Ezio Manzini è uno dei maggiori studiosi italiani e mondiali di design per la sostenibilità ed è fondatore di DESIS, un network internazionale su design per l’innovazione sociale e la sostenibilità. Il suo ultimo libro si intitola “Abitare la prossimità. Idee per la città dei 15 minuti” pubblicato da Egea. In questa intervista, svolta da Daniela Selloni (ricercatrice in design dei servizi al Dipartimento di Design del Politecnico di Milano) si racconta in particolare una visione di prossimità legata al tema dei servizi che sono offerti e fruiti nelle città. Nel corso del dialogo emerge un concetto affascinate, vecchio e nuovo allo stesso tempo, ovvero quello della la città che cura. Come fare a progettarla e realizzarla è la questione che scaturisce da questa conversazione. Una questione fertile e aperta ad ulteriori sviluppi e interpretazioni.
Partiamo dalla domanda più ovvia: perché hai messo il concetto di prossimità al centro di questo libro? E perché hai scelto proprio questa parola?
Trovo che “prossimità” sia un concetto generativo. Che ci permette di fare connessioni non banali tra diversi temi. Temi che, a loro volta, erano sotto traccia da tempo e che il Covid19 ha portato in superficie: il futuro delle città e lo scenario della città dei 15 minuti o, come io preferisco chiamarla, della prossimità. La distribuzione territoriale dei servizi e delle attività commerciali e produttive, e le economie di prossimità che essa può generare. Le relazioni di cura, in una società in cui i cittadini sono sempre più ridotti al ruolo di utenti e clienti. E, infine, la nostra natura di organismi fisici in un mondo ibrido dove la componente virtuale guadagna terreno.
Il concetto di prossimità che descrivi è poli-semantico e nel tuo libro proponi differenti declinazioni. Sono interessata in particolare alla prossimità legata al tema dei servizi, dato che mi occupo di service design. Potresti chiarire meglio questa relazione?
A partire da John McKnight , 25 anni fa, fino a Hilary Cottam oggi, si è discusso di come e perché la società dei servizi, così come fino ad ora si è presentata, diventi una società senza cura. Una società in cui i cittadini, invece di essere considerati persone in grado di stabilire relazioni di (reciproca) cura, vengono spinti nel ruolo utente-cliente di servizi professionalizzati.
Mi pare che il concetto di prossimità, nella sua duplice dimensione funzionale e relazionale, ci possa aiutare ad uscire da questa problematica condizione. Infatti, poiché c’è una precisa relazione tra cura e prossimità, esso può portare alla nascita di una nuova generazione di servizi di prossimità: servizi che siano relazionali (che producano empatia, fiducia, reciprocità) e distribuiti sul territorio (cioè vicini alle persone interessate). Servizi che, in questo modo, siano anche collaborativi ed operino come infrastrutture abilitanti di nuove comunità di luogo.
Le esperienze fatte nel campo dell’innovazione sociale ci dicono che ciò può avvenire agendo su diversi piani: portare i servizi vicino ai cittadini (localizzare); favorire la costruzione di comunità (socializzare); estendere la rete degli attori coinvolti (includere); coinvolgere attori inizialmente non previsti (diversificare); connettere orizzontalmente diverse aree di intervento (coordinare). Tutti e cinque questi piani d’azione sono importanti, ma quello cruciale, quello senza il quale neanche gli altri possono avere successo, è il secondo: costruire comunità.
Dunque la dimensione territoriale è fondamentale… puoi spiegarti meglio?
Partiamo da un dato oggi quanto mai evidente: la tragedia del Covid19 ha posto a tutti, con grande e drammatica attualità il tema della territorialità dei servizi e, in particolare dei servizi sociosanitari. Essa ci ha infatti mostrato quanto sia stata miope una politica che, ricercando l’efficienza nell’erogazione delle prestazioni dei singoli servizi (considerati ciascuno isolatamente), ne ha fatto perdere di vista la dimensione necessariamente territoriale e di prossimità.
Ma non c’è solo questo. L’importanza della territorialità, e quindi della collocazione nello spazio fisico di tutte le attività umane (e quindi anche dei servizi) sta riemergendo anche per altre ragioni. Dico riemergendo perché, in realtà, nel nostro passato premoderno, è sempre stata tenuta in gran conto. Poi però, con la modernità, con i trasporti di massa, con le telecomunicazioni e, in fine, con la connettività, si è teso a non considerarla più. O, addirittura, a vederla come un vincolo da superare.
Abbiamo forse colpevolmente trascurato la dimensione fisica dei servizi?
