Repressione e tolleranza del dissenso in rete

I discorsi sulla Internet violenta sembrano da qualche tempo aver soppiantato la retorica ottimista sul ruolo di Internet come orizzonte positivo di emancipazione. Luogo di stupidità, di offesa e prevaricazione, frequentata da “legioni di imbecilli”, la rete è stata recentemente accusata di ogni nefandezza. Queste accuse si presentano spesso come boutade mediatiche, umorali e soprattutto non argomentate. Per questo si sentiva la mancanza di un libro come “L’odio online” (2016), appena uscito per i tipi di Raffaello Cortina.

L’autore, Giovanni Ziccardi, al contrario dei tanti soloni che ininterrottamente disquisiscono di questo tema su giornali e blog, ha dedicato la sua vita di ricercatore proprio al delicato rapporto fra reti e sistemi giuridici, tanto che i suoi lavori – ricordiamo, fra gli altri “Internet, controllo e libertà” (2015) o ancora “Hacker – Il richiamo della libertà” (2011) – sono diventati dei classici per lo studio delle dinamiche politico/giuridiche dei media digitali. Diciamo subito che anche questo suo ultimo contributo non tradisce le aspettative. Imponente e dettagliato, esauriente e ricco di esempi, “L’odio online” si presenta come una disamina a volo d’uccello sulle più attuali questioni che la grande conversazione internettiana pone quando il gioco si fa duro, quando l’odio prende il sopravvento, i toni precipitano e le parole diventano cattive, avvelenando la relazione fra gli utenti on e offline.

Basta scorrere l’indice di questo prezioso volume, per capire quanto di questioni capitali si tratti: odio politico, razziale, religioso, omofobia, cyberterrorismo, stalking, bullismo, sono solo alcune delle forme che l’hate speech può assumere online. Temi di sicura rilevanza politica che quotidianamente tengono banco nell’agenda globale ma anche e soprattutto problemi esistenziali che toccano da vicino la vita quotidiana delle persone, la loro capacità di rappresentarsi ed interagire liberamente in rete. Ecco perché leggere questo libro, denso e opportunamente accademico, può essere utile anche ai non addetti ai lavori, a coloro che, per i più disparati casi della vita, si trovino a voler approfondire la delicata questione che lega libertà di pensiero e responsabilità della parola dal punto di vista giuridico e più generalmente sociale.

Cominciamo col segnalare un pregio del lavoro. In anni di deprecabile determinismo tecnologico, il libro mostra di non cadere nel tranello di postulare, come fanno, più o meno consapevolmente, molti politici, un “mondo nuovo” della rete, considerando i fenomeni di intolleranza che quotidianamente dalla rete provengono come fenomeni specifici, determinati da essa. L’odio, purtroppo o per fortuna, non è un’invenzione di Internet e la questione di come regolare il dissenso è costitutiva del discorso politico. Proprio per questo, sono preziosi gli approfondimenti storici e filosofici che il libro propone sui diversi modi di intendere e trattare l’odio politico nei vari contesti storici e legislativi.

Un tale incardinamento culturale è, anzi, la chiave che può rendere finalmente intellegibile il fenomeno dell’odio nella sua forma internettiana, oltre ogni isteria legata ai spiacevoli fatti di attualità (terrorismo in primis) a cui la questione si presta ad essere accostata. Si potrà, così, riflettere sul fatto che, nella giurisprudenza, esistano almeno due linee di pensiero sulla gestione delle manifestazioni di odio. Da una parte, c’è il mondo anglosassone e americano che, pensando l’agone politico come free marketplace of ideas, tende a essere indulgente verso le manifestazioni d’odio a patto che esse non costituiscano un pericolo di ordine pubblico documentabile e imminente. Dall’altra, l’approccio europeo, costituitosi a partire dalle dure esperienze di violenza politica costituite da nazismo e comunismo, molto più attento e cauto sulle attestazioni di odio anche generiche in grado di fomentare divisioni sul piano etnico, religioso, politico e sessuale.

