Questo mondo è finito, ricominciamo a vivere prima che sia la pandemia a decidere per noi

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    Dopo la pandemia tornerà tutto alla normalità? Attraverseremo un’estate fatta di obblighi, di mascherine, di spiagge con il plexiglass e di social distancing, di app più o meno funzionanti che tracciano movimenti e contatti per poi, una volta arrivato il vaccino, archiviare tutto e riprendere la nostra vita di prima e forse – come suggerisce Alberto Abruzzese -, dopo tutta questa solidarietà forzata, con più cattiveria ed egoismo?

    In parte probabilmente sì, così come dopo la prima ondata della peste nera nel 1348, in molti luoghi la vita tornò quasi subito alla normalità, seppur con condizioni nettamente migliorate per gli strati più umili della società. In Italia gran parte delle politiche per la ripresa – come per esempio l’idea di sovvenzionare il turismo domestico per compensare la perdita dei flussi internazionali – andranno probabilmente in quella direzione. Anche perché gli interessi istituzionali consolidati (Camere di commercio, etc.) tendono a seguire modelli anch’essi consolidati che cambiano solo con grande difficoltà.

    In alcuni casi però, il ritorno alla normalità non sarà possibile. Dopo la peste del trecento la città di Siena che non si riprese mai dalla scomparsa di quasi il 60% della popolazione e perse il suo primato nel mondo della finanza. Così come è del tutto discutibile come e se l’Italia possa rincoquistare il suo ruolo di metà turistica per la dolce vita a livello globale in una situazione futura dove presumibilmente gli spostamenti saranno più difficili e i soldi da spendere ancora meno.

    Se spostiamo invece lo sguardo verso una prospettiva di medio o lungo termine, guardando al resto del decennio o addirittura del secolo, dobbiamo renderci conto che qualcosa di fondamentale sta cambiando. In questi giorni esperti ed epidemiologi di tutto il mondo prospettano vari scenari per la durata della pandemia che prospettano un periodo di ondate di ritorno del virus che si prolungherebbe fino al 2022 se non addirittura fino al 2025.

    Lo stesso CoVid può tornare con la prossima stagione influenzale, magari in forma mutata, o potrebbe addirittura anche diventare endemico, ma anche se riuscissimo a convivere con il CoVid tramite: vaccini, immunità di gregge o con una sua più benevola mutazione più simile alla solita influenza stagionale, dovremmo comunque abituarci all’idea di un’altra pandemia, magari fra un anno, fra due anni o fra cinque anni.

    In futuro è prevedibile che le pandemie saranno sempre più ricorrenti. È un fatto inevitabile, così come questa pandemia che era prevista già da molto tempo. Il numero dei virus che sono riusciti a fare il salto da ecosistemi selvatici (nel senso classico del termine, ossia che stanno nella foresta, lontani da noi) agli esseri umani è rapidamente aumentato negli ultimi decenni, così come è aumentata la loro letalità e capacità di diffusione. Questo sviluppo ha poco a che fare con i cinesi e con le loro strane abitudini alimentari, ma è un effetto strutturale dell’organizzazione dell’economia agro-alimentare globale.

    Sempre più i prodotti agro-alimentari derivano da grandi allevamenti o da coltivazioni industrializzate, e sempre più le piantagioni di monocultura invadono ecosistemi che fino a poco tempo prima erano lasciati relativamente inermi, come nel caso delle piantagioni di palma (utili per produrre l’olio di palma, ingrediente principale dell’italianissima Nutella) che ora crescono rapidamente nelle ex-foreste ancestrali della Malesia, dell’Indonesia, e grazie all’appoggio di Bolsonaro anche in Amazonia.

    Come spiega Rob Wallace nel suo ormai famoso libro, Big Farms Make Big Flu l’espansione dell’agro-industria intensifica radicalmente il processo di creazione di patologie zoonotiche (con origini animali) in moto già dalla rivoluzione agraria del neolitico dove secondo James Scott nuove pandemie furono probabilmente la causa decisiva per il rapido e apparentemente inspiegabile abbandono dei centri urbani nella Mesopotamia neolitica.