Sì, ma non solo. Abbiamo anche teso a dimenticare che tutti i servizi hanno una dimensione fisica e questa sta da qualche parte nello spazio. E quindi sta in relazione con altre entità che, nel loro insieme, compongono un sistema di prossimità. Ne deriva che ciò che esso genera non dipende solo dalle sue specifiche proprietà, ma anche dalle caratteristiche del sistema di prossimità di cui è parte, e dalla sua collocazione in esso.
Mi spiego meglio. Nel linguaggio corrente, si dice che un’attività “ha luogo”. Cioè avviene in uno spazio più o meno popolato da altre attività che, nel loro insieme, costituiscono un luogo. Mettere a fuoco il tema della prossimità ci aiuta a ricordarcelo, anche quando, come oggi accade, il baricentro delle nostre attività si sposta verso il mondo digitale. Il tema della prossimità ci ricorda infatti che, anche quando lavoriamo o studiamo online, il nostro corpo è situato da qualche parte nello spazio fisico. Non solo. Ci dice che anche quando le organizzazioni operano nelle reti lunghe del mondo globale, hanno pur sempre una dimensione fisica e relazionale che si colloca in un sistema di prossimità. Cioè in quell’intrico di reti brevi che sono i luoghi.
L’attenzione ai sistemi di prossimità è dunque rilevante sia per i soggetti individuali (le persone), sia per quelli collettivi (le organizzazioni). Con riferimento alle persone, è chiaro che i loro percorsi di vita implicano l’attraversamento di un continuum di attività e servizi che compongono il sistema di prossimità in cui sono immerse. Considerare questo sistema, e non i singoli elementi che lo compongono, è la mossa che ci permette di incidere sulla loro esperienza del mondo. E quindi sulla qualità della vita.
Con riferimento alle organizzazioni, la loro esistenza e le loro attività sono influenzate anche dal sistema di prossimità in cui operano, e di cui esse stesse sono parte. Il che può generare localmente frizioni o sinergie, configurando diverse economie di prossimità: economie che tengono conto del fatto che ogni attività avviene (anche) in un sistema di prossimità.
Come si articolano dunque i servizi nelle economie di prossimità?
Nella discussione di questi anni, parlando di economie di prossimità, ciò cui più spesso si è pensato sono le attività produttive e di servizio che hanno un mercato o un bacino d’utenza locale. È questo il tema, giustamente molto discusso, dei negozi e dei servizi di prossimità, e della contraddittoria condizione in cui si trovano. Essi sono infatti da tempo messi in crisi dalla grande distribuzione e dalle consegne a domicilio mentre, allo stesso tempo, si riconosce il valore sociale che essi producono creando relazioni di vicinato e senso di sicurezza. A fronte di questa contraddizione stanno nascendo delle strategie di supporto tendenti a riconoscerne il valore sociale, ad aiutarle a mantenere i loro clienti locali e, quando possibile, a ricercare sinergie tra diversi nodi del sistema di prossimità. Quest’ultima strategia mi sembra particolarmente rilevante: collegando tra loro attività diverse, ma tra loro compatibili, si può generare un mutuo supporto e, in questo modo, delle economie di scopo. Ciò avviene, per esempio, quando un giornalaio è anche portineria di vicinato o sportello online del comune. Oppure, quando un bar accoglie attività di coworking o il terminale locale di servizi sociosanitari (come nel caso di WEMI, il servizio di welfare collaborativo milanese): tutti casi in cui l’ibridazione di attività crea nuove possibili economie di prossimità.
Un’altra modalità in cui l’economia di prossimità può presentarsi è quella relativa agli effetti locali delle attività di organizzazioni che, per altro, non sono di prossimità. Più precisamente, in questo caso l’economia di prossimità è data dal valore economico e sociale che esse, con la loro stessa esistenza, producono nel sistema di prossimità in cui sono collocate: quelle relative ai consumi locali dei loro dipendenti e quelle derivanti da altre possibili forme di interazione e interscambio col territorio circostante. Per esempio, filiere locali connesse al loro approvvigionamento di materiali e energia, e/o al trattamento di scarti e rifiuti nel quadro di un’economia circolare localizzata. Oppure: utilizzo e valorizzazione di competenze e capacità localmente presenti. Oppure, ancora: partecipazione ad attività di animazione culturale del territorio. Nell’insieme, tutto ciò ci dice che imprese che operano a scala cittadina, nazionale o anche globale possono sviluppare relazioni anche col sistema di prossimità di cui sono parte. E, così facendo, intrecciare le reti lunghe su cui la loro attività principale si basa, con quelle brevi del luogo in cui sono fisicamente collocate, diventando parte attiva di quel sistema di prossimità. E quindi di quella comunità di luogo.
