Come è cambiata la geografia economica dei centri e delle periferie delle città

Questo libro si occupa delle trasformazioni della geografia economica dell’Europa e delle sue regioni dal Novecento al nuovo secolo. In questo quadro analizza le trasformazioni delle regioni italiane, con particolare attenzione a quelle del Mezzogiorno. Discute anche molto dell’impatto delle politiche pubbliche su questi fenomeni, in particolare in Italia.

In generale il libro nasce dal tentativo di collocare le analisi dello sviluppo regionale italiano, ed in particolare delle disparità interne al paese, in un quadro più ampio; dalla convinzione che per comprendere le cause, la situazione e le prospettive dello sviluppo di tutti i territori italiani sia indispensabile collocarle nell’ambito delle grandi trasformazioni, economiche, tecnologiche, politiche del quadro internazionale, compararle sistematicamente con ciò che avviene nel resto d’Europa, comprendere l’importanza e l’impatto di tutte le politiche pubbliche. È difficile capire il Mezzogiorno o l’Italia guardando solo quel che accade nel presente, e nei loro confini.

Nasce dall’imperativo di sottolineare come il futuro non sia scritto, e come sia possibile costruire con accorte politiche pubbliche processi di sviluppo più soddisfacenti per l’intero paese, migliorando la vita e le opportunità di tutti i suoi cittadini. Senza rassegnarsi alle tristi parole che il grande romanziere Amin Maalouf ha dedicato al suo Libano e che all’inizio degli anni Venti potrebbero bene descrivere i sentimenti di molti italiani: “dalla scomparsa del passato ci si consola facilmente; è dalla scomparsa di futuro che non ci si riprende. Il paese la cui assenza mi rattrista e mi ossessiona non è quello che ho conosciuto in gioventù, è quello che ho sognato e che non ha mai potuto vedere la luce” (Maalouf A. 2013 I Disorientati, Bompiani, Milano).

I principali messaggi di questo libro sono tre. Il primo è che un forte sviluppo delle periferie (cioè dei territori meno avanzati), una loro crescita economica maggiore rispetto ai centri (cioè a quelli più avanzati), non è affatto scontato: si è avuto per larga parte del Novecento, ma non più nel nuovo secolo. Dipende dalle specifiche condizioni politico-istituzionali, economiche e tecnologiche che si determinano nelle diverse aree geografiche nei diversi periodi storici. Per molti versi tali condizioni sono state piuttosto favorevoli nel corso del Novecento, ed in particolare nel secondo dopoguerra. In Europa, vi è stato un complessivo indirizzo politico volto alla riduzione delle disuguaglianze, fra le persone e fra i territori, e l’integrazione continentale ha prodotto flussi di capitali e di tecnologie verso le periferie tali da favorirne la crescita. Tanto all’interno dei paesi quanto nel complessivo quadro continentale i livelli di benessere delle aree più deboli si sono accresciuti e le distanze con quelli delle aree più forti si sono ridotte. Ma il quadro è profondamente mutato tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo secolo. Si sono affermati indirizzi politici più favorevoli all’azione dei mercati, meno attenti alle disuguaglianze. Le stesse politiche europee hanno privilegiato la tutela e promozione della concorrenza, le riforme strutturali, indirizzi di bilancio orientati in misura nettamente prevalente alla stabilità delle finanze pubbliche. L’economia mondiale si è trasformata in modo straordinariamente rapido. L’irrompere dei paesi emergenti ha avuto effetti molto differenziati sulle regioni europee; l’allargamento dell’Unione ad Est ha completamente ridisegnato le convenienze localizzative, l’integrazione produttiva, i flussi commerciali. Il quadro europeo è divenuto più complesso, e sono emerse maggiori difficoltà per le regioni in quella che può essere definita la trappola dello sviluppo intermedio. Le dinamiche tecnologiche, in particolare con il forte sviluppo della digitalizzazione e dell’automazione, stanno avendo effetti complessi ma intensi sulle regioni, per molti versi favorevoli alla polarizzazione nello spazio delle attività economiche. Polarizzazione favorita anche dalle nuove condizioni demografiche nelle quali sono cruciali i flussi migratori diretti verso i centri.

