Chi ha vinto la prima guerra culturale su Facebook. E la prossima?

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    Lo scandalo Cambridge Analytica – l’uso di oltre 50 milioni di profili Facebook americani per condizionare l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016 – è stato inteso come una violazione della privacy degli utenti del social network più famoso al mondo. Lo è, ma questa è solo una parte del problema.

    L’intervista di Carole Cadwalladr del Guardian a Christopher Wylie – il primo “Whistleblower” che ha permesso l’apertura del caso che ha aperto la crisi più grave dalla fondazione di Facebook dal 2004 (gli altri due sono Sandy Parakilas e Brittany Kaiser) – va ascoltata nella sua interezza perché rivela la natura politica e la portata globale della strategia – addebitata al teorico suprematista bianco, sovranista e di estrema destra Steve Bannon.

    Wylie descrive il modo per costruire un’egemonia culturale con gli strumenti della data analysis e del data mining, a cui si aggiungono altre professionalità: grafici, produttori di contenuti, psicologi, social media manager.

    Cambridge Analytica, secondo Wylie interamente costruita sull’analisi dei dati sottratti con mezzi illegali da Facebook, rappresenta l’interfaccia organizzativa, il coordinamento di una strategia di “micro-targeting” elettorale, lo strumento di profilazione psicologico ed emotivo di elettori, di cittadini e consumatori. Questo sistema non è stato usato solo dai responsabili della campagna elettorale che ha portato all’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ma, stando a quanto racconta Wylie, anche della Nato.

    Cambridge Analytica è una società collocata dal manager e fondatore Alexander Nix – un rappresentante dell’alta borghesia britannica che appartiene all’elite universitaria di Eton – al centro di una rete tanto al servizio dei progetti reazionari che hanno vinto con Trump, quanto al servizio di non ancora chiariti progetti di “guerra psicologica” e “culturale” esistenti – si presume – nell’ambito dell’alleanza militare.

    La “guerra culturale”

    Steve Bannon, già vicepresidente della Cambridge Analytica nel 2013-4, è una figura centrale. Nell’intervista Wylie chiarisce la strategia elaborata molti anni prima che lo stesso Trump decidesse di candidarsi alla Casa Bianca.

    Alexander Nix presenta Bannon a Wylie – nato in Canada e assunto a Londra come scienziato dei dati. Wylie è colpito dall’approccio “accademico, intellettuale” di Bannon. Riassume la cosiddetta “dottrina Breibert” così: “è un sito per uomini bianchi arrabbiati”, diretto da Bannon, dove si possono trovare tutti gli ingredienti di quello che è stato definito l’approccio “populista” alla politica contemporanea: razzismo, protezionismo, guerra ai migranti, imperialismo in un paese solo.

    “Se vuoi cambiare la politica devi cambiare la cultura – sostiene Wylie – Perché la politica deriva dalla cultura. Se vuoi cambiare la cultura devi prima capire cos’è la cultura. Per cambiare la cultura devi cambiare prima le persone e poi cambiare la cultura”.

    La politica rientra in una “guerra culturale”. “Se vuoi combattere una battaglia, se vuoi combattere una guerra hai bisogno di armi per vincerla – aggiunge Wylie – In primo luogo devono essere armi culturali. E bisogna costruirle. Ovviamente hai bisogno di denaro per farlo”.

    Alexander Nix li ha presi dal miliardario americano Robert Mercer, sostenitore di Trump. Racconta di essere andato in volo a New York con Nix per incontrarlo. L’incontro andò molto bene e Cambridge Analytica ha ricevuto un finanziamento di 15 milioni di dollari. Uno è servito ad acquisire i dati Facebook.

    Il modo per “cambiare” le persone è intervenire sulle loro psicologie e orientarle attraverso un intervento diretto o indiretto con gli stumenti della pubblicità o della produzione di “fake news” prodotte da blog e siti diffusi su piattaforme digitali.

