Quali prospettive possibili per un’Europa nel caos?

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L’Europa che conosciamo è destinata a cambiare. Di Maio lo ha affermato in maniera netta appena qualche giorno fa: “Diciamoci la verità questa Europa qui, tra sei mesi è finita. Tra sei mesi ci sono le elezioni europee e come c’è stato un terremoto politico in Italia il 4 marzo, ci sarà un terremoto politico alle elezioni europee di maggio“.

Tuttavia, i sondaggi, per il momento, non confermano la sua ipotesi. L’ultimo in ordine temporale è stato elaborato da Politico.eu. Come gli altri che lo hanno preceduto, mostra l’ala destra dell’euroscetticismo ancora ben lontana dalla maggioranza. L’internazionale sovranista raccoglie consensi, ma non abbastanza da scardinare gli attuali rapporti di forza.

Le attuali famiglie politiche dovrebbero mantenere le loro posizioni, benché con un numero inferiore di poltrone. Il centrosinistra dovrebbe perdere circa 51 seggi (passando da 188 a 137 deputati), mentre il centrodestra dovrebbe perderne soltanto 41 (passando da 219 a 178), rimanendo comunque la prima forza in Europa.

Per l’Europa della libertà e democrazia diretta e l’Europa delle nazioni e della libertà è stimata una crescita importante in termini relativi, ma poco rappresentativa in termini assoluti (rispettivamente: 11 e 24 seggi).

Un terremoto politico necessita di altri numeri, numeri che alla data attuale sono irrealistici. Le parole di Di Maio, però, colgono un passaggio importante: la grosse koalition liberale (che mette assieme socialisti e popolari) sembra destinata ad essere notevolmente ridimensionata. Data la sua impopolarità, non è detto che venga riproposta come forma di governo europeo.

D’altra parte, il leader principale di quell’esperienza, Angela Merkel, in patria parrebbe aver intrapreso una parabola discendente.

I sondaggi descrivono un tracollo della sua CDU, a cui assegnano un modesto 26%, una percentuale molto ridotta rispetto ai fasti del passato. Lo stesso vale per l’SPD, suo partner nel governo tedesco, crollato al 16%. Le due forze assieme, arrivano a stento al 44%.

Ciò si traduce, inevitabilmente, in un ridimensionamento del ruolo europeo della cosiddetta cancelliera di ferro. Del ruolo e del modello politico portato avanti da quello che era l’asse franco-tedesco.

In Francia, il progetto europeista di Macron non riesce a decollare. En Marche non raccoglie i consensi sperati. A lui si unisce soltanto Mark Rutte, il premier olandese che ha sconfitto frammentazione e populismo in patria. Troppo poco per un progetto che prevedeva di formare un blocco unico europeista pre-elettorale. Naturalmente il quadro è ancora molto fluido, rendendo impossibile fare previsioni. Se per esempio le elezioni di Maggio si trasformassero in un referendum sul futuro dell’Europa, il suo progetto potrebbe fare il pieno di consensi, ma alla data attuale quel clima sembra quanto mai distante.

Nel frattempo, Salvini e Le Pen hanno battezzato la nascita del Fronte della libertà, una nuova famiglia politica europea connotata da una forte presenza sovranista. Nulla di nuovo sotto il cielo, si potrebbe replicare.

I due leader condividevano già il gruppo a Bruxelles, ENF, assieme al Partito per la libertà Olandese, al Partito della libertà austriaco, al polacco Congresso della nuova destra, al belga Interesse Fiammingo. Nei loro piani, ad esso si dovrebbe unire l’ECR, all’interno del quale militano i polacchi di Kacyzinski, i Democratici Svedesi e l’estrema destra tedesca AFD.

Eppure la proposta del duo Salvini – Le Pen, nella sua banalità, sta raccogliendo molte adesioni. La strategia è semplice: a maggio ognuno va per sé, prova a massimizzare il risultato elettorale nel proprio paese, a urne chiuse si confluisce tutti nello stesso gruppo in europarlamento. L’obbiettivo è quello di arrivare secondi, in coda al PPE, in modo da frenare sul nascere qualsiasi tentativo di grosse koalition.