Il secondo messaggio di questo libro è che in questo quadro l’Italia è stato il paese che ha avuto le performance più modeste, in particolare nelle sue aree più deboli; così che il Mezzogiorno è stata la parte d’Europa con i peggiori andamenti nel nuovo secolo. Non è difficile spiegare il perché: ne ha subìto di più gli effetti negativi, è stato meno in grado di sfruttarne le opportunità. Le trasformazioni internazionali hanno messo in difficoltà una parte rilevante dell’apparato produttivo italiano, più intensamente laddove era più fragile, per specializzazione settoriale, assetti dimensionali, capacità di innovazione; la forte caduta della domanda interna ha penalizzato le attività non esportatrici: entrambe le circostanze sono state più rilevanti nel Mezzogiorno. I mercati internazionali hanno aperto nuove possibilità soprattutto per i produttori di meccanica specializzata, quasi esclusivamente del Nord. La patologia del capitalismo italiano è stata non aver creato nuove attività, soprattutto nell’industria più avanzata e a maggiore intensità di innovazione e in quel vasto ambito dei servizi avanzati cresciuti nelle regioni europee più forti. Anche questa patologia, non sorprendentemente, è stata maggiore al Sud, dove le aree urbane sono meno dotate delle condizioni favorevoli alla nascita di nuove attività terziarie, in termini di diffusione dell’istruzione e presenza di economie di agglomerazione. Anche vasti territori del Centro e in parte del Nord del paese, pur partendo da livelli di sviluppo maggiori, hanno subìto le stesse dinamiche negative. I flussi di popolazione, dall’estero e interni al paese, sono stati collegati alle diverse opportunità di lavoro che si sono determinate e hanno contribuito ad aggravare questi squilibri.

Il terzo ed ultimo messaggio di questo libro è che le condizioni affinché possano svilupparsi nuove attività economiche non si determinano spontaneamente soprattutto nelle aree più deboli, ma richiedono attente politiche pubbliche che contribuiscano a crearle. In particolare, azioni per l’infrastrutturazione avanzata, la promozione del cambiamento strutturale delle imprese, il potenziamento dell’istruzione e della ricerca. Ma in Italia non vi sono state: e questo ha contribuito alle difficoltà del paese ed in particolare del Mezzogiorno, data anche la sostanziale assenza di specifiche politiche mirate alla coesione territoriale. Inoltre, l’austerità nella spesa pubblica è stata per molti versi territorialmente selettiva, e ha colpito di più le regioni più deboli, aggravandone le dinamiche economiche e non contribuendo alla riduzione di quei divari civili che in Italia sono maggiori che altrove.

Nella storia economica, non ci sono paesi che si sviluppano per caso. Le grandi trasformazioni sono sempre frutto di un lungimirante disegno collettivo, che crea anche le condizioni per far crescere l’iniziativa e l’imprenditorialità privata. Il triste primo ventennio del XXI secolo del Mezzogiorno è lo specchio del triste ventennio dell’Italia: un paese incapace di disegnare strategie per rilanciare la sua economia nel nuovo quadro internazionale dopo i successi per molti versi straordinari del XX secolo. Incapace di uscire da un estenuante conflitto sulla manutenzione dell’esistente e di costruire, anche attraverso un conflitto politico e sociale aperto, un futuro diverso. Attraversato, anche per questo, da rabbie e rancori, da contrapposizioni anche a base territoriale. Nel quale chi più ha cerca di trarre vantaggio dalla propria posizione e disegna per proprio conto il futuro della propria famiglia, della propria impresa, del proprio territorio.

Questo libro si snoda nei suoi capitoli provando a fornire un racconto ed un’interpretazione quanto più possibile coerente, anche se ognuno di essi dedica attenzione ad un tema particolare.

La prima parte del volume indaga lo sviluppo regionale in Europa. Il quadro che si disegna nella prima parte del libro è quello di un’Europa in cui si va accrescendo la polarizzazione fra centri e periferie. Un quadro sensibilmente diverso da quello del Novecento, quando le tendenze alla diffusione geografica dello sviluppo economico erano state significative. Dovuto a fattori politici, all’impostazione più liberista delle politiche economiche; a fattori economici, dalla riorganizzazione delle produzioni manifatturiere alla grande trasformazione strutturale delle economie verso i servizi; a fattori tecnologici, che favoriscono la concentrazione del terziario avanzato e dei lavoratori a maggiore qualificazione; a fattori demografici, con la riduzione e l’invecchiamento della popolazione e il crescente impatto delle migrazioni. Tutti questi fenomeni sembrano innescare circoli viziosi e virtuosi che possono rafforzarsi con il tempo e accrescere le differenze, e ai quali è difficile sfuggire. Lo scenario non è favorevole per molte periferie.

