Rosetta da WeMake. La città accessibile

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    Si discute molto di città in questa fase storica. Le metropoli tornano ad essere il centro ombelicale del dibattito sul cambiamento e sulla cittadinanza, come se la rete delle strade e delle vie fosse di per sè connessione tra vite, storie, spazi e incontri.

    Gli spazi sono aperti, da aprire, da rigenerare. I parchi, i giardini, le panchine sono pubblici, comuni. Condividiamo i pezzi del vivere come se fossero di tutti e per tutti. Ci si domanda quali città sono felici, e quali invece infelici, come se lo spazio fisico e di relazione fossero delle variabili influenti sul clima di chi ci vive, sullo sguardo gettato in quei rapporti.

    Stasera Rosetta da WeMake: La città accessibile

    Tuttavia, questa città ideale, che si racconta e che si analizza, è sempre la città attraversata da soprattutto uomini, giovani e sani che possono accedere senza diseguaglianze allo spazio condiviso. Bambini, donne, anziani, stranieri, sono solo alcuni degli elementi intersezionali che ci permettono di vedere immediatamente come gli spazi di libertà non siano di tutti, per tutti gli stessi.

    È una questione di sguardo, oltre che di prospettiva. Cosa vedono i miei occhi ? A che altezza è l’orizzonte ? cos’è un orizzonte ? Cosa significa vicino o lontano ?

    Per dirla con Calvino, ci sono città sottili, che rimangono divise da ostacoli e barriere che spesso non vediamo perché non vogliamo vedere, o perché queste barriere non ci toccano, o, ancora perché siamo noi stessi a crearle, a portarle nel nostro sguardo. L’occhio che esclude, che infantilizza, che vede solo le differenze è lo sguardo che noi vorremmo superare. Perché non bastano scivoli, passatoie o parcheggi dedicati per rendere le città davvero accessibili.

    Le barriere che dividono gli spazi visibili e invisibili sono moltissime soprattutto di concetto, di pratiche, di scambi. Eppure, secondo le Nazioni Unite, gli Stati “dovrebbero riconoscere l’importanza centrale dell’accessibilità nel processo di realizzazione delle pari opportunità in ogni sfera di vita sociale” non limitandosi all’ambiente fisico rimuovendo gli ostacoli fisici quali le barriere architettoniche mediante linee guida a cui ingegneri edili e architetti dovrebbero ispirarsi ma anche gli ostacoli all’accesso all’informazione sui diritti e i servizi messi a disposizione per consentire le concreta realizzazione delle pari opportunità”.

    Disabilità diventa, nelle norme, un concetto più ampio: disabilità viene definita come un concetto in evoluzione risultato “dell’iterazione di persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena e effettiva partecipazione su base di uguaglianza con altri”.

    Questa definizione, che offre un cambio di prospettiva soprattutto sulla carta, è l’approccio e lo sguardo che vorremmo avere stasera, soprattutto alla luce degli spazi e delle tecniche che possono ridurre lo spazio e costruire comunità d’interesse e non di categoria.

    L’accessibilità è una questione di soggettività, di consapevolezza, ma anche e soprattutto intersoggettiva. E i diritti mancati, e gli spazi preclusi, vanno a determinare la felicità e la bellezza delle città di tutti. Perché, come scrive Massimiliano Verga “Come dicono quelli che hanno studiato, se nascere handicappati (o diventarlo, come nel caso di mio figlio) è una faccenda legata al caso (possiamo dire alla sfiga?), la disabilità è una questione di relazione. Insomma, la disabilità è una colpa sociale. Sono le (non)scelte collettive, appunto, a creare la disabilità di un handicappato”. E delle scelte collettive, possibili, e di quelle relazioni, vogliamo parlare.

    Stasera 25 maggio alle 19 Rosetta arriverà da WeMake, il Fablab e Makerspace in Via Privata Stefanardo da Vimercate, 27. Il tema della serata è l’accessibilità, e la città accessibile come spazio di incontri e di scambi, ma anche l’analisi dei limiti e delle barriere ancora presenti e come poterli superare.

    Una piccola anticipazione: un colloquio con Matteo Schianchi, ospite della serata. Matteo, ricercatore e atleta paralimpico ha pubblicato i due volumi “La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà” (Feltrinelli, 2009) e “Storia della disabilità: dal castigo degli dei alla crisi del welfare” (Carocci 2012)

    wemake milano rosetta

    Cosa significa parlare di accessibilità degli spazi e della città?

    Significa ragionare di città che siano attente alle diversità che compongono la popolazione delle città, per esempio quella relativa alle persone con disabilità. Significa fornire i mezzi, gli strumenti, le vie di comunicazioni utili e idonee affinché queste persone, come tutte le altre, possano avere la possibilità di circolare liberamente, di usufruire degli spazi della città, dei mezzi di trasporto, dei parchi, dei musei, dei cinema, ecc.

    Cosa è ancora inaccessibile?

    C’è ancora moltissimo da fare. Milano ha recentemente ottenuto un riconoscimento come città accessibile, ma è un riconoscimento formale. C’è ancora tantissimo da fare e al di fuori del fatto che Milano sia una città storica. Sono trent’anni che si parla di abbattimento delle barriere architettoniche, ma quanti treni sono stati persi negli ultimi trent’anni a riguardo. Come mai la cultura su questo tema è ancora, tutto sommato, debole? Dopo trent’anni non dovrebbe essere una cosa normale pensare, progettare in modo accessibile?

    La Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità favorisce l’indipendenza, la libertà, l’autonomia, la possibilità di fare scelte, l’accrescimento della consapevolezza. Sono solo propositi o ci sono dei cambiamenti in atto?

