Le periferie possibili tra Milano e Valgrana

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    1. Delle periferie pensiamo di sapere tutto, i problemi e le soluzioni, le parole e le cose.  Abbiamo seminari e atti di convegni, bibliografie e pratiche, norme e progetti, bandi di finanziamento e qualche storta policy.

    Abbiamo esperienze e lezioni apprese. Abbiamo la testa piena di idee, spesso buone, ma non abbiamo valutazioni: non sappiamo realmente cosa, delle passate programmazioni, ha funzionato e cosa no. Ancor meno, abbiamo credibili strategie.

    Abbiamo fatto notevoli passi avanti, insieme ad un certo incomprensibile attardarci su posizioni che si pensavano superate e perfino ad alcuni passi indietro.

    2. Tra i passi indietro, c’è la retorica del rammendo, che riconduce il risveglio delle risorse latenti delle periferie al gesto dell’architetto.

    Malgrado non ci sia nessuna evidenza empirica che indichi, nell’arrivo di un tale professionista, il raggiungimento del risultato atteso, il rammendo ha conosciuto una discreta fortuna, mettendo per una certa fase, al centro delle strategie di rigenerazione urbana, la figura dell’architetto condotto e distogliendoci così da narrazioni più mature. La mia impressione è che siamo oggi fortunatamente nella fase calante di questa retorica.

    Tra gli evergreen, c’è l’idea che nella periferia si registrino delle mancanze. Di queste, la più importante è ritenuta quella relativa al mix funzionale: il cosiddetto de-mix infatti connoterebbe le parti di città povere di funzioni di pregio, dove la compresenza di più funzioni, che invece caratterizzerebbe le parti di pregio, è limitata.

    Questa definizione di periferia è fallace per due ragioni: ripropone una definizione del problema costruita sulla mancanza della soluzione, fornendo così una sponda a chi ha pronta la propria soluzione; contiene una “descrizione normativa”, per la quale basta nominare l’assenza per individuare, senza lo sforzo della riflessione progettuale, la proposta che la colmerà.

    3. Tra i passi in avanti, c’è il riconoscimento dell’emergere di “segnali di futuro”, di city maker che, nelle parti di città che chiamiamo “periferie”, si danno da fare con competenza, intraprendono, trasformano parti neglette e immobili abbandonati erogando servizi con la comunità.

    Sono la cifra del cambiamento in atto, nella produzione dei servizi pubblici, nelle forme del lavoro, nei modi di abitare, nella creazione di coesione sociale, nelle nostre strategie quotidiane di cura del benessere individuale e collettivo, nelle pratiche culturali e della mobilità. Nell’area milanese sono particolarmente numerosi, ma programmi di abilitazione delle loro capacità (come Culturability, promosso da Fondazione Unipolis) hanno permesso di riconoscerli al lavoro in molte parti del nostro Paese, compreso il Mezzogiorno.

    Io penso convenga occuparsene. Il loro riconoscimento tuttavia solleva questioni di non poco conto, con riferimento alla rappresentazione delle periferie e al disegno delle politiche per le periferie. Sollecita infatti cambi di sguardo e sovvertimenti nel modo di mettere a tema la relazione tra “energie sociali” e strategie di rigenerazione urbana.

    4. La presenza dei city maker va assunta come un indizio. Fa intendere che le periferie sono lo spazio del possibile e sollecita la loro messa a tema come campo di sperimentazione per nuove policy. Cambiano le opportunità, le sfide si presentano diverse, ma anche problemi antichi assumono aspetti differenti:

    i) emergono forme di territorializzazione della produzione e del lavoro che investono in primo luogo le parti della città più disponibili alla trasformazione;

    ii) i profili della povertà si riarticolano: in aggiunta alle antiche, si generano nuove cause di esclusione (gli anziani soli, coloroi che vivono condizioni di divario e deprivazione prima sconosciute, come quella digitale);

    iii) la domanda di casa cambia: i soggetti che la esprimono formulano richieste complesse, di mura e di servizi connessi, di privacy e di condivisione;

    iv) la produzione culturale si nutre di nuove pratiche sociali e i suoi protagonisti sono i più diversi; v) la difficoltà delle città di rispondere agli effetti del global change non è omogenea, più acuta essendo dove società e ambiente sono più fragili.

    5. È bene tener presente inoltre che i city maker stabiliscono una relazione peculiare tra il proprio agire e il campo dove questo si svolge.

    Tale peculiarità sta nel fatto che ciò che determina il loro ingaggio non è la risposta ad una domanda, ma il lavorare sulla “corrispondenza” tra sistemi di opportunità, proprie competenze, risorse e condizioni di contesto: “the task of the maker is to bring the pieces into a sympathetic engagement with one another, so that they can begin to correspond” (T. Ingold, Making. Anthropology, Archeology, Art and Architecture, Routledge, 2013, p. 69).

