La rabbia nelle città, una conversazione con Donatella della Porta e Marco d’Eramo
Nell’ambito del programma di Biennale Democrazia 2021, il Polo del ‘900 presenta La rabbia nelle città, dialogo nato da un’idea di Sara de Marco, in collaborazione con cheFare. L’incontro, che si svolgerà a Biennale Democrazia l’8 ottobre alle ore 21.00, vedrà confrontarsi Donatella della Porta e Marco d’Eramo con la moderazione di Valeria Verdolini.
L’incontro vuole analizzare i cambiamenti politico-sociali prodotti sia dalle trasformazioni più recenti (su tutte l’impatto della pandemia e la conseguente crisi economica) che da quelle più di lungo periodo (le istanze femministe, il movimento LGBTQI+, i movimenti antirazzisti, la sfida climatica, la domanda di eguaglianza e riconoscimento di diritti economico-sociali).
Sfruttando il concetto di “faglie” il talk vorrebbe ripercorrere le nuove fratture sociali e le forme di scontro e conflitto che si distribuiscono e producono nelle metropoli del mondo nella prospettiva dicotomica dei dominanti e dei dominati, e delle conseguenti lotte nate per sovvertire questi ordini di potere. Se, come scriveva Richard Horton su Lancet, la pandemia si è rivelata come sindemia, ossia con un impatto di amplificazione delle diseguaglianze, e con conseguenze diseguali per le persone coinvolte, quali sono gli effetti di questo fatto sociale totale sulle metamorfosi del conflitto? Quali sono le traiettorie dei poteri e quali delle loro resistenze? Quali effetti ha prodotto la sofferenza globale rispetto alle domande politiche dal basso? Quali risposte politiche sono state fornite nel frattempo? Quali sfere vengono coinvolte da queste forme di conflittualità? In che modo differiscono da quelle del passato? Di quali strumenti culturali, sociali e politici disponiamo? Quali sono i riverberi di queste lotte sulle metropoli del mondo?
Marco d’Eramo, giornalista, saggista, ha anticipato in questa intervista alcuni temi su cui verterà l’incontro, a partire dal suo recente volume Dominio. Partiamo dalla traccia che emerge in Dominio: di che conflitto parliamo?
Il conflitto di oggi è un conflitto sotterraneo. C’è un conflitto, quello dei potenti contro i sudditi. Ma l’altro, il conflitto dei deboli contro i potenti, è molto meno visibile.
Forse dipende da dove guardiamo, perché se allarghiamo lo sguardo anche al sud del mondo…
Non per svalutarlo, però quel tipo di rivolta si potrebbe associare alle jacqueries, c’è del malcontento. Però quella cosa che Guilluy chiama La France périphérique non si manifesta in modo conflittuale, magari non lo è. Il conflitto non si fa da soli. Quello che è interessante, é che quello dei potenti è un dominio organizzato. Allo stesso modo, non è che la lotta di classe si fa da sola perché ci sono le classi. Per essere chiari, io avevo iniziato a scrivere un altro libro, sulla ricostituzione della plebe, che è quello che qui stanno cercando di ricreare. Si tratta di un processo iniziato negli anni settanta. In quel periodo in Francia ci sono varie correnti di pensiero, i nouveaux philosophes, le riflessioni di law and economics, il neo liberismo, Hayek e Friedman che vanno da Pinochet, il falso premio Nobel attribuito a tutti gli economisti di Chicago, la supply side, il monetarismo che diventa la dottrina ufficiale, perché l’unica azione che il governo possa mai fare è regolare l’afflusso della moneta, tutto il resto diventa indebita ingerenza nella libertà dei mercati…
Di solito gli storici la collocano quasi un decennio dopo, con l’avvento di Thatcher e Reagan negli Stati Uniti…
Però lì è quando hanno vinto! Hanno dovuto combattere per un decennio per poi vincere! Il clima alla fine degli anni sessanta e all’inizio anni settanta non era così. Le faccio un esempio per capirci, stupido ma significativo: quando Obama ha fatto la sua riforma sanitaria, il povero senatore Ted Kennedy disse: “Ma se lo avessi saputo avrei votato la riforma di Nixon quarant’anni fa, perché era molto più a sinistra!”. Questo significa che la destra Repubblicana degli anni settanta era molto più a sinistra dei democratici del 2010.
C’era un consenso di stampo social democratico negli anni sessanta, e negli anni ottanta c’era il reaganismo. L’offensiva di ricostruzione della plebe è iniziata tra queste due date. Io sono sempre stato critico con le categorie del populismo, categoria irritante, proprio perché il populismo è la politica dei plebei. Il populista è il politico che sobbilla la plebe.