    Più si concentrano grandi popolazioni di animali geneticamente identici con aspettative di vita ridotte, più è probabile che un virus si evolva per diventare più contagioso e letale

    Più gli esseri umani vivono in stretto contatti con gli animali, più è probabile che un virus faccia il salto dal mondo animale. Più si concentrano grandi popolazioni di animali geneticamente identici con aspettative di vita ridotte (ad esempio 15.000 polli in un capannone dove ogni individuo viene sostituito ogni 30 giorni), più è probabile che un virus si evolva per diventare più contagioso e letale. In un’epoca marcata da una crescente domanda di prodotti agro-alimentari, la conseguente espansione delle monoculture tramite land grabbing e la trasformazione delle foreste ancestrali e in più una connettività globale senza precedenti favoriranno  inevitabilmente nuove ondate di pandemie altamente virali e mortali.

    Senza per ciò ricorrere ad antropomorfismi e speculazioni New Age, ma mantenendo il sobrio punto di vista della cibernetica, possiamo suggerire che i virus saranno una componente importante dei meccanismi di feed back che, in questo secolo, contribuiranno a ridurre radicalmente l’impatto della civiltà umana sulla biosfera.

    Abbiamo lasciato alle spalle i secoli della modernità e dell’espansione infinita, per entrare nell’epoca dell’Antropocene, dove questa espansione si é già conclusa. Nell’epoca dell’Antropocene la civiltà umana è diventata la più importante forza di trasformazione del pianeta con il 75% della superficie terrestre direttamente dominata dagli esseri umani (in forma di campi agricoli, di urbanizzazione o di miniere e di altre industrie estrattive).

    Noi esseri umani stiamo effettivamente facendo terraforming, come nei film di fantascienza, ma senza un piano. Abbiamo sviluppato il potere tecnologico per cambiare irreversibilmente la biosfera del pianeta, ma non abbiamo gli strumenti cognitivi e soprattutto organizzativi per farlo in modo razionale. E siccome non siamo in grado di esercitare un dominio razionale lungimirante e sostenibile sulla natura le nostre attività daranno origine ad una serie di meccanismi che serviranno a moderare il nostro impatto. I virus e le pandemie ne faranno sicuramente parte, ma ci saranno anche altri sistemi che già ora possiamo immaginare.

    Come nei film di fantascienza stiamo facendo terraforming ma senza un piano preciso

    Lo stesso riscaldamento globale avrà degli effetti radicali e largamente imprevedibili sulla maggior parte dei processi della civiltà umana: avremo ulteriori abbassamenti della produttività agricola, un’intensificazione delle tempeste e degli eventi meteorologici estremi e ancora nuove pandemie potranno generarsi attraverso virus e batteri che si sveglieranno in conseguenza dello scioglimento del permafrost nelle tundre siberiane, portando anche più pressione sulle risorse acquifere ormai allo stremo (con le guerre e i conflitti che ne deriveranno) per poi giungere all’acidificazione degli oceani – con la probabile fine della pesca commerciale verso gli anni ’40 del secolo – per gli effetti dell’uso massiccio di fertilizzanti chimici e della conseguente riduzione della biodiversità e con questa della resilienza ecologica.

    A questo poi possiamo aggiungere gli effetti sociali scatenati da questi cambiamenti: carestie e conflitti generati dalla siccità e il collasso di forme di vita tradizionali (la guerra in Siria si deve in parte al fatto che un decennio di siccità nelle campagne ha fatto aumentare la popolazione urbana con nuovi strati di migranti recenti, poveri, disperati e di facile radicalizzazione), la ridotta capacità degli Stati e dei relativi sistemi pubblici (lo vediamo già adesso con il Covid) e infine gravi turbolenze sui sistemi economici globalizzati.

    Qui non è il momento di fornire un catalogo dei dolori che ci aspettano, ce ne sarebbero anche molti altri. Il punto è invece che siamo già entrati nel futuro, in un’epoca in cui niente sarà più come prima e dove i nostri schemi mentali, i nostri modi tradizionali di concepire la natura, la società, i processi economici e politici e il nostro modo di vivere cambierà in modo radicale.