Nella seconda parte l’analisi si focalizza sulla dinamica delle regioni italiane a partire dalla fine del Novecento. Alla luce di quanto analizzato in questa seconda parte del libro, si può arrivare ad alcune ulteriori conclusioni. Le nuove condizioni internazionali, tecnologiche, economiche, istituzionali non hanno favorito lo sviluppo delle regioni italiane. Il Sud, più debole, ha visto la sua situazione peggiorare di più; ma tutta l’Italia ha perso terreno, e anche alcune delle sue regioni più avanzate si sono indebolite. Il Mezzogiorno ha accentuato la sua condizione di perifericità. Per la sua dimensione demografica ed economica, il suo sviluppo resta però essenziale per la ripresa dell’Italia. Ma è illusorio ipotizzare che, nelle condizioni di contesto descritte nella prima parte del libro, esso possa determinarsi spontaneamente, l’azione del mercato da sola non è certamente in grado di rompere circoli viziosi, produrre esiti più positivi. Il rilancio dell’economia meridionale e delle regioni più deboli del Centro-Nord non può che passare dallo sviluppo di produzioni manifatturiere e di servizio a maggiore intensità di innovazione. Ma in particolare al Sud mancano alcune condizioni essenziali per la nascita di nuove attività economiche: un elevato livello di istruzione delle forze di lavoro e una significativa mobilità delle persone, delle merci e delle idee. Per crearle sono indispensabili incisive politiche pubbliche. Ma quali sono state le politiche pubbliche in Italia nel XXI secolo? Sono riuscite a favorire questi cambiamenti? 

Tutta la terza parte del libro mira a fornire maggiori elementi per rispondere alla domanda: perché il Mezzogiorno non si sviluppa? Dalle pagine del libro emerge chiaramente che le dinamiche tecnologiche ed economiche del quadro europeo ed internazionale non l’hanno certo favorito. E che le sue condizioni strutturali non sono favorevoli allo sviluppo di nuove attività economiche; i suoi giovani hanno livelli di istruzione molto contenuti, la scuola non riesce a compensare le difficoltà ambientali e familiari dei ragazzi e delle ragazze di estrazione più modesta, il suo sistema universitario si è ridotto di oltre un quarto in dieci anni. Resta una grande area relativamente isolata: verso l’esterno, ma anche e soprattutto al suo interno.  Andare da Palermo a Catania è ancora, come nell’Ottocento, un viaggio complesso e impegnativo. In questo quadro, gli investimenti pubblici e le politiche per favorire gli investimenti privati si sono fortemente ridotti; e le capacità di fornire i grandi servizi di cittadinanza non sono aumentate. E quindi i giovani si spostano alla ricerca di opportunità, rafforzando circoli viziosi demografici ed economici.

Non sono mancati segnali più positivi. La stessa tenuta di una parte dell’apparato manifatturiero, la crescita delle produzioni energetiche, le trasformazioni dell’agricoltura. Il rafforzamento del sistema aeroportuale e lo sviluppo del turismo internazionale e i tentativi del sistema portuale di disegnarsi un importante ruolo nel Mediterraneo. Alcune realizzazioni infrastrutturali e miglioramenti nei servizi, dalla grande metropolitana napoletana alle tramvie a Palermo. Ma dato il quadro che è stato disegnato è del tutto velleitario sperare che le dinamiche spontanee dell’economia e della società, o le politiche che si possono mettere in atto esclusivamente a scala regionale e locale con le risorse disponibili, possano invertire queste tendenze. Per rilanciare l’intero paese, e soprattutto il Mezzogiorno, è indispensabile una stagione di un forte e intelligente intervento pubblico nazionale; che sappia imparare dalle lezioni del passato, ma anche disegnare un futuro possibile. Definire una profezia che possa realizzarsi.

Le Conclusioni provano a guardare verso il futuro. Su questa Europa e su questa Italia è arrivata la devastante pandemia Covid-19, con la sua scia di morte e di depressione economica. Con un colossale impatto sul paese, che nel 2020 è tornato ai livelli di Pil della metà degli anni Novanta. E con effetti che hanno amplificato le disuguaglianze. La crisi economica è stata più forte per i paesi dell’Europa meridionale, inclusa l’Italia, sia per la maggiore debolezza delle loro reti sanitarie sia per il maggior ruolo del turismo. Le conseguenze sociali della pandemia sono state maggiori per i ragazzi e le ragazze di famiglie meno abbienti e con genitori a minori livelli di istruzione, che rischiano a causa della sospensione della didattica in presenza ampi e pericolosi vuoti negli apprendimenti. Per i lavoratori più deboli, sommersi e semi-sommersi, per fasce di lavoro autonomo, per gli addetti alla distribuzione, all’accoglienza, alla cultura e all’intrattenimento, per gli occupati a termine e stagionali. Per i giovani in cerca di prima occupazione o per quelli impiegati in occupazioni precarie. Per le donne, più frequentemente occupate nei settori più colpiti e sulle quali si è abbattuto un forte aumento delle necessità di cura dei figli e dei genitori. Su alcuni territori più dipendenti dal turismo, e nell’insieme per quelli a minor reddito, dove l’impatto occupazionale è maggiore, e le prospettive di rilancio con la ripresa della domanda internazionale inferiori per la minor presenza di industria. Gli indispensabili interventi di mitigazione hanno notevolmente fatto crescere il debito pubblico.