Però, Chantal Mouffe dice che in questo modo si lascia lo spazio alla destra di occupare l’arena…
Io non ho mai creduto al populismo di sinistra. Questo non è un vero pezzo del dibattito, perché tutti quelli che parlano di populismo fanno una premessa dicendo che è difficilissimo parlare di populismo, nessuno sa cosa sia il populismo, è come la scarpetta di Cenerentola, che non ha un piede adatto che possa indossarlo. Detto ciò, tutti quanti lo usano a piacimento. In realtà credo che ciò che è interessante è che chi parla di populismo faccia parte di questa categoria molto di più di coloro che ne vengono descritti e definiti. Sono quelli che usano la categoria che sono descritti da questa parola. proviamo a fare una lista breve di populisti: Papa Francesco è populista; Pierre Bourdieu, secondo Esprit, è populista; Orban è populista, Erdogan è populista, anche Trump lo è, Bernie Sanders è populista, Elizabeth Warren, Will de Blasio a New York, Podemos è populista. E’ interessante ciò che dice Jean Paul Mannon: il populismo è il momento in cui invece che l’opposizione destra/sinistra si instaura l’opposizione dentro/fuori. Il populismo è il fuori. E’ il discorso non lecito. In politica esiste il discorso legittimo e quello illecito.
Perché allora oggi domina solo un discorso del fuori e non si può più fare un discorso del dentro?
Perché un tempo destra e sinistra erano entrambe legittimate. Ora però c’è un problema di legittimazione. Chi non sposa il consenso di Davos è populista sia a destra che a sinistra. Si tratta di una strategia cominciata dopo la seconda guerra mondiale. Questi avevano battuto il fascismo e ora dovevano combattere il comunismo. E’ una teoria che poi è sfociata in quella degli opposti estremismi. Nacque con i cold war liberals: Wright Mills, Schlesinger, Hofstadter, coloro che rivoluzionarono la storiografia statunitense sull’argomento. Questi autori sostengono che noi rappresentiamo l’unica legittimità, perché ci dobbiamo battere contro i nemici della democrazia, a destra i fascisti e a sinistra i comunisti.
Questo è un discorso che ha trovato spazio nella riflessione sui totalitarismi. Io dico sempre che quando qualcuno cita Hannah Arendt è uno di sinistra che sta per svoltare a destra e vuole mantenere una legittimità morale. Perché l’operazione logica fatta con l’antitotalitarismo è un’operazione degna dei peggiori sofisti: prendo due cose, prima dico tutto quello che hanno in comune, poi scarto tutte le differenze e poi sostengo che abbiamo solo quel pezzo in comune.
Però dall’altra parte se noi richiamiamo Hannah Arendt, quando lei ragiona sul diritto ad avere diritti, sulla centralità della persona e sull’universalismo dell’accesso ai diritti…
Non è solo così. I diritti sono un terreno molto scivoloso. Intanto si deve distinguere tra diritti umani e diritti del cittadino. Perché i diritti umani sono apparsi negli anni settanta sulla scena politica con Brzezinski e la Trilaterale, sempre nell’ambito dell’offensiva anti-totalitaria. Ché poi, cosa significa totalitaria? Quello che vediamo nei fatti è che in quel caso la scelta politica è limitata alla minestra o alla finestra: o è questo o è questo. La democrazia consiste nel poter scegliere tra due cose uguali. E’ questa la ragione per cui la plebe è ciò che sta al di fuori. Tutta questa vicenda è molto interessante sia per una ragione sociologica che per una ragione ideologica. La ragione sociologica è ciò che dice Picketty in Brahmin left versus Merchant right: Picketty afferma che noi siamo Brahmin. Tuttavia, io ne traggo un’altra conseguenza: chi non è né Brahmin né Mercante, non è rappresentato da nessuno, e questo Picketty non lo dice!
Se volessimo definire questa nuova plebe, la costruzione di un ceto plebeo: che elementi ha?
C’è quella vecchia definizione di Adam Smith e di Rousseau che su questo erano d’accordo e che sostiene che senza istruzione il popolo è plebe. Io non sono un fanatico della moltitudine. Per capirci: in qualche modo il PCI, i sindacati, assolvevano alla funzione di tribuni della plebe. La situazione ora è nuova perché si tratta di una plebe senza tribuni. E’ una plebe pre-Menenio Agrippa, pre 412 a.C.
Chi compone questa plebe? Lo vede scritto nelle carte elettorali: la sinistra vota al centro, la destra vota nella prima periferia, e dopo votano cinque stelle o estrema destra. Perché dopo non sono rappresentati più da nessuno.