    Dell’Antropocene e della necessità di trasformare i nostri processi di produzione e di consumo oltre che il nostro stile di vita se ne parla ormai da decenni. È ora chiaro che il rapporto tra la civiltà umana e la biosfera planetaria va riequilibrato. Questo può avvenire in tre modi:

    • Riusciamo a fare terraforming in modo razionale trasformando tutto il pianeta secondo i nostri bisogni e desideri, e sostituendo la maggior parte dei processi naturali con processi sintetici generati da noi con l’aiuto delle biotecnologie, delle nanotecnologie, e dell’intelligenza artificiale;
    • Riusciamo a realizzare una trasformazione dell’architettura profonda delle nostre società e delle nostre economie. Un’organizzazione più razionale e sostenibile della vita umana sulla Terra con un utilizzo massiccio di energie rinnovabili: produzione agricola meno ostile all’ambiente circostante e in generale un allineamento dei processi e degli incentivi economici con le dinamiche ecologiche;
    • Ce ne andiamo su Marte.

    Nessuna di queste tre opzioni sembrano attualmente possibili: manca la tecnologia, ma soprattutto mancano i meccanismi sociali di coordinamento e di decisione collettiva (tutti sanno da decenni che il nostro consumo di petrolio è insostenibile, ma nessuno è riuscito anche solo a ridurlo, figuriamoci una cosa come ristrutturare la food economy su scala globale.)

    È probabile che la capacità di realizzare una società che possa sostenere le condizioni dell’antropocene, così come la capacità di colonizzare altri pianeti -se mai ci sarà -, dipenderà dallo sviluppo di istituzioni e di filosofie di governo che risulteranno dal processo di attraversamento di un secolo caotico fatto di crisi e di aggiustamenti.

    Il nostro salto qualitativo, la nostra trasformazione in una civiltà interplanetaria oppure semplicemente sostenibile, o più probabilmente una combinazione delle due sarà un effetto di questa crisi, una soluzione a essa. Un po’ come il Rinascimento in parte fu un effetto della peste del secolo precedente.

    Le ondate di peste nel 1300 contribuirono a cambiare il mondo in modo molto radicale. I suoi effetti strutturali, l’impoverimento dell’economia, il miglioramento delle condizioni e il potere di contrattazione degli strati popolari, la riduzione del potere della nobiltà e della legittimità della chiesa (che dopo tutto poteva fare poco per proteggere la gente contro quel flagello di Dio) diedero un colpo finale a una società feudale ormai in crisi. Una crisi anche ecologica visto il peggioramento della produttività agricola in corso dalla metà del 1200 e visto l’abbassamento delle temperature che segnò la piccola era glaciale che aveva preso avvio nei primi anni del 1300.

    Le innovazioni tecnologiche nell’agricoltura e nell’artigianato che risultarono dalla scarsità di manodopera e la nuova libertà di sperimentazione, insieme alle rivolte contadine e le molte nuove correnti eretiche crearono insieme le basi per la società moderna.

    Furono le generazioni di quelli nati e cresciuti durante le ricorrenti pesti della seconda metà 1300 a fare il Rinascimento in Italia e fu il ritorno della peste per tutto il lungo sedicesimo secolo ad alimentare la sperimentazione delle tecnologie di governo che secondo Foucault definirono la società moderna. È possibile che questo secolo venga segnato da un processo di apprendimento e di evoluzione collettiva simile, anche se questa volta si tratta di un cambiamento molto più profondo che si produrrà su scala planetaria.

    Per il futuro immediato, per questo secolo almeno, non ci sono più soluzioni

    Per il futuro immediato, per questo secolo almeno, non ci sono più soluzioni, ma possiamo ragionevolmente aspettarci uno scenario dove s’intensifichino i meccanismi di feedback sistemico che noi non possiamo controllare a che saremo costretti a subire. L’intensità e la portata di questo periodo di crisi è difficile da prevedere. Se non riusciamo a ridurre l’impatto della civiltà umana (e finora non siamo riusciti), l’unica altra opzione sarà ridurre la quantità della popolazione. Fino a quanto?

    James Lovelock dieci anni fa stimò che il ventunesimo secolo avrebbe visto una riduzione della popolazione umana a un numero sostenibile che secondo lui gravava intorno a un miliardo. Altre stime più recenti sono più moderate (Donna Haraway parla di 2-3 miliardi)1E, bisogna aggiungere, lo scenario un po’ ‘buonista’ di Donna Haraway dove la riduzione della popolazione risulterà dalla scelta di ‘Make kin, not babies!’, è altamente improbabile, cf. Haraway, D. ‘Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin’, Environmental Humanities, 6, 2015, p.162, in ogni caso una riduzione sostanziale è molto probabile e – vista la nostra storia – avverrà in un modo caotico e molto poco controllabile.

