Via dalla città, per una resilienza montana

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    Penso sia stata proprio Anna a farmi riflettere per la prima volta sull’idea di lasciare la città. Ero seduto sul muretto di pietre a secco di fronte alla nostra casa di montagna. Eravamo appena tornati da una camminata, e mi godevo la lucidità che solo l’«aria sottile» riesce a dare al flusso di pensieri di un quarantenne irrequieto. Tra le mille parole al minuto, tipiche dei bambini della sua età, Anna, a un certo punto cattura la mia attenzione: «Papà, ma perché non veniamo a vivere in montagna?».

    Non avevo mai preso in considerazione quest’ipotesi. Anche se sono anni che percorro le valli alpine italiane in lungo e in largo alla ricerca di «nuovi abitanti», persone che hanno deciso di restare, tornare o trasferirsi a vivere in montagna, per incontrarli, intervistarli, cercare di capirli, studiarli, raccontarli. Fa parte del mio lavoro. Ma non avevo mai pensato alla «loro scelta» come a una scelta possibile anche per me e la mia famiglia. Ora, come capita a volte per delle magiche concomitanze di situazioni, all’improvviso l’idea assume una luce diversa. Per la prima volta ci penso seriamente.

    città

    Pubblichiamo un estratto da Via dalla città (Derive Approdi)

    Anna è nata con le Olimpiadi di Torino 2006, in un momento di euforia nei rapporti tra città e montagna, quando sembrava che il capoluogo piemontese e le sue valli dovessero diventare un tutt’uno, un unico territorio legato per sempre allo stesso destino.

    All’epoca, nel corso delle lunghe riunioni abilmente condotte dal compianto Rinaldo Bontempi, vicepresidente del Comitato per l’organizzazione dei XX Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006, eravamo tutti ottimisti, proiettati verso un futuro radioso.

    Torino, ne eravamo certi, si candidava a diventare la «Capitale delle Alpi». E noi giornalisti specializzati saremmo stati i nuovi cantori di un modello di sviluppo alternativo, attento al territorio, alle culture e società locali, ma anche all’innovazione fuori e dentro le valli alpine e a un futuro sostenibile e attento all’ambiente.

    Un modello di cooperazione, e non di disequilibrio, tra città e montagna. Ma il sogno è durato lo spazio di una stagione, poi sono arrivate le luci della ribalta olimpica su Torino, con i fuochi d’artificio, le serate di gala e gli elicotteri che portavano gli sciatori dal podio d’alta quota alla premiazione nel «salotto buono» della città, in piazza San Carlo. E di lì a poco Torino avrebbe tradito ancora una volta le sue valli. Sì, ancora una volta, perché le città di pianura piemontesi già negli anni Sessanta avevano rubato il futuro alle loro valli alpine, con la chimera delle fabbriche, quando la Fiat e la Michelin suonavano le sirene come novelli pifferai magici, e la forza-lavoro scendeva «a valanga» verso valle, abbandonando paesi e borgate alpine destinate al declino. […]

    Con l’ennesimo tradimento Torino si allontanava una volta di più dalle sue valli alpine. […] Anche io, nel mio piccolo, in quel periodo mi sentivo tradito da Torino, la mia città. E le parole di Anna avevano fatto presa su di me perché ero ancora profondamente incazzato, come si conviene a un cornuto. Imputavo a lei, Torino, l’ennesima «lettera d’incarico» disattesa, l’ennesimo fallimento economico nel mio lungo percorso lavorativo di perenne precariato. Il committente aveva perso un appalto e quindi non si sentiva più in dovere di onorare agli impegni presi nei miei confronti. E io, ormai libero professionista, mio malgrado, dopo anni di co.co.co e qualche co.pro, secondo loro non avrei dovuto accampare diritti, perché il committente, sempre lui, ovviamente no profit, non poteva più assumersi l’onere del contratto.

    E il rischio d’impresa? E ai miei figli e alla mia famiglia chi ci avrebbe pensato? Ma che società è quella in cui persone che lavorano fianco a fianco per anni un giorno si svegliano e ti pugnalano alla schiena? Non è forse il segnale di una società ormai sclerotizzata, in cui un sistema perverso di «guerra tra poveri» fa tabula rasa non solo dei diritti dei lavoratori, ma anche dei rapporti sociali? Basta, mi ero trovato a pensare, ormai la vita in città offre solo più frustrazioni, precariato e spese in aumento. Meglio cambiar aria. Ma come spesso succede, sbollita la rabbia, il raziocinio riprende terreno e ha la meglio sulla parte irrazionale che alberga in ognuno di noi. Perché chi mi dice che il problema sia davvero la città, e che le cose su, in montagna, vadano meglio?