Perché quando lei prima parlava della plebe, di una plebe senza rappresentanza io ho pensato ad una plebe che si compone di coloro che non hanno cittadinanza
Chi non ha cittadinanza non è nemmeno nel conto. I non cittadini romani non facevano parte nemmeno della plebe. La plebe aveva una cittadinanza fino a che c’è stato il compromesso sovietico, fino a che c’è stato bisogno di una socialdemocrazia. Non stiamo parlando nemmeno di classe operaia. E’ quella che Guilly chiamava la France périphérique. La classe operaia aveva la sua rappresentatività, e una sua stabilità. Quando lei prende il lavoro e lo flessibilizza fino agli estremi produce condizioni sociali da plebe, come ad esempio il rider: esso è il modello universale.
E’ quindi un meccanismo di esclusione dal capitale economico?
Nel libro lo dico chiaramente: siete tutti capitalisti. Anche tu migrante che stai annegando nel canale di Sicilia, sei un capitalista che ha fatto male i calcoli. Ti sei assunto un rischio d’impresa troppo alto.
In questo senso, c’è una forte omologazione. Queste categorie che provano a descrivere la realtà finiscono per produrre una sorta di marmellata sociologica.
Succede che negli anni sessanta erano tutti keynesiani, tutti socialdemocratici, Nixon faceva la riforma sanitaria con lo stato sociale, Milton Friedman diceva che serviva il reddito di cittadinanza. I neoliberisti stavano in sordina, lavoravano sotto, erano minoritari. Se uno guarda il 1970, o per esser più precisi il 1972, dal punto di vista geopolitico si poteva pensare che l’URSS stesse vincendo. Gli Stati Uniti avevano perso in Vietnam, perso in Africa, c’era Allende che aveva vinto in Cile, c’era Cuba, la rivoluzione dei garofani in Portogallo, la fine dei protettorati in Nord Africa…e invece no, non era affatto così. E’ interessante vedere come l’immagine fosse completamente falsata. E’ da quando sono piccolo che sento parlare del declino degli Stati Uniti, eppure…
Proviamo a seguire una linea del tempo: nel 1970 vengono poste le basi e viene fatta scorta di armi per una nuova battaglia sul dominio, che viene poi effettivamente vinta dai dominanti sui dominati.
I dominanti continuano a vincere. E’ una battaglia che non si esaurisce.
Poi, però c’è un pezzo che in qualche modo destabilizza: la caduta del muro di Berlino…
Tutto questo accentua questi processi. L’Unione Sovietica, finché è esistita, era una tragedia per i propri cittadini, che subivano purghe e venivano mandati al gulag, ma per noi era una manna dal cielo, perché costringeva il capitale al compromesso col lavoro. La socialdemocrazia si collocava proprio in questo compromesso. La cosa interessante che nessuno nota, è che quando crolla il muro, non crollano solo i partiti comunisti oltre cortina, ma crollano tutte le socialdemocrazie e i partiti socialdemocratici, perché non c’è più bisogno di compromesso. E questo accelera il processo. Per essere chiari, è dopo la caduta del muro e dopo la fine della necessità del compromesso che il debito viene trasformato da arma di controllo sulle colonie ad arma verso i paesi ricchi. Fino al 1990, il debito era usato per vanificare le indipendenze coloniali.
In Dominio dice che visto che noi siamo i dominati, dobbiamo imparare dai dominanti. Cosa dobbiamo o possiamo imparare?
Intanto partiamo da ciò che loro hanno imparato da noi, ovvero quali sono i punti nodali: la scuola, la giustizia e le tasse. E queste tre cose si ottengono attraverso un lavoro di conquista dell’egemonia. Inoltre c’è la guerra di classe. Un aspetto che avevano già colto, ma hanno imparato che il punto focale è l’ideologia.
L’ideologia del consumo?
No! L’ideologia del consumo è una pratica.
L’ideologia del mercato?
Il neoliberismo viene inteso come una forma più estrema del mercato. Ma non hanno capito la lezione foucaultiana. Non è vero niente. Una volta in cui dicono che non è il mercato ma la concorrenza, la base fondamentale della società umana, cambia tutto.
