addirittura si fantastica di delegare all’Intelligenza Artificiale scelte delicatissime umane e politiche, non è male ricordare che il mondo che ci circonda non è fatto soltanto di elettroni che sciamano o di scambi di bit, ma anche di cospicui blocchi di materia organizzata. Il low-tech è onnipresente ma non ha un cantore; propongo di farmi l’araldo di una filosofia del low-tech, ovvero di una messa in prospettiva che gli permetta di avere una voce e di far parte di conversazioni su quello che vogliamo fare del nostro ambiente artificiale oggi e nel futuro anche lontano. Questa voce direbbe che c’è un enorme margine di sviluppo nella bassa tecnologia, e al tempo stesso denuncerebbe gli sprechi enormi a non esplorare tale margine. Ricorderebbe anzitutto che il low-tech serve a far funzionare lo hi-tech; dai binari dei treni ai cavi elettrici alle pulegge degli ascensori. Osserverebbe che i tempi del low-tech sono a volte lunghissimi, epocali: si leggono libri di carta da secoli, si usa la propulsione a vela da millenni, e si continuerà a farlo probabilmente assai ancora a lungo. E questa voce farebbe alcune considerazioni sulla crisi ecologica e la geopolitica dell’energia. Anzi magari cominciamo da qui.

In una precedente crisi energetico-politica, la Russia aveva ridotto in pieno inverno il gas all’Ucraina, e l’Ucraina aveva bloccato le esportazioni verso l’Europa occidentale. Un Ministro del governo Berlusconi, Claudio Scajola, era andato in televisione per chiedere agli italiani di tenere il coperchio sulle pentole quando facevano bollire l’acqua per pasta, per risparmiare energia. Forse ci aveva fatto sorridere, ma aveva ragione. Si può calcolare che venti milioni di coperchi ben posati, con la cottura che dura diciamo cinque minuti in meno, sono cento milioni di minuti di erogazione di gas risparmiati a ogni pasto. (Ovvero l’equivalente di una fiamma tenuta accesa per centonovant’anni: a ogni pasto.)

I pannelli solari, certo, ma prima di puntare tutto sul fotovoltaico e l’estrazione di silicio e litio (per le batterie), possiamo anche coprire i tetti del Paese del Sole con gli scaldabagni low-tech che vediamo dappertutto in Grecia da decenni, serbatoi con un serpentino nero esposto al sole cocente: almeno d’estate, non è un peccato usare il gas importato per avere acqua calda per la doccia? Il solare termico non dovrebbe avere una priorità sul fotovoltaico? Siamo quasi al fai-da-te, come vi mostreranno decine di tutorial sul web.

Un architetto milanese aveva progettato delle case popolari con riserve termiche colossali, semplici cisterne d’acqua interrate che vengono scaldate d’estate e restituiscono calore d’inverno. La soluzione è generalizzabile?

E già che ci siamo,non potremmo dedicare un pensiero all’acqua potabile che usiamo per docce, bagni, le piante sul balcone, e soprattutto e incredibilmente per gli sciacquoni? C’è un ampio margine qui!

Se questa prima tornata non fosse una fonte d’ispirazione sufficiente, la voce del low-tech potrebbe parlarci dei nostri vicini alpini e transalpini. Nonostante il Referendum del 1987, l’Italia consuma (ipocritamente?) energia atomica, acquistata prevalentemente dalla Francia, ma in transito notturno per la Svizzera. Come mai? La Francia vende un eccedente di produzione notturno alla Svizzera, che usa l’energia (a basso costo) per pompare l’acqua a valle e riempire le dighe a monte; l’acqua ridiscende poi di giorno e produce energia (più cara) che rivende all’Italia. Le montagne elvetiche sono un enorme accumulatore di energia potenziale.

Gli svizzeri sono maestri nell’uso della coppia low-tech acqua+gravità. A Friburgo una funicolare funziona incessantemente dal 1899 riempiendo a monte il contrappeso con le acque grigie e svuotandolo a valle (tanto quelle acque devono scendere comunque). In pratica, ogni volta che vi lavate le mani a monte, contribuite a far viaggiare i vostri concittadini sulla funicolare.

Ma l’energia potenziale è una miniera enorme da sfruttare nelle città di tutto il mondo. Ogni ascensore è un accumulatore di energia. Il contrappeso è tipicamente tarato sul peso della cabina più la metà del peso medio dei passeggeri. Questo lieve eccesso permette di stoccare l’eccedente energetico (per esempio usando la produzione notturna delle eoliche per richiamare a terra una cabina vuota), per poi liberarlo a richiesta. Potremmo vedere tutto il nostro parco ascensori come una immensa catena di batterie per stoccare energia, contribuendo così in parte al problema del funzionamento discontinuo delle rinnovabili.

Direte che tutto questo è molto nerd e poco filosofico. La voce del low-tech a questo punto proverà a provocarci, a suggerire che ci potrebbe essere una visione politica dietro alla scelta di lavorare a fondo sulle basse tecnologie. Possiamo abbassare di un grado il riscaldamento in casa, ma si sa bene che azioni come questa richiedono un’immensa coordinazione di comportamenti individuali, sono difficili da verificare o eventualmente sanzionare, e poi ci sono sempre i no-cold, i contrarianti per principio che metteranno il termostato a trenta gradi. La filosofia del low-tech dovrebbe allora parlarci di un low-tech strutturale. Gli ascensori hanno due caratteristiche: usano la gravità per generare energia, ed esistono già, a milioni. Secondo Thomas Fong della New School gli ascensori ci invitano a ripensare il nostro modello economico. Il ciclo innovazione-sviluppo passa da un paradigma rodato, difficile da scalzare: nuovi investimenti significano nuove infrastrutture, ma quindi nuovi oggetti e quindi ulteriori produzioni, tipicamente energivore.

Al tempo stesso, cantare il low-tech non significa tornare al medioevo. In alcuni casi le sacche di efficienza del low-tech potrebbero venir potenziate dall’integrazione in “grids” intelligenti, come si potrebbe fare proprio per gli ascensori. Ma il primo passo da fare è concettuale e filosofico: comprendere il low tech, per separare una volta per tutte l’idea di innovazione da quella della produzione di gadget digitali dalla vita breve.

 

Questo articolo è stato precedentemente pubblicato su la Domenica del Sole 24 Ore che ringraziamo per la disponibilità

Immagine di copertina di Aditya Chinchure da Unsplash