Dalla tua risposta emerge questa visione della “città che cura”…mi sembra un’idea vecchia ma nuova allo stesso tempo…
Devo premettere che questa bellissima immagine della città che cura non è mia: l’ho presa in prestito da Franco Rotelli, che l’ha usata in riferimento al tema della salute mentale nella città e al rivoluzionario modo di affrontarlo iniziato a Trieste da Franco Basaglia negli anni Settanta.
Il suo senso è quello di un’intera città che, per come è fatta e come funziona, si prende cura dei suoi cittadini. A cominciare dalle persone più fragili, per passare agli anziani e ai bambini, per arrivare a tutti, perché tutti abbiamo bisogno di cure e tutti possiamo esprimere cura.
Puoi descrivere meglio la città che cura alla quale alludi?
Per rendere concreta quest’immagine partiamo dalla cura per i bambini. Un tempo i bambini potevano giocare in strada, in autonomia: non c’erano molti pericoli, le strade erano libere, nessuno era incaricato di organizzarli e controllare quello che facevano ma, in realtà, erano in molti a farlo: i portinai, i negozianti, chi era seduto fuori casa o nel giardinetto, alcune persone alla finestra. Ognuno di loro conosceva quei bambini perché abitavano tutti là intorno. Questo complesso di condizioni era la città che cura, nella sua forma tradizionale. Quella che ora non c’è più.
Oggi, la cosa che per prima salta agli occhi è che nelle strade e nelle piazze al posto dei bambini, di solito, ci sono le auto. Ma non si tratta solo di questo: anche dove le auto non ci sono, è difficile vedere bambini in strada che giocano. È infatti venuto meno quel denso tessuto di relazioni e di fiducia che faceva sì che intorno a loro ci fosse la rete di sicurezza del vicinato di cui si è detto. In queste condizioni, si reputa – non a torto – che non sia sicuro lasciare i bambini in strada a giocare da soli. Il risultato sono le strade piene di auto e i bambini chiusi in casa incollati ai loro videogiochi o alla tv. O, i più ricchi, trasportati da genitori stressati ai luoghi dove si offrono servizi di socialità e attività per bambini: dal parco giochi al corso di inglese, alla palestra. Si è passati cioè dal quartiere che cura alla città dei servizi professionalizzati (per chi ne ha diritto o se li può permettere).
La domanda che ora si pone dunque è questa: può la città che cura essere rigenerata? La risposta è sì, anche se non è facile.
Ma in che modo? Puoi fare degli esempi?
Un esempio concreto di questa possibilità lo troviamo a Barcellona. In questa città, il team di Luis Torrens, responsabile dell’Area Diritti Sociali del Comune, sta sviluppando un programma di servizi per gli anziani la cui idea di fondo è proprio questa: creare una “residenza virtuale distribuita” in cui una persona riceva, nella propria casa e nel quartiere, gli stessi servizi che riceverebbe in una residenza per anziani. E, così facendo, permettere loro di continuare a vivere, e a vivere bene, lì dove da tempo hanno abitato. Un programma questo che si collega a quello già in atto relativo alla riduzione del traffico e alla creazione di nuovi spazi pubblici (il programma delle Superlles), integrandolo con la territorializzazione dei servizi di assistenza domestica e l’attivazione di altri attori di prossimità (come per esempio negozi e farmacie) che funzionino come antenne distribuite sul territorio, capaci di offrire socialità e segnalare l’emergere di problemi.
Come si può facilmente intuire, raggiungere questi obiettivi (per la cura degli anziani, ma lo stesso potrebbe essere detto per quella dei bambini o per chiunque d’altro) non può essere il risultato di un singolo progetto ben fatto: la città delle prossimità che permetta ai bambini di andare a scuola a piedi e giocare nelle strade, e agli anziani di passeggiare sentendosi sicuri e trovando nelle vicinanze tutto ciò di cui hanno bisogno, per esistere, deve emergere da una molteplicità di interventi diversi ma convergenti che, nel loro insieme, formano, appunto, la città che cura.
La “città che cura” che stai proponendo richiede una dimensione progettuale. Come può inserirsi il design in questa fase di maturità che descrivi? Lo chiedo non solo perché sono una designer, ma perché mi pare che tutto il libro, pur non parlando esplicitamente di design, includa questa dimensione.