La libertà di pensiero in rete si ritrova a vivere, così, in una sorta di precario equilibrio, fra repressione e tolleranza del dissenso, sospesa fra un approccio aperto e libertario accusato spesso di sottovalutare il germe dell’odio e uno che alla sacrosanta necessità di tutela delle identità di gruppo e dei singoli oggetto di manifestazione d’odio non esiterebbe a sacrificare la altrettanto sacrosanta libertà di poter esprimere il proprio dissenso nei confronti del potere. Va da sé che una differenza di questa portata abbia delle ricadute sul modo in cui la rete finisce per affrontare il problema, non foss’altro che perché i più importanti player della svolta 2.0 sono americani ma agiscono su contesti, culture, territori diversi con sistemi giuridici ancora diversi.

Questa difformità di vedute è essa stessa fonte di conflitto, nella misura in cui sempre più spesso stati e gruppi di interesse locali ricorrono legalmente contro provider e piattaforme di discussione online cercando di limitare la proliferazione di manifestazioni scomode o politicamente urticanti, perfettamente legittime se interpretate alla luce della giurisprudenza americana. Non di rado, peraltro, la necessità di tutelare la reputazione delle persone, moneta di scambio fondamentale nello scenario social in cui viviamo immersi, si scontra con il rischio che la discrezionalità attribuita a chi deve far corrispondere intenzioni a comportamenti specifici venga utilizzata con leggerezza o, peggio ancora, con malafede al fine di censurare e alterare di fatto il libero scambio di idee. È anche per questo che moltissime compagnie del web 2.0 hanno nel tempo modificato le loro policy in modo da renderle sempre più specifiche e ridurre il livello di discrezionalità e di interpretazione necessario ad applicarle, scegliendo volontariamente di pagare il prezzo di un’apparente stupidità delle loro regole (il capezzolo no!).

Ma in che cosa, davvero, la rete, come specifico tecnologico-sociale, contribuisce a complessificare il quadro rispetto alla questione storica dell’odio politico? L’autore identifica alcuni tratti caratteristici della nuova sfera pubblica determinata dalla rete particolarmente sensibili nella costituzione e nella diffusione dell’odio online. Innanzitutto, i contenuti dell’odio in rete sono permanenti, rimangono tracciabili per anni dai motori di ricerca e sono soggetti a dinamiche di ritorno imprevedibile, potendo essere rilanciati da server a server, da utente a utente, in modo da rendere la vita davvero difficile a chi volesse affrancarsene anche chiedendo tutela legale di propri legittimi interessi.

D’altro canto, i contenuti online possono effettivamente beneficiare delle possibilità offerte dall’anonimato, sempre più difficile ad oggi ma tuttavia praticabile e praticato da attivisti e soggetti interessati a far circolare contenuti invisi o censurabili dal potere. In ultimo, la persecuzione dei contenuti d’odio online si scontra con la transnazionalità intrinseca della rete, che spesso impone di agire su sistemi legali lontani, rendendo ogni azione costosa e difficilmente praticabile. Questi assi offrirebbero un boost sensazionale alla proliferazione dei discorsi d’odio. Ogni azione volta a contrastare la loro diffusione, per essere veramente efficace, deve, allora, essere pensata e portata avanti all’interno del nuovo paradigma relazionale di Internet, ovvero, di regola, al contrario, di come il politico medio, in genere poco avvezzo alla cultura digitale, penserebbe di procedere.