    Poi quella frase innocente, che improvvisamente risveglia pensieri che credevo fugati. E questi pensieri mi si affollano in testa, annullando l’effetto benefico della passeggiata e dell’aria sottile: il tradimento lavorativo, il mio conto in banca a -45 euro, la frustrazione di dover chiedere, a 40 anni suonati, 2000 euro ai miei genitori per riuscire a far fronte alle spese, vent’anni di esperienza lavorativa che rischiavano di finire nel cesso, l’ennesimo inizio di una nuova esperienza professionale in cui investire tempo e fatiche, da cercare, creare, sviluppare ecc.

    Mentre sono assorto nei miei pensieri sento le campane della mandria di mucche belle pasciute che Irene, la pastora, conduce al recinto dai pascoli per poterle mungere. Irene non ha ancora trent’anni, ha preso in mano l’azienda di famiglia dopo la morte del padre e produce burro e formaggi. Vive cinque mesi l’anno in alpeggio e lavora 365 giorni all’anno, senza ferie estive, senza settimane bianche né viaggi tropicali o visite nelle capitali europee. Una vita impensabile per un cittadino. […]

    Fino a pochi anni fa non avrei mai scambiato la mia vita con la sua. […] Ma quel giorno non è stato così. Quel giorno forse, grazie alla frase di Anna, qualcosa all’interno del castello di sicurezze faticosamente costruito in anni di vita urbana cominciava a scricchiolare. Improvvisamente affioravano nella mia mente le difficoltà, che non sono prerogativa dei progetti di vita in quota ma esistono e aumentano velocemente anche in città. Precariato, aumento del costo della vita, peggioramento dei servizi, deficit ambientale.

    Crescente insofferenza. Quel mondo idilliaco di crescita costante, in cui siamo cresciuti noi figli negli anni Settanta e Ottanta, che vedevamo la condizione dei nostri genitori come «minimo sindacale», ma che sicuramente, ne eravamo convinti, saremmo diventati «qualcosa di più», si era sgonfiato come un sufflé levato dal forno all’inizio degli anni Novanta. […] Allo stesso tempo in montagna, dove fino a poco tempo fa si pensava che la marginalità fosse l’unica cosa certa, qualcosa sta cambiando. Alcuni pionieri della «generazione perduta» cominciano a dare vita a un processo di vera e propria «fuga dalla città». Nascono progetti di vita innovativi, basati su modelli alternativi di sviluppo nel campo della green economy, con maggiore attenzione alla valorizzazione delle risorse naturali locali. […]

    Una «generazione perduta» che cerca un riscatto in un territorio dove è ancora possibile «sognare» dei progetti di vita realizzabili. […] La montagna comincia a essere vista da qualcuno come la «terra promessa», dove le giovani generazioni possono ambire a ruoli sociali ormai impensabili in città. E la «generazione perduta» dà il suo contributo in termini numerici all’attuale fase di «ritorno alla montagna». Un ripopolamento alpino, o meglio, come sottolineano più prudentemente gli studiosi, «un’inversione di tendenza dello spopolamento», che da alcuni casi sporadici oggi è diventato un vero e proprio fenomeno.

    Osservato e studiato dai maggiori esperti di dinamiche demografiche alpine, in Italia come nel resto d’Europa: Manfred Perlik, Federica Corrado, Oliver Bender, Ernst Steinicke e tanti altri, sono d’accordo nel sostenere che sia un fenomeno in atto su tutto l’arco alpino. Tanto che l’antropologo, ex presidente del Cai nazionale e amico, Annibale Salsa si spinge a sostenere che si tratti di: «una delle tendenze socio-culturali più caratteristiche della postmodernità, fenomeno legato alla crisi dell’urbanesimo occidentale, reazione al degrado ecologico e sociale della città moderna».

    Un ritorno di neorurali nostalgici del «tempo che fu», frikkettoni o post-sessantottini, pronti a rifiutare comodità e servizi per rinchiudersi in un posto isolato e da eremiti?

    Nient’affatto, si tratta invece di cittadini che scelgono di vivere in montagna rivendicando a gran voce servizi e comodità. Persone che, per assurdo, nel momento in cui lasciano i centri urbani di pianura per trasferirsi in montagna, riaffermano il diritto alla città, anche nel cuore delle Alpi. Un diritto alla città inteso come civitas, fatta di legami sociali, servizi e istituzioni capaci di offrire ai cittadini, dovunque risiedano, i vantaggi di una vita, per l’appunto, civile.