Lei parla di eufemismo e scrive che si tratta di un “conservatorismo compassionevole” e che “hanno creato una neolingua basata sull’eufemismo per cui si dice concorrenza invece di mercato”
Si e no. Io riconosco ai neoliberisti un elemento di verità, sennò non sarebbero efficaci. Se fossero pura idiozia non funzionerebbero. Perché la storia del capitale umano svela moltissimi elementi del comportamento sociale. Moltissimi politici orientano il loro comportamentoo solo per comprare voti vendendo favori. Hanno un’idea neoliberista della politica che cercano di mettere in pratica. Quando dicono che è reato solo ciò che ha una probabilità di essere punito, dicono una cosa verissima: la polizia non punisce la mafia perché tanto non avrebbe davvero la possibilità di farlo, e quindi la mafia finisce per non essere reato. Dove la cosa diventa eufemistica è nel momento in cui si fissano sul capitale umano. Perché allora sì che il migrante che affoga che viene definito imprenditore mi pare davvero un terribile eufemismo.
Così come la richiesta costante di rinuncia al reddito di cittadinanza per “mettersi in gioco”. Perché poi l’obiettivo vero è il darwinismo sociale, i più forti vinceranno. Quello è puro eufemismo. La forza della loro operazione è che non è solo una teoria economica, è allo stesso tempo un’antropologia, una teoria della giustizia, un’estetica e una teoria dei sentimenti. E’ un’ideologia forte, totalitaria. Vogliono fare una teoria dell’universo mondo, e la fanno. Ci sono le tre poste in gioco, ma lo strumento principale è l’ideologia. Quindi quando io dico re-imparare da questo modello, significa ricominciare a fare ideologia, ripartire da quella. Che è esattamente come rivalutare il conflitto.
Però se noi pensiamo agli Stati uniti, che sono il grande laboratorio di queste pratiche e visioni, negli ultimi anni ci sono stati degli smottamenti dal punto di vista della produzione del conflitto.
Pensi a Occupy Wall street?
In realtà sto pensando al dibattito sul MeToo e su Black Lives Matters.
Secondo me il movimento MeToo è assolutamente assimilabile all’ideologia neo-liberista perché c’è un fondo neo-puritano. Perché va benissimo tutto, ma se poi non possiamo più dragarci1dal francese draguer, flirtare, allora francamente torniamo al 1600. C’è un aspetto di capitalismo puritano e di separatismo dei generi. Maschietti da una parte e femmine dall’altra. Per quanto invece concerne BLM io penso che si tratti di un fenomeno più complesso, che la vittoria di Obama ha innescato un backlash. E’ come se – per fare un esempio paradossale – in Pakistan noi, maschilisti, avessimo eletto Bhutto come presidentessa, e quindi possiamo tranquillamente ammazzare le donne. Qui è la stessa cosa: abbiamo eletto un presidente nero non potete dirci cosa fare. E questo ha creato un’enorme violenza nei confronti dei neri che a sua volta ha reagito. Nel modo in cui si struttura questo BLM non è molto diverso dalle rivolte degli anni venti.
Che impatto ha in questo quadro un evento come la pandemia?
E’ scivolosa perché da un lato si rischia di fare come Agamben, dall’altro si rischia di fare i cretini. Diciamo che la mia tesi è la medesima dell’inizio del libro: non sprecare mai una crisi.
Le classi dominanti non la stanno sprecando. Io sono sicuro che i centri di ricerca sociale di mezzo mondo stanno studiando i limiti di tolleranza delle popolazioni a questo elemento coercitivo, dal punto di vista tecnico, di manipolazione dei comportamenti e del linguaggio. Dal punto di vista sociologico è straordinario. Non si era mai visto in tempo reale due miliardi di persone chiuse a casa volontariamente. Lì ha ragione: se lo scopo dell’urbanismo moderno è isolarci insieme e distruggere la strada… Beh, l’hanno già fatto. Come dice la Zuboff, quando senti la parola smart, toccati i coglioni. Smart phone, smart city, smart work, smart home: ti stanno fottendo. E’ un modello bruttissimo quello prefigurato dalla pandemia: distruzione dei corpi, distruzione della socialità, isolamento, ritorno all’ambito familiare più stretto. Tutto quello che è antisociale è oggi auspicato. E’ il distanziamento sociale in senso sociologico: da una parte i ceti abbienti che possono isolarsi, dall’altra la plebe esposta ad ogni rischio, che prende i trasporti pubblici e non l’auto. Le cose convergono sempre verso le stesse configurazioni.
Leggendo Dominio vengono in mente due cose: assistiamo alla realizzazione concreta della teoria di Fisher sul realismo capitalista. E dall’altro canto alla consapevolezza di questa condizione.
Io non sono così catastrofico. C’è sempre una capacità da parte degli esseri umani di cambiare, modificare, altrimenti il potere sarebbe immobile. E’ chiaro che chi ha il potere ne ha più di chi non ce l’ha. E’ interessante anche la storia della plebe. Perché forse l’età delle rivoluzioni è chiusa: cominciata nel 1648 e chiusa nel 1960. Può darsi che sia finita così.