In questo senso la permanenza di Orban all’interno dei popolari è determinante, serve a creare un canale d’interlocuzione che potrebbe rivelarsi fondamentale nella costruzione della maggioranza parlamentare.

Se ciò dovesse accadere, sarà impossibile che alla famiglia politica costruita da Salvini non vadano alcune delle posizioni chiave: la presidenza della Commissione Europea, la presidenza del Consiglio Europeo, la presidenza del Parlamento Europeo, l’alta rappresentanza per la lo politica estera. E ciò, di fatto, cambierebbe il volto dell’Europa.

Resta da vedere se questo nuovo volto sarebbe migliore o peggiore del precedente. Con le sue dichiarazioni, Di Maio non coglie un passaggio politico fondamentale: lo scenario che si profilerà se dovessero vincere le forze raggruppate da Salvini è l’esatto opposto di quanto propone ai suoi.

Non sarà affatto un’Europa rinnovata, all’interno della quale l’austerity sarà solo un ricordo del passato, bensì un’Europa ancora più marcatamente liberista – nazional-liberista, per la precisione. Per rendersene conto, basta leggere i programmi delle principali forze che compongono questo nascituro sedicente “fronte della libertà”: politiche di estremo rigore per gli Stati maggiormente indebitati (quelli che non “fanno i compiti a casa”); tagli alla spesa pubblica; robuste politiche anti-migratorie; meno tasse per tutti, specie per i ceti alti; privatizzazioni.

Tanta austerity, poca o nessuna apertura verso le fasce di reddito più basse, xenofobia: l’Europa dei popoli di Salvini è molto diversa dall’Europa politica a cui allude spesso Di Maio nei suoi interventi.

Verrebbe da pensare che l’Europa politica così fortemente spinta da Di Maio semplicemente non esista. È frutto di una mistificazione ingenua, tanto più preoccupante se si pensa che il M5S, rifiutato da Macron e dai Verdi, lontano dal PPE, al momento non fa gruppo con nessuno.

Fico ha già dichiarato che il movimento correrà solo alle elezioni. Nessuno, tuttavia, ha ancora dichiarato cosa farà il M5S il giorno dopo le elezioni, assieme a quale famiglia politica siederà, con chi si schiererà. Tale indecisione va a tutto vantaggio del suo partner di governo.

Sul fronte della politica interna, Salvini sta portando avanti una strategia molto ben congegnata. Protegge il suo elettorato, lo alimenta, lo educa a rispondere a tono contro chiunque abbia da ridire, lo protegge ogni volta che può. Benché ancora non ci sia niente di certo, ha già portato a casa risultati importanti. In soli 7 mesi di governo, ha reso l’Italia un paese ostile a qualsiasi forma di migrazione, all’interno del quale è possibile (ed è anzi auspicabile) vantare il proprio risentimento su base razziale, un risultato che la Lega, sinora, non era mai riuscito ad ottenere.

Il massiccio trasferimento di fondi dal Sud al Nord ha dato ragione a chi, a Nord, ha continuato a votare la Lega pensando che l’Italia si divida tra un Sud parassita e un Nord produttivo. La flat tax aiuterà tutte quelle partite iva (e sono tante) che hanno creduto in lui. La pace fiscale convincerà ancora di più i reduci di Forza Italia ad aver fatto la scelta giusta ad abbandonare il vecchio per il nuovo. L’aumento del suo consenso non è casuale, né temporaneo: è un dato destinato a durare, a rafforzarsi, a diventare strutturale.

Lo stesso non si può dire dell’operato di Di Maio, la sua direzione del M5S si sta rivelando catastrofica. Appiattito sulle posizioni di estrema destra promosse da Salvini, circondato da uno staff spesso scadente, non è ancora riuscito a concludere nulla di rilevante. La battaglia sui vitalizi si è rivelata per quello che è: una battaglia giusta sul piano etico, ma ininfluente sul piano delle finanze pubbliche.