    “In questo modo abbiamo costruito il profilo psicologico di ciascun elettore di una regione particolare o di un intero paese, come gli Stati Uniti” aggiunge Wylie. Da questo enorme «raccolto» di dati è stato estratto il profilo di quei 40 mila votanti nei tre stati americani che hanno permesso a Trump di vincere le elezioni nel 2016. È la tesi di Mark Turnbull, direttore del ramo politico di Cambridge Analytica.

    “Se vuoi cambiare la società prima la devi rompere e poi ricomporre i pezzi secondo la tua visione di una nuova società – continua Wylie – Questa è stata l’arma che Bannon ha usato nella guerra per imporre la sua idea di società”.

    Questa è la tua vita digitale

    Esistono migliaia di sviluppatori di app, tra cui i creatori dell’app di incontri Tinder, giochi come FarmVille, che fanno il lavoro di Aleksandr Kogan, un ricercatore dell’università di Cambridge, che ha creato l’app «This is your digital life» dopo avere reclutato 270 mila utenti con le modalità note su mercati digitali come «Amazon Mechanical Turk»: in cambio di 2-3 dollari a testa queste persone hanno risposto a un quiz sulla personalità presente su Facebook.

    L’azienda di Kogan, la Global Science Research, ha acquisito e rielaborato i dati dai loro profili per fini di ricerca. Questi dati sono stati in seguito ceduti a Cambridge Analytica che avrebbe succhiato i dati di tutti gli “amici” delle 270 mila persone che hanno dato il loro consenso all’estrazione dei dati quando hanno eseguito il quiz su Facebook. Starebbe a questo livello la violazione della privacy lamentata da Facebook in testa che si è detta “tradita”.

    Il lavoro di “micro-targeting” e di orientamento dei comportamenti descritta da Wylie non è illegale. È la regola su tutte le piattaforme, in particolare quelle pubblicitarie come Facebook o Google. Sarebbe illegale l’uso dei dati sottratti agli amici di chi ha accettato di partecipare al gioco di Kogan. Nei giorni dello scandalo nessuno ha contestato l’analisi di big data a scopi politici o pubblicatari. “È normale” hanno detto in molti. La Cambridge Analytica lo fa in Kenya, Romania, Colombia, India.

    Questa attività, va precisato, è molto più complessa del semplice finanziamento di pubblicità elettorali o finalizzate ad aumentare l’audience di un singolo post. È una parte della strategia che dipende dall’analisi dei dati e dalla loro ricombinazione con le reazioni prodotte rispetto ai contenuti prodotti o agli eventi di interesse da parte della platea prescelta.

    In pochi hanno sottolineato che il “micro-targeting” rientra in una “guerra culturale”, insieme alle “fake news” come quelle prodotte contro Hillary Clinton durante la campagna presidenziale del 2016. Questo meccanismo rientra in una dimensione politica – geopolitica, visto che da mesi si discute delle interferenze della Russia di Putin sulle elezioni presidenziali americane. Tali “interferenze” sono state create usando la struttura descritta da Wylie che è una parte per il tutto. Il dispositivo è molto più ampia di Cambridge Analytica.

    Un sistema simile è stato usato anche dai consulenti della campagna presidenziale 2012 di Barack Obama che inaugurarono la stagione del data mining di successo senza sollevare il clamore attuale. Anzi, allora furono celebrati. Al giro successivo sono stati i conservatori a usare meglio le tecniche per un progetto opposto, usando reti in cui sono presenti collaboratori dei servizi di intelligence, aziende vicine ai governi e alle organizzazioni militari, una zona grigia che costituisce uno Stato parallelo che costituisce anche l’oggetto delle indagini del Congresso americano sul cosiddetto “Russiagate”.

    Graph API

    Tutto questo è avvenuto grazie all’interfaccia “Graph API” di Facebook. Permette a terze parti di interagire con la piattaforma. Facebook ha aperto alcuni codici per attirare gli sviluppatori di applicazioni e farli aderire all’ecosistema di Facebook in un momento in cui l’azienda ha spostato il suo business da desktop a smartphone. Graph API è un’interfaccia sviluppata da una precedente versione annunciata da Facebook come un modo rivoluzionario per capire e accedere alla vita sociale delle persone. Infatti ha permesso una relazione simbiotica fondamentale per la crescita della piattaforma.

