Abbiamo a disposizione 11 anni per evitare il collasso del nostro pianeta. Sembra un’esagerazione scrivere una frase del genere oggi, nel bel mezzo della più grande pandemia della nostra generazione, ma la scienza è chiara: l’impatto di questo virus sarà sicuramente più limitato rispetto agli effetti del surriscaldamento globale.
Dobbiamo decarbonizzare le nostre economie entro il 2030 e la buona notizia è che abbiamo tutti gli strumenti per raggiungere questo traguardo. Nei due terzi dei paesi del mondo i nuovi impianti rinnovabili sono meno cari di quelli a combustibili fossili, il costo delle batterie è diminuito radicalmente, l’elettrificazione dei mezzi di trasporto è sempre più una realtà, mentre capiamo ogni giorno di più l’impatto della nostra agricoltura sull’ambiente.
L’ostacolo a questa trasformazione è solo politico. Prendiamo ad esempio il petrolio. È da decenni chiara la necessità di superare la nostra dipendenza da combustibili fossili, perfino le compagnie petrolifere ne parlano ormai apertamente. Nonostante la scienza sia chiara, i governi non solo non stanno pianificando l’uscita di scena dei combustibili fossili, ma addirittura li sovvenzionano, con una cifra che nel 2017 era ancora pari al 6.5% del PIL mondiale.
Per dare un’idea dell’ordine di grandezza di tale spesa, l’Italia spende in istruzione il 3.6% del suo PIL. Se i governi decidessero di creare una tariffazione più efficiente, potremmo tagliare le emissioni globali di carbonio del 28% e le morti per inquinamento atmosferico del 46% (almeno 10,000 morti in meno solo in Europa all’anno) con un conseguente aumento medio delle entrate statali del 3,8% del PIL.
Tagliando le emissioni globali di carbonio del 28% ridurremmo le morti per inquinamento del 46% con un aumento delle entrate statali del 3,8% del PIL
Cosa ci dice del nostro sistema politico ed economico il fatto che il destino del nostro pianeta non sia trattato come una priorità? Nel 2008 le banche furono salvate perché troppo importanti per fallire, non vale lo stesso per la casa nella quale viviamo?
Serve una politica che metta al centro il benessere del cittadino e un’economia che non consideri le risorse del nostro pianeta come inesauribili. Per questa lotta serviranno compagni di cammino, e il movimento deve cercare alleati nei movimenti femminista, anti-razzista e nei vari movimenti per il lavoro, che combattono le stesse lotte contro gli stessi ostacoli posti dello stesso sistema.
Un contributo a questa conversazione viene offerto da un libro da poco tradotto in Italia da Treccani, Un’altra fine del mondo è possibile di Pablo Servigne, Raphaël Stevens, Gauthier Chapelle, che affronta un aspetto ancora poco esplorato: l’impatto emotivo che questa grande crisi sta portando e porterà sui singoli individui.
Questo trauma sarà causato dalla perdita di piccoli e grandi riferimenti naturali che hanno caratterizzato le nostre vite, come la neve di inverno e l’esistenza stessa della barriera corallina. Gli autori usano la definizione di “collassosofia” per descrivere una particolare prospettiva rispetto al mondo nel quale viviamo pronta ad accettare la fine sia della nostra civiltà come la conosciamo.
Siamo una civiltà composta da individui in preda a un’amnesia: la dimenticanza sia del nostro ruolo dentro e non al di sopra della natura, sia dell’importanza dei “beni dell’anima”, succubi di un’anestesia collettiva che ci permette di sopravvivere senza essere sopraffatti dal dolore esistenziale che queste perdite portano con sé. Gli autori prendono spunto dalle cinque fasi del lutto per descrivere il processo attraverso il quale ogni individuo passa dall’iniziale trauma nello scoperire questo rischio esistenziale, al raggiungimento di una guarigione interiore.
Simile approccio viene utilizzato dagli attivisti di Extinction Rebellion, invitati a piangere come rito di passaggio per scaricare il peso insostenibile di questa catastrofe e pacificare la propria anima prima dell’energia all’azione. In questo senso anche gli autori analizzano il sentimento di paura come stimolo e come inibitore all’azione. Una volta avvenuta questa presa coscienza, l’individuo deve scendere a patti con l’ingiustizia della società termoindustriale nella quale vive. Gli autori vedono le comunità sia come antidoto contro il dolore scaturito da questa incertezza del futuro che come capitale sociale, ultima forma di resilienza.
Il limite di una rivoluzione individuale è la mancanza di una prospettiva che va al di là della catastrofe ecologica
La parte più interessante del libro é il tentativo di ridefinire i termini della narrazione dominante. Non siamo infatti in grado di pensare oltre: giudichiamo i nostri sistemi politico-economici cosi’ inevitabili da averli scambiati per la realtà stessa, unica e inevitabile.
Il limite di questa rivoluzione individuale mostrata dal libro, è la mancanza di una prospettiva che va al di là della catastrofe ecologica: la comprensione che la propria disperazione non solo non è individuale, ma è anzi intrinsicamente umana, figlia di un’angoscia per la fine del sistema che ci ha creato e ci sostiene. Questo senso di umanità è il significato stesso della lotta e terreno di incontro di tutti gli altri deboli che la società termoindustriale ha fino ad oggi sfruttato: la donne, i poveri, la minoranze sono fratelli della difesa della natura.
Questa presa di coscienza ha valore solo se trascende la propria comunità e ci aiuta a incontrarne un’altra, uguale nella sua diversità e unita dello stesso senso di ingiustizia.
La presa di coscienza individuale è cosi’ il primo passo della creazione di questa santa alleanza ed è per questo che Un’altra fine del mondo è possibile è un libro che vale la pena essere letto.