L’archivio nell’arte contemporanea: una conversazione con Valentina Tanni

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    Da sei anni cheFare cura un programma di incontri sulla trasformazione culturale al festival mantovano FattiCult (Fattidicultura). Quest’anno abbiamo riunito attorno a un tavolo tre figure eterogenee per riflettere sul rapporto tra archivi e cultura contemporanea: l’artista digitale e docente Marco Cadioli, la storica dell’arte e curatrice Valentina Tanni e l’attivista bibliotecario digitale Andrea Zanni.

    Perché questa scelta? Negli ultimi anni la quantità di informazioni prodotte quotidianamente ha raggiunto livelli letteralmente inconcepibili, facendo fiorire gli studi di discipline come la cibernetica e le data sciences. Allo stesso tempo, si sono consolidate intere aree del sapere (dalla filosofia all’antropologia) che si occupano delle implicazioni critiche degli archivi, delle loro logiche di potere, delle loro omissioni e del loro ruolo nella produzione e riproduzione della costruzione sociale del genere, dell’identità etnica e di quella di classe. Non sorprende allora che un numero crescente di artisti e studiosi si interroghino attorno alle pratiche dell’archivio alla ricerca di punti di vista inediti sul contemporaneo.

    L’incontro ci è piaciuto, ed abbiamo deciso di intervistare gli ospiti per approfondire. Iniziamo con Valentina Tanni, una ricercatrice che segue dai suoi esordi gli sviluppi del rapporto tra arte e Internet attraverso un lavoro costante di curatela, docenza, divulgazione e attivismo culturale.

    Valentina Tanni

    Sei una delle pioniere in Italia della riflessione su arte e nuovi media. Puoi raccontarci qualcosa in più del tuo percorso?

    Di formazione sono una storica dell’arte. Durante gli ultimi anni di università ho concentrato i miei studi sul contemporaneo e in particolare sul rapporto tra arte e tecnologia, anche grazie alle lezioni di Silvia Bordini, che alla Sapienza di Roma teneva corsi su videoarte, arte interattiva e anche sulle prime sperimentazioni artistiche con i computer.

    Poi nel 1997 a casa mia è entrato il primo modem, e da allora le cose sono precipitate: il mio interesse per i rapporti tra mondo dell’arte e mondo della tecnologia si è intensificato grazie alla passione folgorante che ho avuto per la net art negli Anni Novanta e Duemila. Osservare il modo in cui quegli artisti rivoltavano Internet, smontavano le interfacce, giocavano con il crash e l’errore, mettevano in discussione strumenti e procedimenti, per me fu estremamente formativo.

    Mentre scrivevo la tesi, che ho poi discusso con Silvia Bordini e Gianni Romano, ho iniziato anche a lavorare per alcune testate online e poi come curatrice di mostre, sempre concentrando la mia attenzione su quella che di lì a poco sarebbe stata battezzata “new media art”. Ho co-fondato Exibart e successivamente Artribune (con la seconda collaboro tuttora) e per dieci anni ho gestito Random Magazine, una specie di blog ante litteram che segnalava e recensiva progetti di net art (e dintorni).

    Jon Rafman, Maps and Legends. When Photography Met the Web, Roma, Macro Testsaccio, 2010

    Dal 2010 al 2012 sono stata curatore ospite di Fotografia Festival Internazionale di Roma, ed è stata l’occasione per approfondire i cambiamenti avvenuti nel mondo della fotografia – e dell’immagine in generale – in seguito all’avvento delle tecnologie digitali.

    Negli ultimi anni ho concentrato la mia attenzione sul mondo delle culture amatoriali in rete, cercando anche di analizzarle in chiave storico-artistica e mettendo in evidenza la loro enorme importanza per la cultura visiva contemporanea. In questo senso è stata centrale la mostra Eternal September. The Rise of Amateur Culture, organizzata con Aksioma a Lubiana nel 2014.

    Su questi temi ho scritto anche un libro che uscirà a inizio 2020.
Un’altra cosa che faccio con grande piacere è insegnare. Negli anni ho lavorato in varie università, accademie e istituti privati. Al momento ho un corso di Digital Art al Politecnico di Milano e uno di Culture Digitali alla Naba di Roma.

