‘Il cinema era già cambiato’: un’intervista a Carlo Chatrian, il direttore artistico della Berlinale

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    È uscito in questi giorni Favolacce, l’opera seconda dei fratelli D’Innocenzo. “Escito” nel senso post-pandemia del termine e cioè a piattaforme VOD unificate. Distributori ed esercenti sperimentano insieme con piani B (l’ultimo e più ufficiale risultato è con Mio Cinema via My Movies) e gli indipendenti s’inventano alternative di sopravvivenza. I festival posticipano o si riversano sull’online, con 20 dei più importanti (inclusa la triade Berlino-Cannes-Venezia) che lanciano un evento globale a partire dal 29 maggio.

     

    Ma mentre l’abbondanza di visioni e pronostici sembra soprattutto suggerire che è difficile anticipare quale sarà l’immediato futuro del cinema, vale la pena guardare indietro all’unica manifestazione europea che ha avuto luogo quest’anno, la Berlinale, dove proprio i D’Innocenzo hanno presentato (vincendo l’Orso per la migliore sceneggiatura) le loro Favolacce.

    Quando ho fatto visita agli uffici della Berlinale ai primi di marzo, tutti tiravano un sospiro di sollievo: l’evento cinematografico più importante in Germania (e terzo festival più antico al mondo nonché primo in Europa per pubblico) si era appena concluso con successo, sebbene rincorso negli ultimi giorni dall’emergenza globale. In sala si era intravista solo qualche sparuto accreditato con la mascherina e il festival si era svolto alcun intoppo, ma in realtà il coronavirus aveva impedito l’arrivo della più numerosa delegazione cinese degli ultimi anni presso la fiera legata al festival. Con la sua strategica posizione a febbraio, la Berlinale inaugura infatti anche il primo grande mercato dell’audiovisivo internazionale dell’anno, l’European Film Market.

    Questa settantesima edizione è stata la prima co-diretta da Carlo Chatrian e Mariette Rissenbeek, rispettivamente direttore artistico e direttrice tecnica. L’esuberante one-man-show di Dieter Kosslick, in servizio per 18 anni, veniva lodato da una parte per lo sviluppo economica della kermesse—con, tra gli altri, la creazione del Talent Lab e del World Cinema Fund—criticato dall’altra per la scelta di film non sempre all’altezza della selezione politica ed esteticamente radicale di cui la Berlinale è vetrina d’eccellenza.

    Le conseguenze di queste critiche hanno avuto vari risultati, come all’esterno, ad esempio, la nascita di un festival indipendente e parallelo—la Woche der Kritik—o all’interno, l’adozione di misure severamente ecologiche nella produzione dell’evento. Con l’ultima edizione i vari “spiriti” della mostra si sono come raddrizzati: il festival ha presentato in tutte le sezioni opere incisive, mantenendo alta sia la risposta di pubblico (20 mila biglietti in più venduti rispetto all’anno precedente) sia la presenza degli operatori di settore (4% in più di partecipazioni alla fiera).

    La sensazione è che Chatrian abbia tradotto l’eredità del festival di Locarno, miniera di film preziosi perché artisticamente esigenti e allo stesso tempo meritevoli di visibilità, nel consapevole, a volte militante ma democratico contenitore berlinese.

    Nel concreto il concorso ha bilanciato cosiddetti crowd-pleaser come il remake/adattamento Berlin Alexander Platz e la commedia populista Effacer l’Historique con scommesse come DAU e Favolacce o con consacrazioni ritardate come nel caso di Kelly Reichardt o Eliza Hittman.

    È nella nuova sezione Encounters che la commissione di Chatrian ha comunicato se non una dichiarazione d’intenti, un manifesto del gusto che instaura finalmente un dialogo con Forum, la sezione nata 50 anni fa in antagonismo col festival commerciale e luogo in cui, nell’era Kosslick, si andava a scovare le vere gemme.

    A titolo pienamente personale ma che pare condiviso, non c’è stato giorno “negativo” durante i dieci del festival: il bottino di titoli ottimi e—sebbene dall’accessibilità diversa—sempre all’altezza dello spettatore curioso, è stato notevole. Sulla scia di questa positività, di cui forse si può fare oggi tesoro, ecco una versione condensata della chiacchierata fatta con Carlo Chatrian a bilancio di questa prima nuova edizione.