    Essi definiscono la propria azione per rapporto ad uno specifico campo di intervento, che conoscono bene, dove magari già operano: è la città o il quartiere dove sono nati, è l’immobile abbandonato su cui hanno puntato gli occhi da tempo perché lì pensano di poter dispiegare il loro progetto imprenditoriale, è l’opportunità che i bandi della fondazione o dell’amministrazione comunale hanno costruito per loro.

    Le azioni dei city maker rappresentano un materiale resistente per le politiche pubbliche, perché non sono la soluzione ad un qualche problema definito prima ed isolatamente rispetto alla loro azione. È la loro mobilitazione a definire il problema; per questo non sono associabili al modello del “vedo e provvedo” (che è quello tipico dell’azione pubblica di stampo riformista).

    Si attivano mossi da una forte intenzionalità progettuale. Potremmo dire che lavorano su progetti estremi:

    i) perché rappresentano uno “sforzo estremo dell’immaginazione”, un tentativo di affrontare situazioni problematiche per le quali la soluzione non è a portata di mano e dunque il progetto è strumento di indagine;

    ii) perché, in situazioni di questa natura, il progetto a volte segue l’azione o ne diventa una delle componenti;

    iii) perché non disegnano direttamente la soluzione, ma mettono in campo una proposta per interrogare i modi e le condizioni con cui giungere a definire una soluzione.

    Per queste ragioni, ha senso chiamarli maker, perché sono artigiani nel disegnare e implementare forme di azione a base locale. Dal loro agire, le politiche pubbliche potrebbero apprendere, per passare dal modello dell’analytical problem solving a quello (più efficace) dell’interactive problem solving (Lindblom). Alle politiche, i city maker servono, perché sono i compagni di strada dell’innovazione: non si produce innovazione in assenza degli attori dell’innovazione.

    6. Qualche riflessione su Milano, perché qui la capacità della città di produrre innovazione è molto elevata, la relazione tra maker e politiche pubbliche è sperimentata da tempo e il tema delle periferie è collocata dall’Amministrazione comunale ai primi posti dell’agenda politica.

    Il Comune sta elaborando un documento, denominato Piano Periferie, che concentra gli investimenti su cinque ambiti di intervento: Niguarda-Bovisa, Adriano-via Padova, Corvetto-Porto di Mare-Chiaravalle, Giambellino-Lorenteggio, Gallaratese-QT8.

    Tali ambiti, individuati per disponibilità di risorse finanziarie già programmate, livello di criticità che mostrano, presenza di dotazioni di proprietà pubblica (in particolare, immobili e patrimonio residenziale), sono perimetrati seguendo il confine dei Nuclei di Identità Locale (NIL), uno strumento analitico del Piano di governo del territorio. Le operazioni previste riguardano sia opere (ristrutturazione edilizia, mobilità, riqualificazione attrezzature, illuminazione, bonifiche), sia servizi (inclusione sociale, community hub, cultura, educazione).

    Sempre il Comune ha appena promosso un bando a favore di soggetti no profit che, per un ammontare di 540.000 euro, finanzierà progetti di animazione territoriale relativi a cultura, sport, educazione, formazione, coesione sociale, welfare. I progetti possono essere relativi ad uno solo, oppure a tutti e cinque gli ambiti di intervento. Alla scadenza del bando, sono giunte oltre 150 proposte.

    7. È aperta una serie di interrogativi.

    In primo luogo, sarà interessante capire come e in che misura i due dispositivi (Piano Periferie e bando) interagiranno.

    Sembra di capire che il primo affidi al secondo il compito di incontrare i city maker: ma il riconoscimento di pratiche di innovazione, quale effetto produrrà sul Piano? Il Piano riconosce in sostanza gli ambiti di intervento sulla base dell’offerta esistente di interventi pubblici: quali sono i meccanismi attraverso i quali si pensa di ottenere la contaminazione tra la prospettiva dell’operatore pubblico e quella delle “energie sociali”?

    La raccolta di 150 proposte è uno strumento di conoscenza articolata sulla città, che restituirà un quadro ricco della progettualità dal basso. Come potrebbe cambiare la rappresentazione delle periferie milanesi, una volta riconosciute le forme di azione degli innovatori? Per altro, oltre a questo bando, vi sono numerose altre fonti cui attingere: ricerche che hanno mappato i “segnali di futuro”, forme di azione che hanno permesso di far emergere l’innovazione sociale (altri bandi, call, contributi a progettualità diffuse).

    Che immagine della città ne risulta? Certamente, una mappa meno equipotenziale di quella fornita dal Piano: emergeranno verosimilmente aree con network più densi e altre con reti più frammentate; ambiti di maggiore complessità, dove operano attori di diverso tipo (attori sociali, ma anche imprese e università, istituzioni e agenzie pubbliche) e di diverso livello (locale metropolitano, nazionale, europeo).

