La sera dell’8 ottobre 1871 e per due giorni Chicago vive il suo Great Fire, un incendio di così vaste proporzioni da distruggere quasi 18 mila edifici, lasciando un terzo degli abitanti senza casa, oltre che 300 morti, almeno così si stima. Quella catastrofe segnerà un prima e un dopo: se oggi Chicago si presenta come un modello di metropoli verticale e vibrante, lo deve anche a quell’incendio e al modo con cui ha reagito.
Da qui il fascino che continua a sprigionare quella vicenda. Il Great Fire di Chicago lascia intravvedere tutta la complessità della produzione simbolica e materiale di uno spazio urbano quando riemerge da un evento catastrofico. Sul caso Chicago ci ha lavorato in profondità Rosa Tamborrino, storica dell’architettura al Politecnico di Torino, tra le protagoniste delle recenti “Giornate internazionali di studio sul paesaggio” organizzate dalla Fondazione Benetton di Treviso e dedicate quest’anno proprio al fuoco.
«Gli incendi hanno un forte impatto sull’identità urbana e sulla memoria degli abitanti – racconta – La distruzione delle strutture fisiche, dunque edifici, strade, spazi pubblici altera la fisionomia delle città e scompiglia i flussi delle persone, cambia le relazioni tra quartieri e regioni, rompe e ricompone i legami sociali». Gli effetti sono trauma e perdita. «Eppure, nel corso della storia i disastri sono pure delle opportunità per riscrivere l’identità delle città. È successo anche con il grande incendio di Londra o il terremoto di Lisbona, solo per citarne alcuni di una lunga serie, ma Chicago più di altri condensa una serie di particolarità»
Incendi, alluvioni, terremoti accendono una memoria ancestrale della paura urbana. Che peculiarità ha un incendio rispetto ad altre catastrofi?
Gli incendi non sono solo una traccia del passato. L’estate scorsa abbiamo visto come il fuoco sia stato un elemento ricorrente: in aree intere della Francia, ad esempio, ha seminato panico per essere arrivato molto vicino ai centri abitati. Da quello che abbiamo registrato anche in altri progetti, la differenza tra diversi tipi di catastrofi sembra legata a come si vive l’evento e a come si reagisce. Il fuoco è una delle situazioni peggiori, di fronte a cui si sente quasi una incapacità di reazione. Non c’è modo di prepararsi, rispetto ad alluvioni e terremoti. E quello che lascia è una tabula rasa: l’acqua via via si ritira, il fuoco invece dilata i tempi della catastrofe, pialla e desertifica. Nel caso di Chicago è interessante il fatto che si sia legato al vento che spira sempre sulla città: i due elementi naturali si sono tragicamente intrecciati. Ma quello che più colpisce è la narrazione che produce, anzi le narrazioni, per effetto del tipo di risposta e della velocità di quella risposta.
A Chicago impressiona proprio la capacità della comunità di prendere rapidamente decisioni importanti.
La risposta è davvero immediata, perché punta subito a ricostruire la città e riprendere la vita. C’è un’immagine emblematica: in un paesaggio di rovine, si vede il tram che gira, perché viene rimesso subito in servizio. Le stesse attività commerciali riaprono fin dal momento in cui si doma l’incendio, mentre le imprese di costruzioni preparano case temporanee in legno. È opera dell’iniziativa privata, ma anche della reazione da parte della macchina federale e cittadina dei soccorsi. Arrivano presto aiuti di prima necessità da altri Stati, materiali e finanziari, si interviene per riaprire ponti e edifici pubblici. Altrettanto interessante è che all’inizio lo spirito è quello di ricostruire “dov’era e com’era”, ma le difficoltà arrivano subito e si fa i conti ad esempio con il problema dei titoli di proprietà, finiti bruciati.
In quel momento avviene uno scarto: si procede a reinventare la città andata perduta. Cosa succede? Come si produce questo slancio?
Ricostruire è costoso, si sa. Ed è evidente come in un’area rasa al suolo sia più facile acquisire terreni. Così le companies comprano con l’obiettivo di massimizzare l’investimento. Siamo pur sempre in una città americana, deregolamentata, dove il governo locale non ha un ruolo di guida e di protagonismo reale nel progettare e normare. Sarà proprio il fuoco a porre la questione e riscrivere lo sguardo anche urbanistico e di piano. Non a caso proprio Chicago concepirà uno dei primi piani urbanistici e uno dei più belli, firmato da Daniel H. Burnham. Il vero motore sono gli investitori: per recuperare il capitale, si agisce sulla rendita dei terreni sfruttando le innovazioni tecnologiche sulla verticalità degli edifici. Peraltro, molte delle tecnologie e dei macchinari utilizzati per innalzare i grattacieli nascono proprio come attrezzature anti-incendio. Alla fine, i grattacieli e le nuove tecnologie così rapidamente adottati dall’architettura, finiscono per ridisegnare la struttura e l’economia della città: il distretto del business diventa una sorta di catarsi per uscire dal trauma dell’incendio e proiettarsi nel futuro.
Quello che avviene si può considerare un controcanto con la tradizione europea?