L’altro libro che tornava in mente era 1984 di Orwell, sia per la neolingua sia per una struttura del dominio e del controllo così pervasiva.
E’ vero che siamo di fronte ad una neolingua, però quello che funzionava in 1984 era la penuria: la società ti controllava e ti dava il whiskey da schifo e le sigarette di cartone. Se invece adesso ti dà il Jack Daniel’s è tutto diverso. Per cui questa è la società del controllo di 1984, ma senza la penuria: è la società del controllo totale, della neolingua totale, del regno totale di eterogenesi dei fini. In nome della libertà abbiamo abolito ogni forma di libertà possibile, in nome del privato abbiamo abolito la privacy, in nome della concorrenza abbiamo fatto dei monopoli mondiali. E’ tutta eterogenesi dei fini, è teologia negativa.
In questo quadro, quali sono le strategie?
Beh, rimboccarsi le maniche. Intanto rimboccarsi tutti le maniche, che non è poco. E poi comprendere che il punto nevralgico di tutta questa faccenda è il convincere tutti che l’azione collettiva non serve a niente. Non è che questi non fanno una cosa collettiva perché sono individualisti, sono individualisti perché non c’è altra via d’uscita. L’azione collettiva è screditata. I riders che si mettono insieme e dicono ‘noi non ti portiamo più la pizza’, non è facile da realizzare. Se noi pensiamo a com’era la situazione all’inizio dell’Ottocento – i filantropi con le mitragliatrici – siamo solo un po’ meno peggio. Stiamo messi male, ma si può fare qualcosa.
In cosa ha fiducia?
Tutti hanno una narrazione del 1968 incentrata sulla sinistra. Non è vero niente. Il 1968 nacque – e questa fu la sua forza – perché i ragazzi che si ribellavano, credevano a quello che gli veniva detto: che la società americana fosse democratica e meritocratica. E più passava il tempo, più si rendevano conto che non era vero niente, che era una menzogna colossale. E’ questo che li ha fatti incontrare. Erano stati mobilitati dalla presa di consapevolezza che gli stavano mentendo spudoratamente. Ecco, la sensazione è che stiamo arrivando ad un punto in cui le persone cominciano a sentire sulla propria pelle che gli stanno dicendo un mare di menzogne. Da Machiavelli in poi diviene centrale la ricerca della verità. Egli, che fu massacrato per aver detto ciò che sapevano tutti: che la morale della politica è diversa dalla politica della morale.
Ma questa verità che si ricerca, che verità è?
Sono sempre verità parziali. Non sono mai verità ontologiche, con la V maiuscola. Foucault ad un certo punto diceva che la verità antica era una verità cielo: perché solo pochi potevano arrampicarsi fino al cielo, però era una verità uniformemente distribuita.
Foucault dice anche che la verità è la capacità di prender parola.
Sì, però quello che è successo è che ora la verità va scalata. Mentre per gli antichi, era una verità full time, che ricadeva sulla pizia o sul profeta. Adesso esiste una verità matematica: è per tutti, ma non per tutti accessibile. Io parlo di verità parziali, verità sconnesse come lo stato del nostro pensiero, che non corrispondono all’esperienza di vita di ciascuno. Che libertà hai quando pedali da rider o quando ti dicono nuota nel mare del mercato?
Eppure in questo periodo abbiamo un fortissimo problema con la verità, e ci troviamo di fronte ad un relativismo forte. Pensiamo ai vaccini, o altri modelli di gestione delle comunicazioni pubbliche e non solo…
Il problema nasce nel momento in cui la ricerca della verità diviene un’industria molto cara e chi la deve finanziare non ne capisce nulla. Partiamo da esempi concreti: quando un acceleratore di particelle costa 8 miliardi di dollari, diventa difficile accettare di farlo, di investirli a scapito delle pensioni. Per poter sopravvivere, ed essere finanziata, la scienza -per ragioni materiali- si è incrociata con le esigenze politiche, e questo l’ha delegittimata. Fino alla guerra fredda la fisica andava studiata, le ricerche svolte, i finanziamenti confermati, perché c’era un’urgenza preventiva. Ma oggi…
Possiamo chiedere alla politica di dire la verità, ma se non c’è fiducia, come si crede a quella verità?
A me non interessa la verità di per sé, mi interessa la libertà che nel momento in cui viene svelata produce un effetto liberatorio. E’ lei stessa che produce fiducia, il resto passa tutto in secondo piano.