    Cosa è andato bene e cosa invece meno, sia a livello artistico che tecnico, in questa sua prima edizione?

    La mia collega ed io arriviamo dopo 18 anni che hanno marcato in maniera molto forte il programma e la struttura. Da un direttore manager siamo passati a una figura come me dal profilo direttamente artistico e poco legato alla realtà tedesca, e un’organizzatrice con un’esperienza forte in questa industria. Fin dall’inizio volevamo avere un anno di transizione: da molti punti di vista, diverse cose hanno funzionato bene. Da un lato il publico non ha avuto l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa che non conosceva, e al tempo stesso la sezione Encounters è stata seguita molto dal pubblico, dalla stampa e dai professionisti. Alcuni reporter hanno scritto che non è cambiato niente, altri che il festival è totalmente nuovo.

    Alcuni esempi nel concreto?

    In generale mi sembra che i film siano stati accolti molto bene dal pubblico—ovviamente si può sempre fare meglio sia nella selezione che nella presentazione. È stato importante capire come certe sale possono assorbire certi lavori. Far vedere Johnny Depp [col film Minamata, sul fotografo Eugene Smith] non al Berlinale Palast [il teatro principale e usato per le cerimonie] ma al Friedrichstadt Palast era una piccola scommessa: nel teatro ha funzionato molto bene ma il red carpet [una manciata di metri presso l’ingresso secondario] era troppo piccolo. Depp ha praticamente abbracciato centinaia di ragazzine. La programmazione al Berlinale Palast è stata seguita molto bene e hanno riscosso una buona accoglienza anche i film duri duri: il film iraniano [There is No Evil, vincitore dell’Orso d’Oro] ha ricevuto standing ovation e anche Volevo nascondermi ha avuto un ottimo riscontro di pubblico.

    Encounters è la nuova sezione, competitiva, dove proponete opere che vanno oltre gli schemi narrativi ed estetici convenzionali. Ci sono “mostri sacri” come Kluge o Emigholz; registi consolidati come Josephine Decker o meno conosciuti ma già con una fan base come Matias Piñeiro; esordi promettenti che potrebbero definire trend nazionali, come la portoghese Catarina Vasconcelos o l’austriaca Sandra Wollner—entrambe già in viaggio al New Directors / New Films del Lincoln Center a New York. Quali sono insomma le sue speranze commerciali e di ricezione critica dei film scelti per questa sezione?

    La selezione di Encounters è una di quelle di cui sono più orgoglioso. Penso sia stato riconosciuto anche dalle voci critiche che il programma era di alta qualità. C’è una ragione per questo: per il momento dell’anno in cui si trova Berlino un determinato tipo di film è più disponibile e accessibile di altri. Probabilmente c’è anche un bagaglio che mi portavo dietro da Locarno. Il pubblico ha seguito con passione una programmazione molto rigorosa ed esigente—molti Q&A a fine proiezione sono durati anche un’ora.

    Dal punto di vista del mercato, alcuni titoli sono stati già venduti in molti paesi. Il caso più eclatante è Gunda [di Victor Kossakovsky, il ritratto di un maiale prodotto tra gli altri da Joaquin Phoenix] che è stato acquisito negli Stati Uniti da NEON, il distributore di Parasite. Un esordio indipendente come Naked Animals uscirà in sala.

    Affianco al film vincitore (The Works and Days (of Tayoko Shiojiri in the Shiotani Basin), una coproduzione USA-UK-Svezia-Giappone di C.W. Winter e Anders Edström), di 8 ore previsto in una diffusione nel circuito festivaliero, ce ne sono altri pensati per una distribuzione in sala “normale”. Negli ultimi anni la distribuzione è cambiata molto: affianco a grossi film quelli che funzionano meglio hanno un loro mercato ad hoc, perché riescono trovare una loro locazione meglio dei titoli medi. L’obbiettivo di Encounters non era selezionare film che hanno una distribuzione: quello è il concorso. Si vuole invece dare voce a un nuovo modo di raccontare. E poi aprire nuove finestre di mercato.

     

    Una domanda che avrà sentito molte volte ma che sono curiosa di porle di persona: com’è guidare il maggior evento cinematografico tedesco da “expat” considerando che pure la co-direttrice è straniera?