    Sono propositi. La Convenzione è una legge dello stato italiano, ma al momento è stata usata “in difesa”. Alcuni tribunali hanno imposto alcune misure (per esempio il sostegno scolastico) poiché, se venivano meno si ledevano alcuni diritti fondamentali. Il fatto è che per poter applicare la Convenzione, sarebbero necessari apparati, dispositivi, culture politico-sociali capaci di stare sulla stessa lunghezza d’onda di questa carta internazionale. Purtroppo non è così.

    Sempre la convenzione Onu all’art. 30 prevede: Gli Stati riconoscono il diritto delle persone con disabilità a prendere parte su base di uguaglianza con gli altri alla vita culturale e adottano tutte le misure adeguate a garantire alle persone con disabilità:

 1.   l’accesso ai prodotti culturali in formati accessibili;
2.   l’accesso a programmi televisivi, film, spettacoli teatrali e altre attività culturali, in formati accessibili; 
3. L’accesso a luoghi di attività culturali, come teatri, musei, cinema, biblioteche e servizi turistici, e, per quanto possibile, a monumenti e siti importanti per la cultura nazionale”.
Qualcosa sta cambiando? Qualcosa è cambiato? 
Sei uno storico, e hai scritto un libro genealogico sulla disabilità “Storia della disabilità dall’antichità ad oggi”. Cosa è cambiato? Cosa è rimasto immutato? 


    È la solita questione del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. Se guardiamo al passato dobbiamo ragionare pensandolo pieno, ma se siamo intellettualmente onesti non possiamo non dirci che è mezzo vuoto: manca ancora molto, e abbiamo i mezzi per fare (quelli tecnologici anzitutto). Il problema è che i mezzi che abbiamo, le relazioni, i modi di pensare non riescono a liberarsi di quel passato così profondo e pesante che identifica la persona con disabilità come individuo inferiore. Fino quando non si affronta, culturalmente, socialmente, nelle pratiche questo modo di pensare la disabilità i cambiamenti possibili sono a corta gittata, possibili per alcuni, ma non per molti.

    Con in più la sicumera e l’idea che si facciano grandi cose per l’accessibilità. Ci sono gioielli della nostra cultura che sono ancora inaccessibili, e non si tratta di sventrare palazzi storici con ascensori e montascale. Provate ad andare in un cinema. Se è accessibile (per chi ha disabilità motorie, mentre le sottotitolature per non udenti sono ancora fantascienza) vedrete che ci sono spazi riservati in prima fila. Ma chi ha voglia di guardare un film a due metri da uno schermo di un cinema! E’ una finzione, ci si dice che è accessibile, ma non lo è fino in fondo. Naturalmente non sempre è così, ma la sola presenza di certe aberrazioni è un indicatore del fatto che la strada è ancora lunga.

    
Per lungo tempo i discorsi prodotti sulla disabilità hanno evidenziato la sottrazione, la differenza. Il racconto perciò è sempre stato costruito o attraverso gli occhi di chi si confrontava con la disabilità a partire dall’abilità o da figure che parlavano in nome e per conto dei soggetti disabili. Come scrivi, “A interporsi tra il disabile e la vita non c’è l’handicap, ma lo sguardo su di esso”. Come possiamo descrivere quello sguardo? Come può cambiare?

    Oserei dire che questo è il mio principale tema di riflessione. Lo sguardo storico che ho sulla disabilità mi aiuta a comprendere quanto e come quello sguardo sia profondo, sedimentato e inconscio, nelle menti di tutti, disabili e non. Difficile rispondere a queste domande se non dicendo. C’è l’intenzione, da qualche parte, di ragionare su questo sguardo e cercare di produrre dei cambiamenti che, necessariamente, devono partire dalle pratiche del quotidiano.

    
Sostieni, a ragion veduta, che i disabili rappresentino, in termini numerici, “La terza nazione del mondo”. Come può essere valorizzata questa centralità?

    Più che valorizzare io direi che è necessario rendersi conto, collettivamente, di queste entità numeriche che sono entità sociali, persone, gruppi, famiglie. Se fosse chiaro che, da che mondo è mondo, a qualcuno tocca la disabilità, tanto quanto tocca a tutti di morire, forse la disabilità, qualsiasi essa sia, verrebbe considerata come una cosa ordinaria. Tutt’al più che la società in cui viviamo produce più disabilità di quanta non ne producesse il mondo di soli trent’anni fa. Un solo esempio: ogni anno ventimila persone, in Italia, acquisiscono una disabilità a causa di incidenti stradali. È un dato nuovo delle società umane, eppure non fa parte della nostra cultura più profonda, ma sicuramente delle nostre paure.

    Quali strumenti o pratiche potrebbero rendere le città e gli spazi per tutti? 


    Progettazione condivisa, ragionata, capace di coinvolgere tutti i soggetti coinvolti, dai progettisti alle diverse tipologie utilizzatori, fino a che fa la messa in opera delle infrastrutture.

    Parlavamo prima di cultura e di prodotti culturali, aggiungerei anche le nuove tecnologie a questo elenco. In che modo cambiano la prospettiva o potrebbe cambiare?

    Le nuove tecnologie hanno cambiato la vita di tutti, nel quotidiano, e la nostra stessa antropologia. Anche sul fronte della disabilità, hanno favorito e permesso cose impensabili. La questione però è che, a mio avviso, la tecnologia è sempre un mezzo e non un fine. Un mezzo per contribuire a migliorare la qualità degli individui nel loro essere “animali sociali”, fatti di relazioni e non semplicemente consumatori o “animali social”.

    Note