A differenza che dal passato, oggi una città della prossimità, e quindi una città che cura, non può esistere senza una fitta rete di attività progettuali che la rendano possibile e che ne garantiscano la continuità. Questo suo carattere necessariamente progettuale è il primo e principale contenuto del libro. D’altro lato, quest’osservazione può apparire paradossale poiché un altro contenuto del libro è il riconoscimento che né la prossimità, né la cura, in quanto tali, possono essere progettate. Il problema che si pone è dunque è questo: prossimità e cura dipendono oggi da scelte progettuali. Ma cosa si può davvero progettare? E, in questo quadro, si pone la tua domanda: cosa fa il design in tutto questo?
Per rispondere a questa domanda, il libro propone un’osservazione ravvicinata di due casi di costruzione di comunità in cui il design, cioè team di esperti di progettazione, ha avuto un ruolo: un quartiere milanese, quello di Nolo, e le pratiche di abitare collaborativo messe in atto dalla Fondazione Housing Sociale. Quest’osservazione permette di vedere con chiarezza la trama di progetti, di diversa natura e di diversa scala, che hanno prodotto il sistema di prossimità e le relazioni di cura che lo caratterizzano. Facendo poi uno zoom ancora più ravvicinato, questi progetti mostrano la diversità di attori coinvolti e di modalità di azione. Questo tipo di progetti può coinvolgere infatti una molteplicità di attori: i cittadini abitanti della zona, prima di tutto. Ma anche i policy maker, e diversi esperti in diversi campi. Tra questi, certamente, ci possono essere anche professionisti del progetto: pianificatori, architetti e designer.
La “città che cura” richiede chiaramente anche una dimensione fattiva, perché la cura deve essere intrapresa. Mi pare che questa cura non possa essere somministrata, ma si costruisce insieme… secondo te come si può fare?
La co-generazione della città che cura, cioè della città della prossimità è un processo a carattere sistemico. Che però non si riferisce ad un mega-sistema unitario e monologico, ma piuttosto ad un complesso ecosistema: un’intricata rete di interazioni che nessuno può progettare e controllare nel suo insieme, ma in cui e su cui ciascuno può intervenire portando un contributo: progettando qualcosa che, con la sua presenza, interagendo con gli altri elementi, modifica lo stato delle cose e genera anche una nuova configurazione del sistema di prossimità. In altre parole, le attività progettuali che possiamo mettere in atto non possono produrre direttamente prossimità e cura ma, facendo succedere qualcosa, possono generare le condizioni in cui prossimità e cura abbiano più possibilità e più probabilità di esistere e durare nel tempo.
Per dare concretezza a questa affermazione userò un’immagine che ho proposto anche nel libro. Pensiamo a dei ballerini in una sala da ballo. Al centro della scena ci sono delle coppie che, pur non conoscendosi, si sono incontrate, hanno iniziato a ballare e a dirsi qualcosa che potrebbe evolvere in una conversazione che, a sua volta, forse potrebbe durare il tempo di un ballo o forse proseguire, oltre il ballo stesso. Mi pare che questa scena dica molto su come le persone possono essere aiutate ad avvicinarsi. Su come gli incontri possono essere facilitati. Su che cosa si possa progettare per far sì che si creino le condizioni affinché ci sia possibilità e probabilità che ciò accada.
Vediamo meglio. La scena che ho descritto, nel suo insieme, non è certo il frutto di un progetto unitario consapevole. È piuttosto il risultato della coevoluzione dei vari elementi: la sala da ballo, la musica, la capacità di ballare, persone ben disposte a conoscersi. Tutto questo, ovviamente, non predefinisce ciò che davvero succederà. Pista, musica, conoscenza condivisa delle regole del ballo sono ciò che rende degli incontri possibili e probabili. E questo è ciò che, concretamente, può essere progettato.
Fuori di metafora, la pista da ballo allude ad un’infrastruttura che renda possibili degli incontri e dei progetti. L’essere capaci di ballare corrisponde all’esistenza di linguaggi, idee e conoscenze socialmente condivise che permettano alla conversazione sociale di esistere. Infine la musica è ciò che stimola e dà la spinta per attivare quelle conversazioni e quei progetti. Tutto questo, va progettato. E in tutto questo, evidentemente, i progettisti esperti possono e devono avere un ruolo. Anzi, nel progetto di infrastrutture, nella co-creazione di linguaggi e visioni condivise, nello stimolo alla conversazione sociale con nuove idee e nuovi scenari, possono avere una molteplicità di ruoli diversi.