    Mariette Rissenbeek ha vissuto in Germania più di quanto abbia vissuto in Olanda, dunque il tedesco e la cultura tedesca è parte della sua vita. La decisione di essere insieme credo fosse determinata proprio da questo: il mio compito è quello cinematografico dove la lingua veicolare è l’inglese. Ho notato una cosa importante e che dovrò discutere con Rissenbeek: durante il festival la possibilità di parlare tedesco nel mio ruolo diventa significativo. Mi piace presentare i film: già prima venivano presentati in inglese, però la mia nazionalità estera fa notare una distanza maggiore. Forse la Germania è anche preoccupata di una perdita di radici. Lo scopo principale rimane però mettere insieme un buon programma.

    Lei non è l’unico italiano alla guida di festival o sezioni cinematografiche di spicco in Europa. Penso a Eva Sangiorgi alla Viennale, a Paolo Moretti alla Quinzaine di Cannes, a Nico Marzano all’ICA di Londra…

    La mia generazione è a cresciuta con un’idea di nazionalità distinta dalla generazione precedente. Io sono cresciuto in una regione di provincia dove si parla francese, la Valle d’Aosta e ho lavorato fin dall’inizio con critici francesi. Paolo ha lavorato in mezza Europa, Eva è vissuta in Messico. Non intendo dire che “l’Italia non ci ha voluto” ma che a livello professionale siamo cresciuti vedendo le frontiere in un modo diverso. Non mi sento rifiutato in Italia e ho anche lavorato a Firenze, ad Alba.

    Come la distribuzione anche il ruolo dei critici è cambiato. La rivista che una volta era un status symbol non esiste più

    Le occasioni mi hanno portato da un’altra parte. Quando ho incontrato la ministra della cultura Monika Grütters—in Italia è diverso perché Venezia non è diretta direttamente dal ministro—lei si è presa un’ora per fare un dialogo approfondito. È un segno di grande apertura che un festival molto grande ma tedesco e quindi con una cultura forte abbia deciso di dare la direzione non in base alla nazionalità o conoscenza linguistica ma in base alle competenze artistiche.

    La Berlinale è una delle manifestazioni cinematografiche più importanti a livello di pubblico, anche perché avviene in una metropoli e il cittadino diventa per dieci giorni spettatore. Qual’è il suo rapporto con il pubblico?

    I dati definitivi ancora non li abbiamo: a metà festival avevamo venduto 20 mila biglietti in più rispetto all’anno precedente, ma negli ultimi giorni con le preoccupazioni legate al coronavirus questi dati sono scesi. Rimane comunque il fatto che con 60 film in meno rispetto all’anno scorso, a ¾ dell’evento c’è stato un incremento dei biglietti. Come io mi relazione col pubblico è un work in progress: è anche la parte che, da direttore, riesco a toccare meno con mano diretta. Nella mia idea entusiasta dell’inizio ho detto “andrò in tutte le sale”, poi la giornata prevede determinate presenze… ci sono elementi che spero di ricevere dai vari direttori di sala e programmatori.

    Lei arriva dalla critica cinematografica. Dopo le dimissioni della redazione dei Cahiers, di fronte a nuove forme come l’essay film o la video-recensione: qual’è il futuro del critico cinematografico, sia nel suo ruolo politico che come potere d’acquisto?

    Come la distribuzione in sala, anche il ruolo dei critici è cambiato. La rivista che una volta era il benchmark o lo status symbol non esiste più. Se c’è, ha un ruolo diverso. Sicuramente quanto sta succedendo ai Cahiers è un segno dei tempi. D’altra parte i critici hanno modo di intervenire direttamente attraverso i social media. Una volta io da critico proponevo un pezzo e il direttore della rivista diceva funziona o non funziona. Oggi se sono bravo, se capto qualcosa che ne è nell’aria e lo comunico in maniera forte, posso diffonderlo senza il filtro di un direttore di testata.

    Questo è un grande vantaggio e c’è un desiderio di contenuti enorme (vedi le videointerviste di Fulvia Caprara), d’altra parte l’esplosione di contenuti crea una quantità in cui è difficile andare a discernere. Chi ha tanto feedback è spesso chi usa i contenuti o le parole in senso un po’ scandalistico. Così si rischia che il critico segua il flusso. La Berlinale glamour ne ha avuto, forse ne ha bisogno di più. Johnny Depp e Cate Blanchett hanno avuto sì visibilità, ma magari non come altri film più piccoli che sono diventati dei casi.

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