Gli anni Venti si aprono all’insegna di una forte preoccupazione. Ma anche di un generale rimescolamento di carte. Con possibili cambiamenti nei comportamenti sociali che possono influenzare la geografia economica europea. E con un significativo mutamento delle politiche economiche comunitarie, specie attraverso l’avvio di un progetto di rilancio all’insegna della trasformazione ecologica e digitale dell’economia e della società. L’iniziativa franco-tedesca che ha avviato il progetto del Next Generation è basata su un’idea che recupera lo spirito europeo: la convinzione che il benessere dei francesi e dei tedeschi sia legato a doppio filo a quello degli spagnoli e degli italiani; e che per rilanciare l’Europa sia necessario investire di più nelle aree più deboli e più colpite dalla pandemia. Gli stessi principi che dovrebbero ispirare l’azione pubblica in Italia negli anni Venti e Trenta, con riferimento ai dislivelli territoriali. Resta da vedere se permarrà questa impostazione, o se invece si tornerà alle deleterie politiche europee di austerità degli anni Dieci.

Gli anni Venti si aprono dunque con la speranza, tutta da verificare, che il quadro delle dinamiche territoriali e delle politiche pubbliche italiane che è stato disegnato in questo libro possa cambiare. La lista delle “cose da fare” è certamente lunga e impegnativa; richiederà tempo; e una strategia condivisa, perseguita con costanza. Che ve ne siano le condizioni politiche è tutto da verificare. Ma, come si diceva all’inizio, lo scopo di questo libro è anche quello di mostrare, laddove ci sono, ostacoli e potenzialità, e carenze e possibilità delle politiche pubbliche.

L’Italia, valorizzando le risorse disponibili in tutti i suoi territori, può mirare a ricostruire le condizioni per adattarsi meglio alle mutate condizioni internazionali e per tornare così a svilupparsi in misura più soddisfacente. Questo non può che comportare una nuova e forte infrastrutturazione materiale del paese, specie nel digitale, nei trasporti, nelle energie rinnovabili; un grande rilancio del suo sistema urbano, un attento ridisegno delle condizioni di vita nelle sue aree interne. E una ancor più forte infrastrutturazione immateriale, con un rafforzamento dell’istruzione, della ricerca, della cultura, del trasferimento tecnologico. Una grande stagione di investimenti pubblici, che possono produrre un impatto sul Pil tale da migliorare e non da aggravare le finanze pubbliche, e di una politica industriale che sappia indicare e perseguire grandi missioni di sviluppo del paese, per agevolare e favorire gli investimenti delle imprese. Da tutti questi punti di vista, il contributo che le regioni più deboli possono offrire al paese è notevole, dalla crescita delle energie rinnovabili, allo sviluppo di logistica e servizi nei suoi porti; dalla nascita di nuove attività nelle sue città alle trasformazioni del sistema agroalimentare e alla crescita dell’economia circolare.

E l’Italia, guardando a diritti e doveri di tutti i suoi cittadini, può mirare a costruire un intervento pubblico più equo e più efficiente, garantendo progressivamente a tutti i diritti alla salute e all’istruzione, alla mobilità e all’assistenza sociale. Più equo generazionalmente; più equo sotto il profilo di genere. E più equo territorialmente, riducendo i divari civili. Rivedendo il riparto di competenze fra stato e regioni, senza antistoriche ri-centralizzazioni ma assicurando un coordinamento maggiore, riportando ad una condizione di maggiore equità le condizioni speciali di province e regioni ed evitando di crearne di nuove. Attuando finalmente i nuovi meccanismi di finanziamento di regioni ed enti locali: stabilendo i livelli essenziali delle prestazioni, calcolando giusti fabbisogni, assicurando le corrispondenti risorse, anche perequative; e, anche attraverso chiare linee di indirizzo, meccanismi di verifica e adeguati poteri sostitutivi, puntando ad una efficienza maggiore nel loro uso.

L’idea di un paese forte perché diverso; forte perché multipolare. Nel quale la mobilità di studenti e laureati non sia a senso unico; quella dei malati ridotta il più possibile. E tramonti la convinzione che le politiche pubbliche siano un gioco a somma zero, nel quale si vince se si sottraggono risorse agli altri. Si cresce, come la storia economica europea dimostra, con interdipendenze e integrazioni.

In fondo, il filo conduttore di questo libro sono le tendenze alla polarizzazione. Ma anche la reiterata affermazione che il futuro delle città e delle regioni, e quindi delle nazioni, non è mai scritto per sempre. Che nulla condanna ad essere periferie. Che il futuro può essere progettato e cambiato: non è facile, ma ci si può provare.