Che fare, quindi?
Innanzitutto, puntare sulla educazione, sulla consapevolezza e sulla critica del senso comune che circola nelle reti. L’educazione si rivela un asse fondamentale di azione contro le tante forme di stupidità che liberamente devono poter circolare in rete: saperle riconoscere è una caratteristica fondamentale di una completa cittadinanza digitale. Poi, bisogna prendere la parola. Sebbene le forme d’odio agiscano soprattutto per ridurre al silenzio i loro bersagli, di fatto escludendo coloro che vorrebbero portare ragionevolezza nella discussione, la logica della rete da un’enorme importanza alla contro-parola in termini non solo di argomenti ma soprattutto di distribuzione e reperibilità sui motori di ricerca: non rinunciare a criticare l’odio online, dandolo per male necessario, secondo l’autore, è fondamentale. Ci sono poi alcuni accorgimenti editoriali e tecnologici che possono essere adottati per limitare i discorsi d’odio. Stilare liste di parole e/o tag che richiedano più attenzione da parte del moderatore è stata una via molto battuta anche se facilmente aggirabile dagli utenti più scafati. Confinare le discussioni più violente, frequentate da provocatori, in aree marginali del layout editoriale si è, invece, spesso rivelata un’ottima ed efficace alternativa alla censura, spuntando l’arma del vittimismo che spesso l’odiatore utilizza per denunciare di essere vittima della repressione da parte del moderatore di turno.

D’altra parte, tutte le caratteristiche che il lettore impara a riconoscere come punti di forza strutturali della rete per la diffusione d’odio sono perfettamente rovesciabili, rivelandosi come formidabili strumenti per la promozione di discorsi socialmente vantaggiosi. Decentralizzazione, apertura, un’auspicata regolamentazione corretta e transnazionale della rete sono caratteristiche che permettono a chi voglia operare per contrastare l’odio online di farlo efficacemente. Un esempio su tutti. Il deep web (ovvero l’accesso ai network di Tor) è nei discorsi superficiali sulla sicurezza online ammantato di una sorta di alone misterioso, presentato come bassofondo dove tutto è permesso e dove si possa agire in barba alle leggi. L’autore nota efficacemente come, se è vero che ogni sistema sociale produca una sua periferia e che quindi sia innegabile che Tor sia spesso frequentato da utenti poco raccomandabili, i fatti dimostrino che l’intelligence operi attivamente su questi spazi virtuali. Proprio l’apertura e l’accessibilità di questi network stanno fanno sì che anche il deep web non sia al di sopra della legalità e che agire illegalmente su questo tipo di canali comporti fatali rischi e conseguenze.

C’è, poi, la gigantesca questione del business legato all’odio online, alle sue manifestazioni, al valore economico e politico che esso produce per aziende interessate a fare facili quattrini, oltre che per partiti e uomini politici reazionari che scommettono tutto su sentimenti negativi e di chiusura. È proprio da questi versanti che provengono i più pericolosi richiami al sacrificio della libertà in nome della sicurezza, nonostante i fatti mostrino come ogni arretramento su questo fronte si riveli, oltre che inutile, sicuramente deleterio. I dati, infatti, non confortano affatto la facile equazione che associa violazione della sfera personale degli individui a maggiore sicurezza. Quando meccanismi di controllo digitale forte sono stati messi in atto – in particolare, verso sospettati di reati legati al terrorismo religioso – essi si sono rivelati irrilevanti e successivamente penalmente superflui.

I paladini del politicamente corretto e i tanti interessati propugnatori della sicurezza si ritrovano così a sostenere un punto di vista affine sulla rete più che criticabile. Pensare che Internet sia un luogo “speciale” e che per questa sua specialità vada specialmente considerato nasconde, infatti, inevitabilmente una pericolosa volontà di dominio, non importa se suggellata dalle più nobili intenzioni. Ecco perché “l’apertura ai massimi livelli dell’architettura di Internet e dei contenuti che vi circolano, la non eccessiva criminalizzazione dei pensieri di tutti gli utenti, lo sviluppo di nuove tecnologie automatizzate per il controllo semantico delle espressioni violente in rete e una costante opera di educazione, di redazione di policy interne ad hoc e di disseminazione di counter speech sembrano essere l’arma migliore per combattere l’odio online”. Parola di Giovanni Ziccardi.