    Nel corso del ‘900 l’archivio all’interno dell’arte contemporanea è stato strumento, opera, ispirazione, oggetto di ricerca, dispositivo. Puoi tracciare un breve percorso?

    La fascinazione per il tema dell’archivio – inteso come oggetto culturale ma anche come dispositivo di organizzazione dei contenuti – è molto presente nella storia dell’arte contemporanea. Si tratta di uno dei filoni più fortunati e ricchi di sviluppi, soprattutto a partire dagli Anni Sessanta, quando gli artisti, seguendo l’esempio delle avanguardie storiche ma con modalità assai più radicali, sentirono il bisogno di abbattere i confini tra opera e mondo, tra arte e vita, tra opere d’arte e semplici oggetti. Per questo, anche sull’onda del boom dell’arte concettuale, nelle mostre iniziarono a comparire documenti, oggetti, residui di realtà, spesso organizzati prendendo a prestito la “forma” dell’archivio, che si trasforma in una specie di linguaggio, una struttura espressiva.

    Queste opere riguardano spesso la rielaborazione di una memoria storica, che può essere collettiva o personale; a volte esprimono un disperato (quando non impossibile) tentativo di sistematizzazione del mondo, con progetti ossessivi di catalogazione; altre volte assumono le connotazioni del gesto politico, mettendo in discussione le strutture di potere; infine, e sempre più spesso man mano che ci avviciniamo al presente, analizzano e mettono in discussione il ruolo della tecnologia nella formazione e nella gestione degli archivi e dell’informazione in genere.

    Mauro Ceolin, Colin Guillemet, Eternal September The Rise of Amateur Culture, Skuc Gallery, Lubiana, 2014- photo Miha Fras

    Naturalmente esistono anche alcuni precedenti, che possiamo datare intorno ai primi decenni del Novecento (pensiamo alla Boîte-en-valise di Marcel Duchamp (1935-41) oppure alle opere di Joseph Cornell), ma è dagli Anni Sessanta in poi che l’archivio diventa una presenza stabile e sempre più frequente. Di esempi se ne potrebbero fare a centinaia: c’è il famoso Atlas di Gerhard Richter (1962-2013), un’opera monumentale di raccolta di fotografie, schizzi e ritagli di giornale che documenta la ricerca dell’artista tedesco nell’arco di cinquant’anni; il libro fotografico concettuale Twentysix Gasoline Stations di Edward Ruscha (1963) che cataloga in modo algido e impersonale le pompe di benzina della Route 66, un elemento trascurabile (e trascurato) del paesaggio americano; la raccolta di vetrini con il sangue dei poeti, raccolti da Eleonor Antin (Blood of a Poet, 1965-8), un oggetto paradossale che introduce ironicamente ma con forza il tema della corporeità; e naturalmente le monumentali installazioni di Marcel Broodthaers (Musée d’Art Moderne, Département des Aigles, 1968) e Hanne Darboven (Kulturgeschichte, 1980-1983), che ripensano radicalmente il concetto di museo e di archivio come istituzioni culturali, strutture di potere volte a custodire la memoria di una civiltà, spesso con criteri arbitrari e censori.

    Eternal September The Rise of Amateur Culture, Skuc Gallery, Lubiana, 2014- photo Miha Fras.jpg

    Infine, ci sono esempi più irregolari, che si inoltrano nei territori della poesia, dell’utopia e della performance, come Variable Piece di Douglas Huebler (1973), un assurdo tentativo di archiviare le sembianze di tutti gli esseri umani in vita al mondo. Penso anche alle Time Capsules di Andy Warhol (1974-1987) una specie di anti-archivio, un ammasso di oggetti che nel loro programmatico disordine finisce per restituire una fotografia molto più fedele della vita delle persone, un flusso in cui oggetti, incontri e situazioni si stratificano in maniera non regolata e caotica.

    Cosa è cambiato negli ultimi 20 anni? Quali sono gli aspetti da tenere presenti oltre a quelli meramente tecnici?