    Tutto vero. Tutto provato, studiato e visto personalmente, in prima persona, anche attraverso la partecipazione all’ultima ricerca sui nuovi montanari, portata avanti insieme ai colleghi di Dislivelli per ben due anni, percorrendo in lungo e in largo le valli dell’Arco alpino italiano, da Imperia a Trieste. Eppure io, in fondo, seppur tradito, la città la amo ancora follemente. E forse, con buona pace di Anna, non me la sento di abbandonarla. E poi faccio il giornalista, lavoro con le parole e non con le bestie o con la terra. Anche se ormai, grazie al telelavoro, di colleghi che hanno preso la strada dei monti qualcuno lo conosco. E forse potrei provarci anch’io.

    Insomma basta. Non è ancora il momento. Ma allo stesso tempo non voglio far cadere nel nulla l’ipotesi di Anna, perché a volte i bambini vedono più lontano degli adulti. Io non ci credo ancora che la città sia diventata ormai invivibile per una parte della mia generazione, e anche se il castello delle mie sicurezze urbane vacilla, non sono ancora del tutto convinto a lanciarmi nella costruzione di nuovi scenari montanocentrici possibili. Sono cresciuto nel mito del progresso, in un periodo nel quale il modello occidentale, per l’appunto urbanocentrico, sembrava non avere rivali. Crescita, e libertà, e democrazia, ed Europa. Tutti in pace, potenzialmente ricchi, felici e contenti. Cadevano i muri, si affievolivano le grandi ideologie e trionfavano ovunque democrazia e progresso. Non rimaneva che attendere che il nostro modello, vincente, si allargasse pian piano in tutto il mondo, a macchia d’olio. Eppure Walter Benjamin, già a partire dalla prima metà del Novecento, ci aveva ammonito attraverso l’osservazione del quadro di Klee Angelus Novus, di come l’angelo della storia, con il viso rivolto al passato, vede la catena di eventi susseguirsi come una sola catastrofe, «che accumula senza tregua rovine su rovine». Vorrebbe fermarsi, «destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle».

    La tempesta lo spinge, suo malgrado, nel futuro, «mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui e al cielo. Ciò che chiamiamo progresso – ammonisce Benjamin – è questa tempesta».

    […] La resilienza delle zone marginali, montagna in testa, diventa uno dei punti di partenza per pensare e costruire nuovi sistemi. Ma non si tratta di nostalgie o tentativi di ritorno al passato. Quanto piuttosto di una rilettura di ciò che di buono c’era un tempo con nuovi strumenti innovativi. Si tratta di persone pronte a investire soldi, tecnologia, conoscenze in nuovi progetti di vita, con un occhio di riguardo alla sostenibilità e l’altro alla qualità della vita. La montagna vista come un laboratorio di innovazione alla ricerca di nuovi modelli di vita più equilibrati, attenti all’intorno, alla felicità e alla salute propria e della famiglia.

    Una teoria affascinate, senza dubbio. Ma sarà poi veramente così lineare, da sembrare una scelta semplice, quasi ovvia? Conosco tanti casi di successo quanti fallimenti. E prima di pensare a una scelta così importante, per me e per la mia famiglia, prima di condividere questi sentimenti con la mia compagna, voglio provare a capirci di più attraverso l’esperienza di chi questa avventura l’ha vissuta davvero. Andrò a trovare i pionieri, quelli che si sono trasferiti dalla città e riescono a vivere in montagna, per provare a confrontarmi con loro e capire se è davvero un’opportunità o se è solo l’ennesima illusione. Per capire se la nuova «terra promessa» della «generazione perduta» può davvero essere, anche, la montagna. […]

    Solo rimanendo nella zona del triangolo industriale della Pianura Padana, GeMiTo per intenderci, conosco decine di coetanei che si sono trasferiti in montagna. Partiti da Torino, Milano e Genova, le tre città simbolo del «miracolo economico» che negli anni Cinquanta e Sessanta trasformò non solo il modo di vivere, le abitudini della popolazione, l’aspetto dei capoluoghi del nordovest e il paesaggio circostante, ma anche i rapporti di queste città con le valli alpine limitrofe. Proprio in questa parte del paese, anche secondo i dati dell’Istat, a partire dal 2009, si sentono di più i contraccolpi della crisi economica, che si accanisce particolarmente sul settore industriale.

    Sono ormai tante le persone «in fuga» verso la montagna e molte di loro le conosco bene. Non mi resta che andarle a trovarle, stare con loro, farmi raccontare le motivazioni della loro scelta, le esperienze e le prospettive per avere un quadro il più possibile completo e decidere cosa rispondere ad Anna.

    Note