    La versione 1.0 di Graph API è stata lanciata il 21 aprile 2010. È stata modificata tra il 2014 e il 2015. Per cinque anni, una quantità enorme di tempo, miliardi di persone hanno giocato miliardi di volte sulle app e i quiz come quelli inventati da Alexander Kogan da cui Wylie e i suoi datori di lavoro di Cambridge Academia hanno estratto migliaia di miliardi di dati personali degli utenti e di informazioni da tutti i loro social network. Tutto questo è accaduto proprio nell’anno concesso da Facebook alle aziende di data mining – tra il 2014 e il 2015. Hanno continuato a lavorare un altro anno prima che l’accesso fosse limitato.

    Graph API è stato veramente una rivoluzione – ha spiegato il ricercatore Jonathan Albright – Ha convertito le persone e i loro gusti, le connessioni, le posizioni, gli aggiornamenti, le reti, le storie e i social network estesi in – letteralmente – “oggetti”. Ha reso più redditizie le offerte dell’impresa e i dati generati dagli utenti.

    L’imbarazzo di Zuckerberg è dovuto al fatto che non può chiudere il sistema sul quale si regge la sua piattaforma, lo stesso che in piccolo è stato a suo tempo usato da Bannon e dai suoi amici. Si chiama Facebook Audience Network, un sistema che ha esteso la profilazione dei dati e di targeting pubblicitario dalle proprie applicazioni e servizi al resto di Internet. Ciò espone le informazioni personali sensibili degli utenti e quelle della loro estesa rete di amici e familiari alle manipolazioni costanti della psicopolitica come della pubblicità – basati sullo stesso dispositivo.

    Alla luce di questa situazione il dibattito sull’uso del termine “violazione” [data breach] è parziale, anche se giuridicamente corretto quando indica la mancanza di consenso informato da parte degli “interessati”. Il problema, come segnalano i ricercatori Symeonidis, Tsormpatzoudi e Preneel, è più ampio. È il sistema Facebook che produce danni collaterali strutturali che sorgono dall’acquisizione dei dati personali degli utenti tramite app installate dai loro amici e dal raggruppamento dei dati personali degli utenti.

    Zuckerberg ha promesso di intervenire, ma non può chiudere l’ecosistema, negando all’esterno la possibilità di sfruttare i dati prodotti dai suoi utenti. Pena la liquidazione della sua impresa. Questa politica dei dati è costitutiva della piattaforma. I suoi utenti non ne sono a conoscenza. E, anche quando lo sono, alimentano il meccanismo. Si può uscire dalla piattaforma, ma non solo da Facebook: da tutte le piattaforme. L’addio alla vita digitale, soprattutto se individuale, rischia di essere un’auto-esclusione dalla vita civile. Questa è la prova dalla sussunzione totale della società nel capitalismo delle piattaforme.

    Il lato oscuro della rivoluzione digitale

    Non sappiamo se Facebook serva a orientare il voto. È probabile che sia accaduto, ma non in maniera massiccia, né forse replicabile. La piattaforma è senz’altro servita ad amplificare il razzismo diffuso, la guerra ai migranti. È diventata il cavallo di troia di una politica opposta ai “valori” liberal-progressisti enunciati da Zuckerberg. La crisi è clamorosa.

    Analizziamo un discorso fatto da Steve Bannon, l’ideologo di estrema destra, “mente” elettorale del trumpismo, davanti a una platea a New York pochi giorni dopo l’esplosione del Facebookgate. “Siete tutti servi della gleba. Ben pagati, ma sempre servi della gleba – ha detto – I dati sono lì a disposizione, i social network- prendono gratis le vostre cose e monetizzano con un ampio margine. Controllano la vostra vita”.