Proprio la ricostruzione di Chicago, immaginata oltre i canoni, fuoriesce dalla tradizione che veniva dall’Europa, facendo emergere una scuola tutta americana di architettura: è la famosa Scuola di Chicago. Rispetto all’Europa, c’è da considerare come l’incendio di Chicago mostri anche tutte le differenze con casi analoghi avvenuti nel vecchio continente: la città americana non ha una memoria storica e fisica lunga, né architetture antiche, né conosce la funzione regolatrice esercitata delle istituzioni. Per cui le dinamiche della risposta sono visibilmente diverse. Pensiamo ad esempio al grande fuoco di Rialto a Venezia del 1514: anche in quel caso il fuoco significa rigenerazione, ma ci sono norme precise e c’è la repubblica. A Venezia è l’occasione per riorganizzare lo spazio e controllarlo meglio: va a fuoco il mercato, il cambio valute, il commercio, il cuore economico e finanziario della città. Per cui lo Stato interviene per mettere ordine nel senso di ridisegnare la sua capacità di controllo: è il contraltare della vicenda americana.
Una cosa che sbalordisce gli europei di fronte alla ricostruzione di Chicago è la velocità, oltre che l’invenzione urbana: così nasce il mito della “rinascita di Chicago” come viene esaltata dai media europei dell’epoca fin da subito.
Nel 1893, dodici anni dopo, Chicago è pronta ad ospitare l’Esposizione internazionale per le celebrazioni colombiane. Quanto ha pesato la preparazione di un grande evento nella ricostruzione e nell’invenzione della città?
Non ci sono elementi per considerare l’Esposizione un obiettivo. L’evento viene vissuto piuttosto come alterità. Chicago è città del business, non della bellezza, per cui prevale l’idea di creare accanto alla città vera, ipermoderna ed efficiente, una città-fiera effimera, di stucchi, canali, gessi e simmetrie, evocando il gusto neoclassico e l’architettura europea. Ma è un richiamo effimero, appunto.
Che relazione si può leggere tra consapevolezza di fare una città nuova e la memoria del fuoco?
Credo ci sia consapevolezza dell’impatto che produce l’architettura iper-moderna che si sta facendo, ma non è ancora sentito come un modello, quello che avrebbe plasmato a fondo le città americane. A ogni modo, è interessante notare come ricostruzione e memoria vadano di pari passo. Nasce fin da subito l’associazione che raccoglie la memoria della città, crea un archivio che colleziona i disegni, le fotografie, i memoriali. La Chicago Historical House funge fin dal 1856 come la memoria della città, ma nell’incendio perde tutto. I suoi sforzi si moltiplicano dopo il disastro, con la raccolta di oggetti in tutte le zone colpite, per farne un memoriale, una casa della memoria, stampando foto e cartoline per i visitatori che arrivavano in città per vedere l’enorme disastro. L’eco è internazionale: stampe e foto del prima e del dopo sono riprodotte e diffuse negli Stati Uniti e in Europa.
Anche la costruzione della memoria ha una sua particolarità americana
Si ricostruisce e si documenta. Ed è una memoria “privata”: mentre in Europa sono gli attori pubblici che si assumono questo compito, là sono associazioni private. È un pezzo di società civile che si muove, una society appunto: per ironia del destino, parte di quell’archivio brucia a distanza di tempo e così ricominciano daccapo in modo ancora più organizzato. Stiamo parlando di una società civile che corrisponde alle élite cittadine. Sono loro che si fanno carico di ricostruire una memoria collettiva, è qualcosa di molto peculiare della tradizione americana, dove hanno grande protagonismo mecenati e benefattori.
D’altra parte, questo movimento di preservazione ha qualcosa di inedito: pensiamo alla raccolta dei disegni di architettura che nessuno all’epoca avrebbe mai pensato di conservare. Siamo di fronte a una memoria del presente, rivolta al futuro ma del presente.
Da subito si cercano i responsabili e a un certo punto viene trovato il colpevole: una mucca avrebbe scalciato delle braci, in una fattoria di proprietà di immigrati, gli O’Leary. E’ una fake news, eppure si radica nell’immaginario. Possiamo dire che l’incendio contiene anche una narrazione di classe?
Nel caso della storia degli O’Leary potremmo dire di sì. Vent’anni dopo si saprà, per ammissione del giornalista Michael Ahern del Chicago Republican, che è una storia completamente inventata, ma si dovrà arrivare solo al 1997, quasi un secolo dopo, perché il City Council scagionasse ufficialmente la mucca degli O’Leary e i suoi proprietari. Peraltro, il Chicago Fire Departement ha sede proprio dove all’epoca c’era la proprietà degli O’Leary.
Là dentro c’è la storia non solo di Chicago ma della città americana tout court, nata dal nulla, cresciuta in modo casuale, che dalla catastrofe esce più forte di prima. La narrazione che produce l’incendio è una storia perfetta per più di un motivo. Innanzitutto, aiuta a raccontare il passaggio da città-villaggio dove coesistevano molte realtà rurali a grande città industriale fondata sulla moderna tecnologia. In secondo luogo, la storia della mucca si intreccia con la migrazione e la working-class: che si cerchi e si trovi là il colpevole non sorprende, è un meccanismo che si ripete sempre, anche oggi, è la stessa storia dei migranti incoscienti che si portano i figli nel Mediterraneo facendoli morire.
La cosa interessante è la narrazione della narrazione: pensiamo ai film nati su questi racconti del fuoco, come In Old Chicago del 1937, con protagonista Tyrone Power, di grande successo e che segnerà profondamente e lungo la memoria dell’incendio. Così il fuoco, anche nella spettacolarizzazione cinematografica, si conferma un elemento catartico.
Immagine di copertina: Chicago in fiamme; Union Publishing Company, litografia, 1872 (ichi-64423)