Discorso analogo per la cosiddetta lotta alla corruzione, lotta sacrosanta, ma i cui esiti difficilmente porteranno alcun risultato reale, data la povertà dei provvedimenti messi sul piatto.

Rimane il reddito di cittadinanza, l’unico cavallo sul quale il M5S può ancora puntare. Un cavallo difficile da domare, specie se si è illuso il proprio elettorato che fosse destinato a tutti i disoccupati. Naturalmente non è così. Le risorse sul piatto sono esigue. Bene che vada, riuscirà a coprire le esigenze di una platea di poco più grande di quella del Reddito di Inclusione voluto dal governo Gentiloni.

È naturale che tutti questi nodi vengano al pettine. Le elezioni si Maggio saranno un test importante per gli equilibri interni dell’attuale coalizione di governo. È inevitabile. Il rischio è che si trasformino in una caporetto del movimento pentastellato.

Proviamo a delineare alcuni scenari.

  • Se la Lega mantenesse il consenso avuto alle scorse elezioni (sotto il 20%), probabilmente nessuno avrebbe interesse a modificare le proprie posizioni all’interno della coalizione di governo;
  • Se, viceversa, la Lega superasse la soglia del 20% gli equilibri di governo comincerebbero a diventare troppo stretti per un alleato in crescita;
  • Se si avvicinasse al 30%, Salvini, di fatto, non avrebbe più alcun bisogno di un’alleanza per governare il paese;
  • Se superasse la soglia del 30%, sarebbe incredibilmente stupido a non staccare la spina all’esperienza di cogestione gialloverde della cosa pubblica.

In ognuno di questi scenari il M5S non guadagna nulla; in tre su quattro perde, e perde parecchio. La situazione è tutt’altro che rosea, la partita molto complicata.

In realtà si va delineando anche un altro potenziale scenario, poco probabile, ma comunque plausibile.

Se il leader della lega, forte dei sondaggi, fosse sicuro di un ottimo risultato alle prossime europee, la difficoltà di monetizzare subito tale risultato (un voto estivo è una delle ipotesi più paventate dalla Lega l’estate scorsa), potrebbe portarlo a considerare l’ipotesi di tentare il “colpaccio”: ossia dichiarare chiusa questa esperienza di governo, andare alle elezioni a Marzo, vincerle assieme a Fi e Fratelli d’Italia – due partner molto più comodi del M5S – e, forte di tale risultato, provare a fare il bis alle europee, rafforzando così la propria posizione a Bruxelles.

Il casus belli sarebbe facile da trovare (lo spread oltre soglia 400, le diverse priorità in merito alle misure da finanziare, le continue bocciature a livello internazionale, c’è solo l’imbarazzo della scelta), un po’ meno l’appoggio di Mattarella. Il presidente della Repubblica potrebbe optare per un governo tecnico complicando ulteriormente il quadro.

D’altra parte, un governo di transizione al quale delegare la patata bollente dello sforamento del deficit, potrebbe risolvere brillantemente l’empasse attuale: la soglia del 2.4 potrebbe essere facilmente cancellata, compiacendo Bruxelles e frenando la sfiducia dei marcati, senza, però, intaccare le promesse di nessuno dei due alleati di governo, lanciandoli, anzi, verso una campagna elettorale con le rispettive basi ricompattate attorno alle parole chiave di sempre, Reddito di Cittadinanza e lotta alla corruzione, da una parte, flat tax, porti chiusi, pace fiscale, abolizione della Fornero, dall’altra. Quasi una strategia win-win.

Non è detto che non piaccia a tutti. Insomma, grande è la confusione sotto il cielo, eppure la situazione sembra tutt’altro che eccellente. Soprattutto per i 5S.


Immagine di copertina: ph. Ryan Searle da Unsplash