    Una tale prospettiva farebbe risaltare le pratiche e la spazialità che esse definiscono: emergerebbero gli attori e le reti delle loro interazioni.

    Sottolineo che non si tratta di un passaggio banale, perché permetterebbe di spostare l’attenzione da un approccio area-based, che definisce il perimetro problematico entro cui agire (un approccio sottoposto a critica da quasi vent’anni), a uno che identifica ambiti di intervento basati sul riconoscimento di forme di azione innovative.

    Inoltre, un Piano periferie che riconoscesse questo tipo di pratiche, che strategie dovrebbe darsi? In presenza di differenti attori, risorse, opportunità di azione, le strategie saranno diverse, per modello di intervento (di fertilizzazione oppure di consolidamento di pratiche) e per approccio (di agopuntura o terapia intensiva), direbbe Giovanni Laino.

    In definitiva, il confronto con i city maker permetterebbe di articolare una rappresentazione delle periferie più problematica.

    Ormai è chiaro che, per poter cambiare contenuti e stili delle politiche, abbiamo bisogno di intercettare gli innovatori.

    Sorprende che essi, numerosissimi a Milano, siano assunti nel Piano periferie come completamento dell’azione pubblica, invece che come elementi costitutivi di essa.

    Eppure vi sono progetti della stessa amministrazione comunale, nei campi del lavoro, della manifattura, del commercio, dell’agricoltura, del welfare, che si sono confrontati con il tema dell’innovazione, lanciando sperimentazioni e provando a consolidarle.

    Nelle politiche di rigenerazione urbana, sembra ancora prevalente la logica dell’opera pubblica, la quale, per definizione, pertiene all’amministrazione pubblica.

    A questa spetta l’innesco, che consiste nel garantire la cantierabilità (tutti i bandi nazionali sulle periferie l’hanno messa al primo posto tra le proprie finalità), prima che la buona progettazione. Infatti, se la prima è risolvibile con una procedura, la seconda implica un processo: è dunque rischiosa, perché costringe ad aprire all’interazione sociale, e appare infida per chi, tecnico o decisore politico, vuole portare a casa il risultato in breve tempo (ma per fare cosa?). Pure il Piano periferie di una città come Milano non pare sfuggire a questa logica.

    8. Da questo punto di vista, sostengo che la Strategia nazionale per le aree interne ha molto da insegnare alla rigenerazione urbana.

    Essa non muove dalla lista degli interventi pubblici, ma sollecita i partenariati locali a definire una agenda di problemi e di opportunità di intervento che riconosca il contributo degli innovatori.

    Rifiuta la logica della cantierabilità (che raccoglie interventi definiti isolatamente rispetto ai problemi), ma lavora attivamente alla costruzione del problema, per far maturare soluzioni pertinenti. Invece di una strategia fondata sulla disponibilità di progetti pubblici, sollecita gli innovatori a prendere la parola e su di essi costruisce la filiera dell’intervento.

    Mi interessa, perché è una operazione da progettisti arditi: lancia una sfida politica e culturale, si alimenta di un policy design sofisticato, introduce innovazioni di metodo, sperimenta sul campo, mobilita competenze.

    9. Penso, in conclusione, che sarebbe opportuno interrogarsi a fondo sui modi per diffondere innovazione nelle politiche pubbliche. Sono almeno vent’anni che l’incremento dell’institutional capacity è in agenda.

    Tra i protagonisti di una stagione di riforme della pubblica amministrazione, c’è Fabrizio Barca. L’ultima sua proposta, rivolta alla Commissione Europea, è quella di reclutare 500 pionieri che lavorino sul campo per l’innovazione delle politiche territoriali.

    L’idea è brillante ma rischia di riprodurre una logica che temo consunta: introdurre elementi estranei per cambiare, grazie ad avanguardie illuminate, il corpo estenuato della pubblica amministrazione. Conviene insistere?

    Nel frattempo, si è costituita – scrivono Giovanni Carrosio e Filippo Tantillo – “una comunità di militanti delle aree interne, formata da piccoli imprenditori, dirigenti scolastici, amministratori, policy makers, dirigenti pubblici, etc., che agiscono con una comune intenzionalità”.

    L’ho vista riunita nelle giornate del Forum nazionale ad Aliano lo scorso maggio. Penso sia una ricchezza, per la Strategia e non solo. Conosco inoltre schiere di city maker: gente in gamba, che sa progettare e fare. Io vorrei farli incontrare: favorire il dialogo tra quelli che vogliono “uscire dal vecchio mondo” sarebbe un esperimento interessante.

    Credo avrebbero molto da scambiare e molto da scavare insieme. E poi, un esercizio di peer-to-peer learning tra Valgrana e Milano non me lo vorrei perdere.


    Immagine di copertina: ph. di Luca Bravo da Unsplash

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