    Dopo il grande fermento negli Anni Sessanta e Settanta, un altro picco di attenzione sul tema l’abbiamo visto a partire dai primi Anni Duemila, quando una serie di testi critici e di mostre internazionali hanno rispolverato la questione, ponendola ancora una volta al centro del dibattito artistico. Penso per esempio alla pubblicazione di An Archival Impulse di Hal Foster (2004), un saggio molto letto e ultracitato, ma anche a mostre come Archive Fever: Uses of the Document in Contemporary Art curata a Londra da Okwui Enwezor nel 2008 (che nel titolo fa riferimento a un fondamentale testo di Jacques Derrida del 1995); alle Biennali di Massimiliano Gioni – quella di Gwangju e poi quella di Venezia – e alla dOCUMENTA di Carolyn Christov-Bakargiev (dove spiccava un’incredibile installazione-archivio di Kader Attia che affrontava con forza temi come il post-colonialismo).

    Questa rinnovata attenzione al tema secondo me è il frutto di due diversi fattori: la sempre maggiore disponibilità di materiali, sia testuali che visivi, innescata dai processi di digitalizzazione e una sempre più sentita attitudine multidisciplinare, che ha portato gli artisti ad abbracciare materiali e metodi che provengono dal mondo della scienza, della filosofia, della storiografia.

    Volendo soffermarsi, in modo particolare, sul primo aspetto, ossia sulle evoluzioni tecnologiche, vediamo che tantissimi artisti sentono l’esigenza di indagare i mutamenti intervenuti nella nostra concezione di memoria nell’epoca dei database e della sorveglianza globale. Ma anche di indagare aspetti più personali, dimostrando come ogni persona con un computer e una connessione Internet diventi, di fatto, un potenziale archivista. Sia che lo faccia in maniera conscia (pensiamo alle raccolte di tramonti messe insieme da Penelope Umbrico tramite Flickr), oppure inconsapevole (come dimostra la serie Internet Cache Self Portrait di Evan Roth, incentrata sul meccanismo della cache). Ha indagato in maniera approfondita questo tema, ossia l’artista come archivista ai tempi del web, una bella mostra curata da Domenico Quaranta nel 2011 (Collect the WWWorld: The Artist as Archivist in the Internet Age).

    In quest’epoca di incertezza sul rapporto tra realtà e rappresentazione e tra informazione e memoria, credi che possa esserci un nuovo ruolo per figure come la tua anche al di là delle reti degli addetti ai lavori?

    Bella domanda. Sicuramente abbiamo tutti bisogno, come individui e come società, di riflettere su queste tematiche più a fondo.

    I cambiamenti in corso sono profondi e a volte anche sotterranei, il che rende molto difficile la loro interpretazione. Penso che guardare quello che fanno gli artisti sia importante, perché il loro punto di vista è spesso svincolato da interessi economici e non ha come obiettivo la vendita di prodotti o l’adesione a un qualsiasi credo. Questo atteggiamento mentalmente libero è fondamentale in un’epoca come la nostra, dominata da interessi corporate e tecnologie opache.

    Zack Dougherty, Dataphobia, 2014 – in Stop and Go, The Art of Animated Gifs, Smart Polo per l’arte, Rome, 2012.jpg

    Non dobbiamo però commettere l’errore di considerare l’artista come una specie di profeta, contribuendo a tenere in vita un concetto vetusto come quello del genio superiore. Credo che oggi sia fondamentale accettare il fatto che le pratiche artistiche vivano anche e soprattutto all’interno della vita quotidiana, in luoghi non istituzionali, su Internet, nelle case delle persone, sui social, sui personal computer.

    Dobbiamo deciderci ad accettare questa idea allargata, collaborativa e comunitaria dell’atto creativo. Le avanguardie ce l’hanno insegnato molte volte ma abbiamo la tendenza a dimenticarlo ciclicamente. Ora però non possiamo più fare finta che non sia successo niente, continuando a sostenere una concezione dell’arte (e un sistema dell’arte) di impianto ottocentesco.


    Immagine di copertina: Stop and Go. The Art of Animated Gifs, MGLC – International Centre of Graphic Arts, Ljubljana, photo DK Aksioma

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