    Di questa monetizzazione, anche politica, ha goduto la sua carriera di pseudo-iconoclasta del capitalismo digitale. Bannon parla in nome della “sovranità popolare” e disprezza le masse. Le manipola per mantenerle passive, politicamente e culturalmente e ottenere un profitto politico ed economico scambiato per “egemonia culturale”. La sua “guerra culturale” è basata su un nazionalismo radicale e sulla ragione del più forte: difende le differenze tra le culture e sostiene una gerarchia in nome della sovranità dello Stato più potente, gli Stati Uniti.

    Questo è un tratto comune al liberalismo elitario e conservatore e alla destra liberale e liberista che predica le virtù della cristianità. Il piano è stato evidenziato una quindicina di anni fa dallo storico Zeev Sternhell in un libro intitolato “Contro l’Illuminismo”. La “guerra culturale”, di cui l’elezione di Trump è stata l’ultima manifestazione, accomuna i conservatori americani e i fascisti dell’Alt-Right al conservatorismo europeo nato dalle riflessioni sulla rivoluzione francese di Edmund Burke, i reazionari alla De Maistre, l’ottocento tedesco con lo storicismo di Herder e Meinecke, fino ai liberal-conservatori come Isaiah Berlin o storici alla François Furet.

    Facebook è stato usato per incanalare i frammenti della società in una visione del mondo, guadagnando dalle interazioni. Tutti hanno guadagnato tranne coloro che lo tengono in vita.

    Cosa può una forza lavoro

    Non crediamo alla leggenda per cui la volontà dei nuovi persuasori occulti – miliardari razzisti, ideologi reazionari, imprenditori senza scrupoli – coincida con quella degli utenti della piattaforma.

    Qualcuno condividerà le loro idee, ma qui il problema è un altro: il lavoro online (rispondere a un quiz), i dati prodotti da interazioni personali, i gusti, le relazioni, gli affetti, le chat sono state usate per un’impresa politica che nulla a che vedere con la loro vita.

    Per Zuckerberg Facebook “mette le persone al primo posto”. In realtà le usa come merci. La merce è la nostra forza lavoro. È la contraddizione dell’ideologia californiana, il mix di yuppismo, managerialismo, controcultura, diritti umani e capitalismo che afferma formalmente la libertà delle persone e sancisce materialmente il loro auto-sfruttamento e subordinazione culturale alla tecnologia. Bannon ha usato la contraddizione per i propri fini. Zuckerberg per i propri.

    E la forza lavoro? È l’oggetto passivo di una “guerra culturale” che crea, indirizza e governa le psicologie in un regime di guerra [warfare]. Su questa passività si esercita il disprezzo dei dominanti che vede in questa situazione un’occasione di guadagno, o di operazioni geo-politiche, non di emancipazione. La forza lavoro produce un’immensa ricchezza e non riceve nulla in cambio. Ad essa sono estorti i dati e in più la si fissa ancora di più in un immaginario reazionario

    L’impostazione va rovesciata: senza i 270 mila che hanno partecipato volontariamente al quiz iniziale di Kogan. Senza i loro “amici” trafugati dal “pentito” Wylie e da Cambridge Analytica, nemmeno il facebookgate ci sarebbe stato. Senza la forza lavoro nemmeno la psicopolitica micro-targetizzata di Zuckerberg esisterebbe.

    È necessario il riconoscimento dell’autonomia di questa forza lavoro, anche in termini di un reddito di base per l’attività svolta sulle piattaforme, dalla pubblicizzazione dei servizi che trattano le identità digitali e dalla trasformazione delle infrastrutture usate dalle piattaforme in servizio pubblico. Oltre a una nuova disciplina fiscale a livello globale, l’idea di un nuovo patto sociale tra istituzioni, cittadini e piattaforme digitali sono le misure iniziali per dare una prima risposta alla domanda cruciale per il nostro tempo: cosa può una forza lavoro?


    Immagine di copertina: ph. Alexander Londoño da Unsplash

    Note