    Quando succederà tutto questo? Dagli anni Settanta ad oggi il nostro immaginario è ossessionatodall’apocalisse con zombie, da città post-apocalittiche frutto di guerre nucleari etc. Dagli anni Novanta più o meno l’apocalisse è stata associata al riscaldamento globale, ma gli effetti sono stati tutti posizionati verso la fine del secolo.

    Nel suo esercizio di fantascienza sociologica 2312, Kim Stanley Robinson cita una storica del futuro che immagina un periodo di grande crisi fra  il 2060-2120, marcato da: food shortages, mass riots, and catastrophic deaths on all continents. Solo qualche anno dopo Robinson, un report del governo britannico parlava degli anni ‘30 del secolo come segnati da una perfect storm, una catastrofica combinazione fra crisi ambientale, crisi alimentare, crisi della produzione industriale e intensificarsi delle pandemie.

    L’anno scorso il sociologo Jim Bendell in un saggio, pur ampiamente criticato, colloca il collasso della civiltà ai nostri giorni, agli anni ’20 e consiglia ai suoi lettori di prepararsi mentalmente (intorno alle sue previsioni è nata poi tutta un’industria di terapie e gruppi self-help). Forse aveva ragione, almeno così pare, stando in quarantena ai tempi di Coronavirus.

    Jim Bendell in un saggio colloca il collasso della civiltà ai nostri giorni, agli anni ’20

    Negli scritti che seguiranno vorrei abbandonare lo sguardo apocalittico di Bendell per cominciare a ragionare sul breve e medio termine e su come sarà necessario già in autunno cominciare a ripensare gli aspetti centrali dell’organizzazione dei nostri processi economici e sociali e persino alcuni dei nostri valori ed approcci esistenziali.

    Il fatto è che, per quanto possa sembrare cinico, la Pandemia può anche essere un’occasione che ha già mostrato come tutta una serie di cose che per molto tempo sono sembrate impossibili da cambiare – a cominciare dalla politica di austerità fino al ritiro del settore pubblico – possano cambiare letteralmente da un giorno all’altro.

    In più l’esperienza della Pandemia conferirà una nuova legittimità a una serie di discussioni che si protraggono ormai da molto tempo come la necessità di implementare politiche più sostenibili o addirittura rigenerative e il bisogno di cambiare la struttura fondamentale degli attuali processi di produzione e di consumo globalizzati. Discussioni che al massimo hanno avuto un impatto simbolico tramite Greta che strappò giusto qualche lacrima a Davos.

    In più la pandemia potrebbe aprire alle trasformazioni necessarie per implementare una serie di tecnologie che esistono ormai da decenni come le stampanti 3D e i macchinari a controllo numerico utili alla rilocalizzazione della produzione, così come l’internet of things, la blockchain, le analisi dei Big Data e tutto il resto del pacchetto delle tecnologie 4.0 che fino ad oggi hanno trovato delle implementazioni solo marginali nell’ambito di un modello sociale di produzione e di consumo dove essenzialmente non servivano.

    Poi ancora rilanciare tecnologie di produzione agroalimentare rigenerative e rispettose dell’ambiente, sia biologio che culturale (nel senso dei saperi e delle pratiche tradizionali o ancestrali) che fino ad oggi sono state pensate solo per un mercato alimentare d’élite e di consumatori già consapevoli dell’impossibilità di continuare una vita orientata al consumo e con il desiderio di trovare altri formati sociali che permettano una vita più ricca di senso e di affetti.

    Aspirazioni che fino ad ora si sono realizzate principalmente in forme subculturali: dalla cultura dei rave negli anni Novanta fino al fiorire delle filosofie New Age. La Pandemia potrebbe aiutarci infine a rompere con quel famoso realismo capitalista dove, secondo Mark Fisher è più probabile che il mondo si esaurisca più che evolvere. Tanto più ora che quel mondo è davvero finito.

    Note